Ego te absolvo: l'esposizione del crocifisso non costituisce violazione della Convenzione

di Gabriele Pazzaglia - democrazialegalita.it - 22/03/2011
Riflessioni sulla (poco) convincente posizione della Corte dei diritti dell'Uomo

Strasburgo, 18 marzo 2011. Brutta notizia per i laici europei, ma soprattutto per quelli italiani: la “Grande Chambre” della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha giudicato che l'esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica non viola la Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo.

Il Caso

La sentenza del 18 è il punto finale di un lungo percorso giudiziario. In sintesi: la ricorrente Sig.ra Lautsi, cittadina italiana, nel 2002 chiede al Consiglio d'Istituto della scuola frequentata da suo figlio la rimozione del crocifisso ottenendo, però, un diniego. Decide allora di impugnare questo rifiuto davanti al giudice amministrativo. Intanto il ministero, occupato dalla Moratti, sempre nel 2002 emana la direttiva 2666 nella quale ribadisce il compito dei dirigenti scolastici di assicurare la presenza del crocifisso e, nel 2003, si costituisce parte nel processo davanti al TAR dove sosterrà la legalità della presenza del crocifisso in base a due regi decreti (uno del 1924 e uno del 1928 che, benché adottati durante il fascismo, sono stati considerati ancora in vigore da un parere del Consiglio di Stato del 1988). Il TAR solleva una questione di legittimità costituzionale e rinvia gli atti alla Consulta la quale, però, decide di non entrare nel merito perché (in base all'articolo 134 della Costituzione) il suo giudizio è limitato alla conformità delle sole leggi mentre queste norme sono contenute in un regolamento la cui conformità rispetto alla Carta fondamentale dovrà essere, quindi, risolta dal giudice comune. Ripartito così il processo davanti al TAR questo, nel 2005, conclude che l'esposizione del crocifisso non viola né la legge né la Costituzione perché, nonostante sia anche un simbolo religioso è anche, e soprattutto, un simbolo storico-culturale, arrivando ad affermare che, anzi rappresenta «un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale».

La sentenza viene impugnata davanti al Consiglio di Stato che nel 2005 terminerà con risultato analogo seppur con una motivazione non coincidente visto che «non si può pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile, oggetto di arredo e neppure come ad un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come ad un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili quali tolleranza, rispetto reciproco etc...». Quindi, a differenza del TAR, secondo il quale il crocifisso è sia una suppellettile sia un simbolo religioso, per il Consiglio di Stato sembra non sia né l'uno né l'altro ma un simbolo che comunque rappresenta i valori costituzionali ed è quindi laico e lecito. La ricorrente trovando un controsenso che un simbolo religioso possa esprimere laicità (la quale dovrebbe essere, se non indifferenza, almeno equidistanza dalle religioni), si rivolge a Strasburgo.

La Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo e la sua Corte

Quale è l'origine e la competenza di questa Corte? Per capirlo occorre fare un passo indietro: alla fine degli anni '40 l'Europa, distrutta dalla seconda guerra mondiale ma vincitrice sul nazifascismo, raduna le sue forze migliori e, nel 1949, con il Trattato di Londra, crea, al fine di cooperare nella difesa delle libertà e dello stato di diritto, il Consiglio d'Europa (da non confondere con il Consiglio dell'Unione Europea: il primo è un organizzazione internazionale, il secondo, invece è “solo” un organo che fa parte di un'altra organizzazione, appunto, l'Unione Europea).

Questa organizzazione, il Consiglio d'Europa, per offrire ai cittadini degli Stati membri la garanzia che le barbarie dalle quali erano usciti non sarebbero state mai più permesse, decide di creare un sistema di protezione internazionale imperniato su un trattato internazionale, la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo: la sua redazione è molto rapida, tanto che già l'anno successivo, il 1950, viene aperta alla sottoscrizione (necessaria in quanto trattato). Il lavoro non finisce perché nei due anni successivi vengono ripresi in mano e discussi altri diritti che in primo momento erano stati “stralciati” dal progetto principale e che, una volta trovato l'accordo sulla redazione delle norme, vengono inseriti nel primo protocollo addizionale (seguito da altri 13, vedi l lista, atti con lo stesso valore giuridico della Convenzione). Il garante del rispetto di questi diritti è un organo giurisdizionale appositamente creato, la Corte Europea dei diritti dell'Uomo, composta da un giudice per ogni Stato, alla quale le persone che si trovano sotto la giurisdizione di uno stato membro (quindi anche i non cittadini), possono rivolgersi direttamente (unica istanza sovranazionale al mondo che permette questo tipo di accesso) per ottenere la condanna dello Stato che, con un suo atto (una legge, un atto amministrativo o una sentenza) ha disconoscimento uno dei diritti garantiti dalla Convenzione.

