E’ più o meno da quindici anni che la cosiddetta opposizione a Berlusconi, quella rappresentata dal PD, nelle sue menti più “illuminate”, oltre a non aver mosso un dito per rimuovere quando era possibile il macigno asfissiante del conflitto di interessi, si affanna, coerente ad una politica masochista di accomodamento, a pontificare contro il presunto giustizialismo di chi si richiama semplicemente allo stato di diritto e alle regole in vigore nelle democrazie liberali. Sono quindici anni che una classe politica sempre più screditata ed autoreferenziale invoca il cosiddetto “primato della politica” per dirimere il cosiddetto “conflitto tra politica e giustizia” causato of course dai magistrati che “escono dal recinto”.
Adesso che i nodi stanno venendo al pettine per il presidente del Consiglio, ma non solo per lui, la reazione della sua parte politica, con l’eccezione non irrilevante di Fini, è di sostanziale acquiescenza ai proclami quotidiani contro il complotto dei giudici, all’appello alle urne perché scelgano tra lui e Spatuzza, versione aggiornata del plebiscito tra Gesù e Barabba, alla crociata contro le toghe rosse annidate nelle procure di tutt’Italia.
Sul fronte dell’opposizione diessina c’è al timone quel Bersani che solo qualche mese fa a chi gli faceva una domanda sulla giustizia e sull’uso personale che il presidente del consiglio ne stava facendo, arricciava il naso e cambiava discorso dichiarando che della giustizia e dei processi del premier agli italiani non importava niente e che lui si occupava di problemi ben più importanti. E accanto ha esponenti di alto profilo come Enrico Letta nipote del Gianni, “il vice premier che tutti vorrebbero avere”, che dichiara testualmente “E’ legittimo che il presidente del Consiglio si difenda nel processo e dal processo, anche se non è da statista”. E al di là dell’infelicità di un’affermazione che si commenta da sola, non deve nemmeno essere considerata estemporanea e casuale perché a ben vedere dietro c’è un reiterato pensiero teorico che poi sarebbe quello di Luciano Violante il quale di recente, ma non da ora, non ha esitato a contrapporre principio di legalità ed uguaglianza davanti alla legge all’investitura democratica, finendo per accreditare gli strepiti e le offensive eversive del premier-imputato.
Già all’indomani della sentenza Mills che confermava in appello la condanna per il corrotto chiamando direttamente in causa il corruttore rimasto senza scudo, Luciano Violante ha commentato “ E’ evidente che un presidente del Consiglio condannato per un grave reato non può restare al suo posto in nessun paese democratico. Nell’interesse del paese è auspicabile che Silvio Berlusconi sia scagionato dall’accusa…”. Ma siccome l’auspicio potrebbe non realizzarsi e all’orizzonte si stanno addensando nubi di altra ed ulteriore consistenza, allora con logica “stringente” ma disancorata dalla verità dei fatti Luciano Violante, ha elaborato il seguente ragionamento, già espresso a Ballarò e ribadito sulle pagine de La Stampa. E cioè che si stanno confondendo due distinte questioni “una relativa al processo in corso nei confronti del presidente del Consiglio e l’altra riguardante i conflitti tra magistratura penale e presidente del Consiglio”.
Il fatto che non si tratti di un processo, ma di tre in corso, che ce ne siano già stati più di una quindicina e che l’offensiva a cui stiamo assistendo non si riferisca tanto ed esclusivamente a quelli in corso ma a quelli che potrebbero aprirsi e di cui le testate di proprietà del presidente del Consiglio annunciano ogni giorno l’inizio, a scopo intimidatorio nei confronti dei magistrati, non sembra per Violante degno di rilievo. Sulla prima questione, dato che si è espressa per la seconda volta la Corte Costituzionale, il giurista si ferma davanti all’evidenza che “in un regime democratico non può essere approvata una proposta finalizzata a paralizzare uno specifico processo in corso, fosse anche nei confronti del presidente del Consiglio”.
Ma la questione “più complessa” sarebbe quella dei “conflitti tra politica e magistratura”, come se questa fosse indipendente dalla prima e soprattutto come se non potesse essere automaticamente evitata dalla difesa nel processo invece di ingaggiare una crociata, ogni volta, contro il proprio giudice naturale.
Ma qui evidentemente il problema deve essere di “carattere” come ha spiegato l’amico Dell’Utri, un carattere che impedisce a Silvio di mettere piede in un’aula di giustizia.
Perché a volere essere coerenti fino in fondo e a volersi inchinare fino a prostrarsi al cosiddetto primato della politica e della investitura popolare, non si vede quale sia il problema, se Berlusconi come ha detto non si dimetterebbe per nessuna condanna e se il 63 % degli italiani è con lui, tanto più che a parte Di Pietro e la solita piazza giustizialista e giacobina, glielo chiede. Dunque dove sarebbe il conflitto tra magistratura penale e potere politico se, come ha ripetuto spesso e volentieri anche lo stesso Violante, le sentenze della magistratura incidono ben poco sulle scelte degli elettori, e se la maggioranza degli italiani se ne strafrega di essere rappresentata da un presidente del Consiglio condannato per corruzione e magari anche per associazione mafiosa?
Ma siccome le cose non stanno esattamente così, e Berlusconi pretende che nessun processo che lo riguarda possa fisiologicamente chiudersi con una sentenza di condanna anche perché bisogna fare i conti con il contesto internazionale dominato notoriamente da comunisti e toghe rosse, allora il problema c’è e bisogna risolverlo a monte. E alle ghedinate vistosamente fallite è opportuno sostituire qualcosa di più solido.
Così ritorna il violantepensiero che parte dalla necessità di “uno statuto particolare” per “gli eletti alle massime cariche dello Stato” che esisterebbe “in tutte le democrazie occidentali”, fuorché in Italia, è sottinteso.
Quindi come se in Italia non esistessero già delle precise immunità a favore degli eletti, l’abbiamo visto qualche giorno fa quando è stata negata l’autorizzazione per l’arresto di Casentino, per sancire “la prevalenza del principio democratico sul principio di legalità” Luciano Violante, propone, se si capisce bene, che ogniqualvolta un magistrato rinvia a giudizio un eletto o una carica di governo, non meglio definita, ed il Parlamento o il Governo (ovviamente) si oppongono, a dirimere la controversia sia chiamata la Corte Costituzionale.
Sembrerebbe di primo acchito una proposta di corposa e alquanto discutibile revisione costituzionale che inciderebbe profondamente sull’equilibrio tra i poteri dello Stato, con effetti molto più dirompenti sull’ uguaglianza formale dell’abrogata autorizzazione a procedere e che implicherebbe oltretutto un sovraccarico non ben quantificabile per la Corte Costituzionale, già gravata dalla mole dei conflitti di attribuzione.
Ma al di là di qualsiasi altra considerazione la risposta più sintetica ed appropriata a Luciano Violante, l’uomo che tiene aperto il varco delle “riforme condivise”, l’ha data sempre su la Stampa Barbara Spinelli criticando “la presunta antinomia tra principio di democratico e di legalità” su cui si fondano le democrazie liberali, mutuati peraltro dalle nozioni di isonomia (legge uguale) ed isocrazia (voto uguale) dell’ Atene di Pericle e di Tucidide.
“L’antinomia non esiste per il semplice fatto che la democrazia – la Costituzione lo prescrive chiaramente nell’art. 3 – si fonda sulla legalità e sull’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Separare i due principi distrugge sia la democrazia sia la legalità”.