Futuro a chilometri zero: scendiamo dal treno del disastro

di Guido Viale - 02/09/2011
Le donne e gli uomini alla ricerca di un mondo diverso, che lo ritengono possibile, sono milioni in ogni parte della Terra

Siamo milioni, abbiamo le idee chiarissime su come uscirne dalla crisi: tornare al territorio, accorciare le filiere. Ma manca ancora uno strumento essenziale: la politica. Qualcuno che organizzi l’oceano critico dei cittadini messi in pericolo dalle “manovre” europee taglia-diritti, figlie di un impianto ideologico oblsoleto e una prassi grottesca, quando non criminale: tassi d’usura per le speculazioni sul debito, popoli interi che pagano per gli errori e le razzie dell’élite finanziaria, e poi politici, giornali e imprenditori che, anche di fronte allo scenario di rovine che la globalizzazione selvaggia sta spalancando davanti agli occhi di tutti, ripetono le liturgie fanatiche del loro fallimento: crescita, grandi opere, trasporti mondiali di merci, “sviluppo”. E’ finita, per sempre: prima lo ammettono, e prima ci salveremo.

Questa l’analisi di Guido Viale sul “Manifesto” del 18 agosto: il crollo dei mercati, scrive il sociologo-economista, dimostra che nei prossimi anni non ci sarà più “crescita”, in tutto il mondo e meno che mai in Italia, «dove la manovra ha messo una pietra tombale su qualsiasi velleità di rilancio economico». In molti altri paesi senza “crescita”, il pareggio di bilancio diventerà irraggiungibile: anche ridurre la spesa pubblica non basta per colmare i deficit. «Così gli interessi si accumulano, anno dopo anno, e il debito cresce, facendo aumentare a sua volta i tassi, e con essi il deficit». Anche se prescritto dalla Costituzione («con una norma che seppellisce tutto il pensiero economico originale del Novecento») il pareggio di bilancio diventa una chimera, scrive Viale.

«Per anni, i titoli di Stato avevano offerto ai cosiddetti risparmiatori – cittadini che avevano un avanzo di reddito a disposizione – una specie di cassaforte dove mettere al sicuro il loro denaro». Ma da tempo, e soprattutto con la liberalizzazione dei mercati finanziari, quei titoli, «ormai nelle mani di grandi operatori internazionali (compresi quelli che oggi gestiscono i fondi dei risparmiatori), sono stati trasformati in assets su cui lucrare, giorno per giorno, in base a variazioni dei rendimenti che chi quei titoli li ha emessi non può più controllare». Continua Viale: «Non è vero, come ci raccontano, che la spesa pubblica supera le entrate fiscali: in Italia non lo fa da tempo. Sono gli interessi accumulati ad aver portato il bilancio fuori controllo: è il meccanismo tipico dell’usura (quello dei famigerati cravattari); a cui gli Stati di quasi tutto il mondo si sono sottomessi: non per salvare se stessi, ma le banche e i fondi che detengono i loro titoli».

La stessa crisi finanziaria, per l’analista del “Manifesto”, non è che un risvolto di un meccanismo economico, quello dello sviluppo – che è poi l’accumulazione del capitale – che si è inceppato, essendo anch’esso a sua volta il risvolto di un’altra crisi, quella ambientale: «Il pianeta Terra non è più in grado di sostenere con le sue risorse gli attuali flussi della produzione». Disastri come quello climatico – con conseguenze catastrofiche, sociali ed economiche, a livello planetario, «accompagnano inevitabilmente uno sviluppo guidato dal profitto». Con il procedere della crisi, continua Viale, l’esito ineluttabile di uno Stato preso nella spirale di un debito insanabile come quello italiano è ciò che tutti dicono di voler evitare, ma che nessuno vuole prepararsi ad affrontare: il fallimento, il “default”. «Il problema non è il “se”, ma è solo il “quando”; e chi sarà a subirlo e chi a imporlo; e in che modo gestirlo».

Di questo si dovrebbe discutere, invece tutti parlano di rilanciare una “crescita” che non tornerà più, o che sarebbe comunque «talmente stentata da non poter interrompere quella spirale infernale». E il peggio è che, mentre si parla ancora di “crescita” (attenzione: non del benessere reale, ma solo del Pil, cioè dei saldi contabili per far fronte al debito) «molti si affrettano ad arraffare tutto, prima che non ci sia più niente da prendere». Se a Londra i “giovani teppisti” drogati dal consumismo assaltano i negozi per rubare uno smartphone, il vero grande saccheggio che si profila all’orizzonte è quello delle maxi-privatizzazioni come quelle dei servizi e dei beni comuni a partire dall’acqua, contro cui pure si sono appena pronunciati l’Italia col referendum, ma anche Berlino e Parigi, nonché interi paesi come Ecuador e Bolivia: «La democrazia – afferma Viale – è da tempo incompatibile con le esigenze dei mercati. Oggi più che mai».