È bene precisare che mentre tutti gli stati che fanno parte dell'Unione Europea (27) fanno parte anche del Consiglio d'Europa, questo ha tra i suoi 47 componenti anche membri esterni alla UE (come San Marino, la Svizzera, la Norvegia, Andorra o la Russia). Infatti Praticamente tutti i paesi dell'area geografica europea fanno parte del Consiglio, hanno sottoscritto la Convenzione e quindi sono soggetti alla Corte. Tutti tranne due: la Bielorussia, in quanto dittatura, e lo Stato della Città del Vaticano in quanto monarchia assoluta molto indietro nel recepimento degli standard liberal-democratici: non c'è il voto alle donne (e nemmeno a tutti gli uomini ma solo ad una piccola parte della popolazione, circa un decimo, cioè i cardinali), le donne non possono fare carriera (non potendo farsi prete), non c'è la libertà di stampa, né quella di religione

Le sentenze della CEDU sul crocifisso: la seconda sezione, “il primo grado”

Nel novembre del 2009 la seconda sezione (che, composta da 7 giudici, è una sorta di primo grado rispetto all'eventuale giudizio definitivo della “Grande Camera” composta da 17 giudici) aveva giudicato, all'unanimità, che l'esposizione del crocifisso costituiva una violazione della Convenzione in quanto era contraria al combinato dell'articolo 9 della Convenzione (libertà di pensiero, di coscienza, e di religione) con l'art. 2 del primo protocollo addizionale (diritto all'istruzione): quest'ultimo è il centro del ragionamento in quando dispone che

«Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche».

Non è un caso che questa norma non si trovi nella Convenzione ma nel primo protocollo addizionale: non essendo stato trovato un accordo immediato il testo è stato successivamente ripreso e “limato”, parola per parola. Il punto del contendere era la libertà di insegnamento: per mettere d'accordo i fautori di questo diritto ed i suoi detrattori è stata costruita questa norma formata (in sostanza) da due negazioni. La seconda frase parla del rispetto che lo Stato, nel campo dell'educazione deve portare alle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori. Una concezione diametralmente opposta rispetto ai totalitarismi sconfitti nei quali lo Stato pretendeva di indottrinare il cittadino sin dalla più tenera età.

Questo articolo è stato al centro dell'argomentazione della sentenza della Seconda sezione la quale riassume la propria giurisprudenza ricordando che la scuola deve essere caratterizzata da un «pluralismo educativo, essenziale alla preservazione della "società democratica" come la concepisce la Convenzione» e che quindi l'educazione deve svolgersi in «un ambiente scolastico aperto e che favorisca l’inclusione piuttosto che l’esclusione»: per questo lo Stato deve vigilare affinché le informazioni siano rese in modo «oggettivo, critico e pluralistico» evitando forme di indottrinamento (cit. sent. Kjeldsen c. Danimarca del 7 dicembre 1976). Questa necessità è data dalla delicatezza della scolarizzazione dei bambini perché «il potere dello Stato è imposto a degli animi (des esprits) cui manca ancora la capacità critica che permette di prendere distanza rispetto al messaggio derivante da una scelta preferenziale espressa dallo Stato in materia religiosa». Il messaggio è chiaro: i bambini sono fragili e per questo devono crescere in un ambiente in cui possano liberamente sviluppare la propria personalità senza che questo percorso sia indirizzato da “suggerimenti” anche indiretti ad opera dello Stato. E, visto che tra i vari significati della croce quello religioso «è predominate», e che la Sezione non vede come la sua esposizione possa permettere il perseguimento del pluralismo educativo come strumento di conservazione della società democratica come concepita dalla Convenzione, dichiara violato l'art. 2 del primo protocollo (combinandolo con l'art. 9 per quanto riguarda, da una parte, l'estensione della tutela alla libertà di non credere e, dall'altra, al concetto di società democratica come limite alle restrizioni al diritto in questione). Incompatibilità quindi del crocifisso con il dovere di neutralità dello Stato(vedi traduzione sentenza e versione originale in francese o inglese).

