Dall'uomo incapace di tutto alla decrescita felice

di Maurizio Pallante - 18/05/2010
PIL, crescita, bene uguale merce e la ricchezza fatta di denaro

Generalmente si crede che la crescita economica consista nella crescita dei beni materiali e immateriali che un sistema economico e produttivo mette a disposizione di una popolazione nel corso di un anno. In realtà l’indicatore che si utilizza per misurarla, il prodotto interno lordo, si limita a calcolare il valore monetario delle merci, cioè dei prodotti e dei servizi scambiati con denaro. Ma il concetto di bene e il concetto di merce non sono equivalenti. Non tutti i beni sono merci e non tutte le merci sono beni.

La frutta e la verdura coltivate in un orto familiare per autoconsumo sono beni qualitativamente molto migliori della frutta e della verdura acquistate al supermercato. Ma non passano attraverso una intermediazione mercantile, per cui non sono merci.

Percorrendo un tragitto in automobile si consuma una certa quantità della merce carburante. Quindi si contribuisce alla crescita del prodotto interno lordo. Se per percorrere lo stesso tragitto si trovano intasamenti e si sta in coda, il consumo della merce carburante cresce; di conseguenza, il prodotto interno lordo cresce di più. Ma occorre più tempo per arrivare dove si vuole arrivare, aumentano i disagi e la fatica del viaggio, aumentano le emissioni di anidride carbonica e di inquinanti in atmosfera.

L’annullamento della distinzione tra il concetto di bene e il concetto di merce è il fondamento su cui si basa il paradigma culturale della crescita. Se i beni si identificano con le merci, la crescita della produzione di merci comporta per definizione un aumento della disponibilità di beni e, quindi, un aumento apparente del benessere.

Nel paradigma culturale della crescita, l’indicatore della ricchezza è il denaro. Se i beni si identificano con le merci, si è tanto più ricchi quanto maggiore è la quantità di merci che si possono acquistare.

Un sistema economico fondato sulla crescita del prodotto interno lordo ha bisogno di sostituire progressivamente i beni (che non lo fanno crescere) con le merci (che lo fanno crescere), inducendo a credere che queste sostituzioni costituiscano miglioramenti della qualità della vita e condannando alla damnatio nominis chi non le effettua.

Un sistema economico fondato sulla crescita del prodotto interno lordo è innovatore per necessità intrinseca. Per accrescere l’offerta di merci ha bisogno di continue innovazioni di processo finalizzate a incrementare la produttività, cioè le quantità prodotte da ogni occupato nell’unità di tempo. Per accrescere la domanda ha bisogno di continue innovazioni di prodotto finalizzate a rendere obsolete in tempi sempre più brevi le merci acquistate, in modo da abbreviare i tempi di sostituzione. Entrambe le innovazioni dipendono fondamentalmente dagli sviluppi della tecnologia, che a loro volta dipendono dagli sviluppi della ricerca scientifica, anche se nelle innovazioni di processo hanno un ruolo decisivo le innovazioni organizzative e nelle innovazioni di prodotto hanno un ruolo altrettanto importante le innovazioni estetiche. Maggiori sono le innovazioni, più rapida è la loro successione, maggiore è la crescita della produzione e del consumo di merci. In un sistema economico che misura la crescita del benessere con la crescita del prodotto interno lordo, l’innovazione diventa un valore in sé. Nuovo è bello, migliore, più evoluto. Vecchio è brutto, peggiore, più arretrato. Di conseguenza il nuovo deve sostituire il vecchio.

La destra e la sinistra sono due varianti di un identico paradigma culturale che ha come capisaldi la crescita, l’innovazione e il progresso.

Nessuno a destra e a sinistra nutre il minimo dubbio sull’utilità e la necessità della crescita economica. La crescita è il primo punto di ogni programma politico.

La crescita ha bisogno di esseri umani incapaci di tutto. Solo chi non sa fare nulla deve comprare tutto ciò di cui ha bisogno per vivere. Chi non sa fare nulla è assolutamente dipendente dalle merci.

Il paradigma culturale della crescita comporta il disprezzo del lavoro manuale e lo relega ad attività di rango inferiore.

La decrescita felice

Il bene distinto dalla merce, la ricchezza slegata dal denaro, l’autoproduzione


Il passaggio preliminare da compiere per costruire il paradigma culturale della decrescita è ripristinare la distinzione tra bene e merce.

Altrimenti la decrescita si identifica con la rinuncia, con una riduzione del benessere, con un ritorno al passato. Mentre invece è scelta, miglioramento della qualità della vita, proiezione nel futuro.

Se, dunque, il prodotto interno lordo misura il valore monetario delle merci e non prende in considerazione i beni, la decrescita indica soltanto una diminuzione della produzione di merci. Non dei beni.

Nel paradigma culturale della decrescita l’indicatore della ricchezza non è il reddito monetario, cioè la quantità delle merci che si possono acquistare, ma la disponibilità dei beni necessari a soddisfare i bisogni esistenziali. È povero chi non può mettere a tavola i pomodori di cui necessita, non chi non ha il denaro per comprarli.