Poi tocca alle pensioni (quelle dei poveri), ai salari, al welfare, alla sanità, alla scuola, all’occupazione, al posto fisso, alle finanze dei Comuni. Un saccheggio pericoloso, avverte il “Manifesto”: «Nessuno ne parla, perché la strada del default è stata imboccata per scelta e senza grandi danni, se non per i banchieri finiti in galera: domani, in Italia, lavoratori e cittadini sfruttati e taglieggiati potrebbero ribellarsi». E non è detto che lo facciano in forme gentili: Londra insegna. Nonostante la catastrofe che incombe, però i «corifei del saccheggio di Stato» si limitano a invocare «una vera leadership» all’altezza della situazione, che sostituisca semplicemente l’attuale dirigenza italiana “commissariata” dalla Bce attraverso la Commissione Europea.

In realtà, aggiunge Viale, se l’Italia rappresenta per molti aspetti un caso limite, nessuno in Occidente se la passa bene, né Sarkozy né la Merkel, e neppure Obama. Persino potenze emergenti il Brasile, o addirittura la Cina, potrebbero incepparsi, di fronte a un mercato in crisi. Mancano idee e uomini, scrive il “Corriere della Sera”, che sollecita privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli alla politica e alla spesa pubblica, sperando sempre che la “crescita” sia una molla che scatta da sé, senza mai spiegare come e dove alimentarla. «In queste condizioni – scrive Viale – la leadership tanto invocata ha sempre di più l’aspetto di un “Uomo della Provvidenza”», rivelando quindi «una débacle sonora del pensiero unico liberista, che ha dominato un trentennio di disastri, e che ancora pretende di interpretare i tempi senza riuscire a comprenderli». E in questo vuoto di conoscenze e di pensiero strategico, «i rischi autoritari si moltiplicano». Per questo, sostiene Viale, è indispensabile staccare la spina e cambiare completamente strada, tutti insieme.

Non che manchino le idee, sono solo disseminate in luoghi senza potere: comitati di lotta, centri sociali, circoli culturali e associazioni, riviste e blog, gruppi studenteschi, imprese sociali, finanza etica, sindacati come la Fiom, reti di insegnanti, gruppi d’acquisto solidale. L’alternativa c’è, o meglio: ci sarebbe, se solo si organizzasse. Idee-guida? Elementari: difendere i beni comuni «dall’accaparramento privato e dalla gestione burocratica e corrotta degli organismi statuali». Come? «Attraverso forme di trasparenza integrale, di controllo dal basso e di gestione partecipata». La filiera corta della politica: da estendere a territorio, risorse, servizi pubblici, saperi. «E poi l’idea della territorializzazione dei rapporti economici». Ovvero: mercati agricoli e alimentari a chilometri zero, rapporti diretti coi fornitori che garantiscono qualità dei prodotti, dei processi e delle condizioni di lavoro.

Accorciare le distanze, eliminare mediazioni speculative, ripristinare il controllo democratico sui processi e coinvolgere quindi tutti gli “stakeholder” – lavoratori, utenti, amministrazioni locali, associazioni, centri di ricerca, imprese fornitrici e utilizzatrici – nella riconversione di produzioni in crisi, obsolete o dannose (a partire dalle armi: meno spese, meno consumo di risorse, meno guerre), e impegno in tutte le attività di salvaguardia dei territori e della loro vivibilità. «Di qui la convinzione che la salvezza non verrà dalla “crescita”, che significa ogni giorno di più devastazione del pianeta, delle condizioni di vita e dei rapporti sociali, e che i vincoli imposti dai mercati – dalle parità di bilancio agli aumenti di fatturato, dal rendimento dei Bot agli andamenti delle borse – non sono totem a cui ci si debba piegare», insiste Viale. Attraverso un “rinascimento” così concepito, «può prendere forma una nuova classe dirigente: una cittadinanza attiva che si metta in grado di esautorare e sostituire gli uomini che oggi sono al potere, in tutti gli ambiti e a tutti i livelli, sia negli organismi statali e amministrativi, che nelle imprese: quelle che hanno sostenuto per anni Berlusconi e che oggi vogliono far pagare il costo dei loro disastri a chi non ne ha mai condiviso le responsabilità, né avrebbe potuto farlo».

Problema: un movimento dal basso, fatto di organismi dispersi e pratiche differenti, potrà mai «governare e dirigere un processo di transizione di questa portata», che per di più «sta andando e andrà incontro a resistenze pesanti e reazioni violente?». Certamente no, ammette Viale. «Ma le forze, le idee e la determinazione per intraprendere un percorso del genere non possono nascere in nessun altro modo». D’altronde, non si tratta di processi isolati: «Le donne e gli uomini alla ricerca di un mondo diverso, che lo ritengono possibile, sono milioni in ogni parte della Terra. E se il processo avrà un seguito, anche molti spezzoni delle attuali classi dirigenti potranno separarsi dalla matrice in cui sono cresciute e forgiate; ma è un processo che può svilupparsi intorno a idee e sedi che oggi occorre ancora diffondere e consolidare».

Da
http://www.libreidee.org/2011/08/politica-a-km-zero-scendiamo-dal-treno-del-disastro/

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