La Grande Chambre, “la sentenza definitiva”

18 marzo 2011, ore 15. II Presidente della Corte Europea, il francese Jean-Paul Costa, accompagnato da un altro giudice, entra nell'aula della Grande Chambre per la lettura della sentenza. I posti riservati al pubblico sono quasi tutti pieni. Persone di varie nazionalità, giuristi, studenti, giornalisti, ovviamente qualche prete, aspettano in silenzio la lettura di una sentenza che probabilmente farà storia. Io sono insieme ad alcuni amici sperando, lo dico francamente, in una sentenza diversa da quella che, in pochi, rapidi minuti, il Presidente legge. La decisione è ribaltata. Ciò che la seconda sezione aveva giudicato all'unanimità (7 giudici su 7) lascia il posto ad una decisione presa per 15 giudici contro 2. Ci guardiamo, lo sguardo dice tutto. Il presidente toglie la seduta, le telecamere e i microfoni sfliano all'indirizzo delle parti e del prete (evidentemente “l'emissario” del Vaticano) presente tra il pubblico. Prendo il documento di sintesi distribuito alla stampa e in serata leggo la sentenza:

La Grande Chambre ribadisce tutti i principi individuati dalla Sezione (anche perché frutto di precedenti): l'obbligo di rispetto delle convinzioni dei genitori, il dovere di imparzialità e di neutralità dello Stato per permettere l'esplicazione della libertà di pensiero, di coscienza e di religione, pluralismo educativo, diffusione delle informazioni in modo oggettivo, critico e pluralista che permetta agl alunni di sviluppare un proprio senso critico e complementare divieto di indottrinamento. Ma c'è un ma: viene riconosciuto un «largo margine di apprezzamento» in favore dello Stato limitando il suo intervento ai casi in cui questo margine sia oltrepassato.

Certo, la Corte riconosce (par. 66) «che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso» (quindi contraddicendo sia il TAR che poneva l'accento sul valore culturale, sia l'ambigua descrizione del Consiglio di Stato) ma, dice sempre la Corte, a parte il fatto che l'influenza sugli alunni non è provata, «la decisione di perpetuare una tradizione fa parte del margine di apprezzamento dello Stato» e che, vista anche l'assenza di consensus, a livello europeo sulla regolamentazione dei simboli, le scelte statali vanno rispettate a meno che non sfocino in una forma d'indottrinamento. Circostanza che non avviene perché, anche se «la presenza del crocifisso dà alla religione una visibilità preponderante», il fatto che sia un simbolo «essenzialmente passivo» non permette di attribuirgli un'influenza sugli studenti comparabile a quella che può avere la partecipazione a delle attività religiose (in riferimento al caso Folgerø c Norvegia del 2007 nel quale la Grande Chambre aveva invece rilevato la violazione del diritto in questione per via della eccessiva difficoltà di ottenere la dispensa da un corso incentrato principalmente sullo studio del cristianesimo).

Inoltre la Corte, in un preciso riferimento alla valutazione che la prima sentenza fa del crocifisso come “segno esterno forte” che «avrebbe un impatto notevole», mostra di pensarla diversamente. Infatti il precedente che viene citato dalla Sezione è la sentenza Dahlab c Svizzera del 15 febbraio 2001: ad un'insegnante viene vietato di portare il velo nella scuola pubblica, questa ricorre alla Corte la quale però le dà torto, giudicando il divieto legittimo perché il velo mal si concilia «con il messaggio di tolleranza, di rispetto degli altri e sopratutto di eguaglianza e di non-discriminazione che in una democrazia tutti gli insegnanti devono trasmettere agli alunni». Insomma, se sei un professore puoi anche essere intollerante, ma quando insegni devi apparire in modo idoneo alla trasmissione di quei valori.