Sostenere la necessità della decrescita significa pertanto collocarsi al di fuori della dialettica del consumo e rimettere in discussione il paradigma culturale che ha caratterizzato le società occidentali dalla rivoluzione industriale a oggi.

Un sistema economico libero dall’obbligo della crescita non deve sostituire progressivamente la produzione di beni per autoconsumo con la produzione di merci, ma continua a produrre sotto forma di beni tutto ciò che prodotto sotto forma di merce comporterebbe peggioramenti qualitativi, limitandosi a produrre sotto forma di merce soltanto ciò che non può essere autoprodotto sotto forma di bene. Un vasetto di yogurt comprato, prima di raggiungere la mensa del consumatore percorre qualche migliaio di chilometri, quindi contribuisce alla crescita dei consumi di fonti fossili e dell’effetto serra; produce tre tipologie di rifiuto: carta, plastica e alluminio; ha bisogno di sostanze conservanti che spesso uccidono i fermenti lattici riducendo il suo valore nutrizionale; incorpora nel prezzo di vendita oltre i costi di trasporto e confezionamento, i costi di produzione industriale, di intermediazione commerciale e pubblicitari. Uno yogurt autoprodotto non deve essere trasportato, non produce rifiuti, è ricchissimo di fermenti lattici vivi e, non richiedendo nessun costo oltre quello del latte, ha un prezzo inferiore di due terzi. Contribuisce alla decrescita del prodotto interno lordo, ma è qualitativamente migliore, migliora la qualità ambientale riducendo le emissioni climalteranti e i rifiuti, richiede meno denaro per soddisfare lo stesso fabbisogno alimentare e, di conseguenza, permette di lavorare meno e di avere più tempo per sé. La decrescita indotta dall’autoproduzione dei beni è fattore di felicità.

E chi si pone l’obbiettivo della decrescita non ha pregiudizi antiscientifici o antitecnologici, come insinuano i paladini della crescita. La decrescita non richiede meno tecnologia della crescita, ma uno sviluppo tecnologico diversamente orientato.

Esempio. Per costruire un edificio che non ha bisogno dell’impianto di riscaldamento per mantenere una temperatura interna di 20 gradi con una temperatura esterna di 20 gradi sotto zero ci vuole più tecnologia di quella che occorre a costruire una casa che consumi 20 litri di gasolio al metro quadrato all’anno, come fanno in media gli edifici costruiti nel dopo-guerra in Italia. Ma un edificio che ha bisogno di una minore quantità di energia contribuisce a ridurre il prodotto interno lordo. Tutte le innovazioni tecnologiche che riducono l’impronta ecologica, ovvero la quantità di superficie terrestre necessaria a ogni individuo per ricavare le risorse di cui ha bisogno, consentendo al contempo la loro rigenerazione, comportano una decrescita economica che contribuisce a migliorare la qualità degli ambienti e la vita degli esseri umani. Una decrescita felice.

Il paradigma culturale della crescita implica l’impoverimento culturale degli esseri umani. Il paradigma culturale della decrescita, riducendo l’incidenza delle merci nella soddisfazione dei bisogni esistenziali e potenziando l’autoproduzione di beni, richiede lo sviluppo e la diffusione di un sapere finalizzato al saper fare che rende più autonomi e liberi.

Il paradigma culturale della decrescita comporta una rivalutazione del lavoro manuale e artigianale, il superamento del lavoro parcellizzato, una ricomposizione unitaria del sapere contro la super-specializzazione che fa perdere la visione d’insieme di ciò che si fa, la riunificazione del sapere come si fanno le cose (cultura scientifica) con la ricerca del senso per cui si fanno (cultura umanistica).

Per arrestare la crescita e trasformarla in decrescita basta ridurre la domanda di merci. Poiché nessuno può obbligare qualcuno a comprare qualcosa, i consumatori hanno nelle loro mani un’arma molto potente, soprattutto in considerazione del fatto che nei paesi industrializzati la crescita dei consumi è ormai sostenuta dall’inutile. Nel paradigma culturale della decrescita la sobrietà è uno dei valori fondanti.

La sobrietà non è solo uno stile di vita, ma anche una guida per orientare la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche a ottenere di più con meno. È la capacità di saper distinguere il più dal meglio, la quantità dalla qualità.

La sobrietà però non basta. È condizione necessaria, ma non sufficiente per la decrescita. Consente di ridurre il consumo di merci, ma se non si affianca all’autoproduzione e allo scambio non mercantile di beni non libera dalla necessità di acquistare sotto forma di merci tutto ciò che serve per vivere.

La decrescita è elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure, la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso; distinguere la qualità dalla quantità; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato alla contemplazione. La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento.

Maurizio Pallante - Movimento per la decrescita felice - www.decrescitafelice.it - info@decrescitafelice.it

(testo ridotto e rielaborato da Samuele Bartolini per pensalibero.it con l’autorizzazione dell’autore; le parole in corsivo sono state introdotte solo a integrazione del testo)

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