FIAT

di Francesco Baicchi - 21/01/2013
Ocorre opporsi al 'pensiero unico' della infallibilità del 'mercato' e della 'globalizzazione' senza regole, e negare la nostra fiducia ai loro profeti.

Marchionne, il geniale manager osannato da molti politici come salvatore della FIAT (e quindi, indirettamente, della economia italiana), ha giustificato la pretesa di due anni di cassa integrazione per un intero stabilimento (a rotazione, per carità!!) con la prospettiva di produrre finalmente nuovi modelli.

E ci spiega che, ovviamente, sono necessari investimenti e modifiche agli impianti.

La notizia buona è che lo stabilimento non dovrebbe quindi essere chiuso, magari per speculare sulle aree abbandonate, come si sarebbe potuto temere vista la strategia 'amerikana' del gruppo.

La FIAT però produce già automobili da quando è stata costituita, non abbigliamento o strumenti musicali (così, per fare esempi); non siamo dunque di fronte a una riconversione strutturale, e il rinnovamento della gamma con nuovi modelli dovrebbe essere una attività ordinaria, prevista periodicamente nei programmi aziendali. Quindi anche le risorse necessarie dovrebbero essere disponibili in un bilancio ben fatto.

Altrimenti qualche maligno potrebbe pensare che anche in Canada e in Svizzera i manager puntino a privatizzare gli utili e scaricare sul 'pubblico' i costi.

La situazione appare simile a quella dell'ILVA di Taranto, dove i proprietari, dopo decenni di accumulazione di enormi utili ottenuti anche o soprattutto trascurando gli investimenti necessari a salvaguardare la salute di lavoratori e residenti, ora pretendono di continuare la loro attività scaricando i costi degli adeguamenti non più rinviabili sul bilancio dello Stato. Cioè di farli pagare a noi.

L'atteggiamento di alcuni dei nostri più importanti imprenditori industriali sembra insomma essere molto simile a un ricatto: l'unico modo per evitare il trasferimento delle produzioni, con conseguente perdita di posti di lavoro, in Paesi in cui la manodopera costa meno grazie a normative meno stringenti sul piano della salute e della difesa della dignità umana, è tornare indietro anche in Italia alle condizioni di lavoro del secolo scorso.

Ricatti resi possibili anche da anni di 'distrazione' del mondo politico, che hanno consentito la maturazione di situazioni oggi di difficilissima gestione, e che richiedono risposte non ordinarie.

E' necessario prendere atto, e dichiarare esplicitamente, che non siamo di fronte a semplici crisi aziendali, ma solo alla ripresa dello scontro fra due modi di intendere il futuro della nostra società, che pensavamo di avere superato da decenni.

Possiamo pensare che sia possibile puntare a una sempre maggiore giustizia sociale, a modelli di sviluppo rispettosi dell'ambiente e della salute, compatibili con il progressivo esaurirsi delle risorse a basso costo, alla affermazione dei diritti anche in Paesi lontani; oppure possiamo accettare il ritorno a logiche oligarchiche in cui la distribuzione della ricchezza sarà sempre meno equa e chi non apparterrà al gruppo dei pochi privilegiati dovrà adattarsi a sopravvivere con quello che gli sarà assegnato.

In altre parole una società solidale e giusta, o il modello falsamente 'liberale' e 'moderno' della competizione individualistica e spietata così efficacemente sintetizzata nella battuta del Marchese del Grillo: “Io so' io e voi non siete un cazzo”.

E' necessario stracciare una volta per tutte il sipario che copre con immagini di consumismo sfrenato e irresponsabile una realtà che richiede scelte non rinviabili e anche scomode, che rimettano in discussione anche i nostri modelli di consumo 'occidentali'.

Certo la soluzione non può essere trovata a livello nazionale; questi temi devono essere posti al centro del confronto politico europeo e mondiale. Ma occorre intanto opporsi al 'pensiero unico' della infallibilità del 'mercato' e della 'globalizzazione' senza regole, e negare la nostra fiducia ai loro profeti.

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