La Corte dice, però, che i due casi non sono uguali perché nel caso svizzero il divieto era motivato dalla necessità di preservare i sentimenti religiosi degli alunni e dei genitori e di applicare il principio di neutralità confessionale... e, dopo aver rilevato che le autorità avevano debitamente bilanciato gli interessi, la Corte ha giudicato che le autorità non avevano oltrepassato il margine di apprezzamento». L'argomentazione non mi sembra convincente: perché gli studenti cattolici dovrebbero mai avere diritto ad una maggiore tutela dai segni mussulmani piuttosto che un'ateo, un buddista, un ebreo dai segni cattolici? Anche il riferimento alla applicazione del principio di neutralità confessionale dovrebbe portare più a giudicare il crocifisso incompatibile con l'ambiente scolastico piuttosto che il contrario. A voler fare un discorso più generale, però, a me pare che la chiave di lettura di questi argomenti sia la seguente: quando si fa un discorso di eguaglianza o di diversità allo scopo di applicare una regola uguale o differente possiamo essere sicuri che due casi non appariranno mai perfettamente identici: al più saranno simili. E allora avremo aspetti di eguaglianza e di differenza e dovremo decidere quali far prevalere. A questo punto, anche davanti a casi palesi ci si può inventare di tutto pur di giustificare una scelta di diseguaglianza quando due casi andrebbero invece trattati nello stesso modo, ma le argomentazioni non potranno che essere, come in questo caso, fragili se non vuote (basti pensare, tanto per fare un esempio, alla Corte costituzionale italiana che nel 1961 dichiarò conforme alla costituzione la previsione del reato di adultero, di fatto, per la sola donna. L'argomentazione era che la donna era un caso diverso dall'uomo perché se lei tradiva rischiava di introdurre nella famiglia figli che non erano del marito mentre se il tradimento era di quest'ultimo i figli entravano in una famiglia diversa dalla sua. Argomenti che, certo, individuavano una differenza, ma che che doveva soccombere difronte a ciò che c'era di eguale. Tanto che la stessa Corte, nel 1968, solo 7 anni dopo, ebbe a ribaltare la propria giurisprudenza e a dichiarare incostituzionale il reato).

La Corte conclude la sua argomentazione basando la sua scelta, da una parte, sul fatto che a questa presenza «non è associata un insegnamento obbligatorio» e, dall'altra, che l'Italia «apre parallelamente lo spazio scolastico ad altre religioni» perché prima di tutto il velo e gli altri vestiti a connotazione religiosa non sono proibiti, poi «delle sistemazioni sono previste per facilitare la conciliazione della scolarizzazione delle pratiche religiose non maggioritarie» (ma la Corte non indica quali), l'inizio e la fine del Ramadam sono “spesso festeggiati”. Rimane da chiedersi come rilevi tutto ciò nei riguardi dei non credenti, altro punto non spiegato dalla Corte.

Quindi, per gli elementi descritti (la mancanza di consensus, l'assenza di una reale capacità di influenza, e lo spazio aperto alle altre religioni) la Corte valuta come non oltrepassato il limite del margine di apprezzamento.

Critiche: l'opinione dissenziente.

Due giudici votano contro. Se la sentenza fosse della nostra Corte costituzionale non avremmo conoscenza di questo dato perché nel nostro ordinamento non esiste l'istituto dell'opinione dissenziente (quindi le sentenze, anche se prese a maggioranza, emanando come da una sola voce). In questo caso sappiamo invece che hanno votato in senso contrario sia il giudice svizzero (che è del Canton Ticino, di cultura quindi “italiana”), che ha redatto l'opinione dissenziente, sia il giudice bulgaro, che a questa ha aderito.


il momento della lettura della sentenza.

L'opinione va subito al nocciolo del problema definendo la teoria del margine di apprezzamento «utile, anzi comoda» perché l'ampiezza del margine dipende da un gran numero di parametri. Però visto che la Corte, in questo caso, si fonda principalmente sull'assenza del consensus europeo il giudice rileva che «la presenza di simboli religiosi è espressamente prevista, oltre che in Italia, in un numero molto ristretto di Stati membri del Consiglio (Austria, Polonia e qualche Länder tedesco)» mentre nella maggioranza degli stati il fenomeno, semplicemente, non è regolamentato. Inoltre l'obbligazione del rispetto delle convinzione dei genitori, come tra l'altro riconosciuto dalla stessa Grande Chambre, non è tanto e non solo un'obbligazione negativa quando piuttosto un obbligazione positiva, quella di creare un clima di tolleranza e di rispetto reciproco, e che, trattandosi di un obbligazione positiva il margine di apprezzamento diminuisce.


Questa idea, sempre secondo i giudici, è coerente con il fatto che in una società multiculturale affinché vi sia una «effettiva libertà religiosa» (corsivo mio) è necessaria una stretta neutralità. Infatti, l'articolo 2 in questione, quello sul diritto all'istruzione, deve essere interpretato nel senso che le caratteristiche di oggettività, criticità e pluralismo dell'insegnamento devono essere riferiti «non solamente ai programmi scolastici...ma egualmente all'ambiente scolastico» (corsivi del giudice), sia per un motivo testuale (l'art. 2 impone il «rispetto delle convinzioni.... nell’esercizio delle funzioni»), sia per coerenza con ciò che la corte aveva affermato nel caso Folgerø c Norvegia (nel quale la Corte ha rilevato che «è di applicazione larga poiché vale per il contenuto dell'istruzione ma anche nel l'esercizio dell'insieme delle funzioni assunte dallo Stato» (par. 84 Sent. Folgerø corsivi del giudice).

Questo ragionamento, scarso margine di apprezzamento dovuto alla necessità di una effettiva libertà religiosa, è sorretto da due motivi: il primo è che, visto che il crocifisso è un simbolo esposto in una situazione dalla quale gli individui non si possono liberare (visto che l'istruzione è anche un dovere, oltre che un diritto), è necessariamente percepito come parte integrante dell'ambiente scolastico e può essere considerato come un segno esterno forte. Il secondo è che, viene ribadito il concetto della prima sentenza, «il potere vincolante dello Stato è imposto a degli spiriti che mancano ancora della capacità critica che gli permetta di prendere la distanza rispetto ad un messaggio derivante da una scelta preferenziale manifestata dallo Stato».

Qualche riflessione


A prescindere dalle battaglie legali, delicate in un tema come quello religioso, alcuni punti della vicenda sono interessanti: innanzi tutto la differenza tra la prima sentenza, quella della CEDU, e quella della Grande Chambre. Unanimità per la violazione nel primo caso e 15 a 2 per la non violazione nel secondo. Forse, almeno in questa Corte, si è spento il vento di progresso che ha attraversato l'Europa (evitando accuratamente l'Italia) e che ha portato i paesi europei più progrediti ad una importante concessione di diritti civili. Infatti il giudizio della Corte, in controtendenza rispetto a varie sentenze successive al 2000 nelle quali si era mostrata molto attenta alle esigenze di laicità, appare timido, dettato dalla paura della conseguenze su sé stessa per via di una decisione che, se non fosse andata contro la maggioranza di un popolo (possibile, ma non certo) avrebbe di sicuro contrastato consolidati privilegi. Eppure a questo servono i tribunali che giudicano, invece dei fatti, le regole. Questa Corte, così come le corti costituzionali, hanno senso e svolgono appieno il loro ruolo, se svolgono una funzione contro-maggioritaria (cioè di tutela delle minoranze). Questo “riflusso” se così lo vogliamo chiamare, forse è ben manifestato dal cambio di rappresentanza italiano nella Corte. Tra le due sentenze, essendo scaduto il mandato del giudice, questi è stato sostituito. Il precedente, il noto giurista Vladimiro Zagrebelsky aveva votato per la violazione, colui che l'ha rimpiazzato, Guido Raimondi, ha votato in senso contrario.

A questo punto, posto che la laicità, intesa come neutralità dello Stato, è un valore strumentale alla libertà e all'eguaglianza il cui raggiungimento è un fine che può e deve essere perseguito anche attraverso una scuola pubblica così come precisamente descritta dalla Corte (un ambiente aperto, di inclusione piuttosto che di esclusione, dove le conoscenze siano diffuse in modo obiettivo, critico e pluralista in modo da permettere allo studente il libero sviluppo della propria personalità), la battaglia continua in Italia. Il problema è capire chi la fa. Di sicuro non l'attuale Governo e altrettanto di sicuro né l'UDC né il PD (visto che si sprecano le dichiarazioni di esponenti di quest'ultimo, sia ex-margherita, sia ex-DS, a favore del crocifisso nella aule scolastiche), né IDV la quale, nonostante l'antiberlusconismo si riconferma su questo punto un partito conservatore, nel senso letterale e politico del termine. Resta in ombra FLI che, dopo le iniziali uscite di Fini sulla laicità, a parte lo smembramento stesso del gruppo, ha completamente offuscato il tema. Che dire: mettiamoci una croce sopra

 

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