Giornalismo e democrazia, l'eredità di Bocca

di Daniela Gaudenzi - Liberacittadinanza - 30/12/2011
Finché ci saranno uomini e donne che non hanno paura di raccontarla come è veramente, forse l’Italia non sarà spacciata

Con quella sintesi che lasciava un po’ spiazzati gli intervistatori e con la sua capacità di andare al sodo, poco apprezzata nel paese dei bizantinismi e dell’ipocrisia senza vergogna, Giorgio Bocca ha chiarito come meglio non si poteva, nelle sue ultime interviste a Il Fatto Quotidiano e nel libro postumo No, grazie, il rapporto di interdipendenza che esiste tra sistema democratico ed informazione.

La nostra democrazia diventa autoritaria anche perché ci sono giornalisti comprati con prebende e privilegi. Ma soprattutto perché ci sono giornalisti terrorizzati”. Come ha raccontato lui stesso in un intervento di qualche tempo fa ad Annozero, persino per uno come lui, “l’ultimo dei grandi” come lo ha definito Marco Travaglio, a casa sua, Repubblica, sul giornale che aveva contribuito a fondare e che ha sempre ostentato le sue campagne anticraxiane prima e antiberlusconiane in seguito, era diventato difficile poter scrivere in assoluta libertà come la democrazia fosse stata piegata ed asservita a quel sistema di corruzione generale e di sopraffazione imposto da partiti ridotti più spesso a cosca che a casta.

Molti suoi colleghi ed amici hanno peraltro testimoniato come la malattia fosse anche diventata per un giornalista della sua grandezza e del suo coraggio una sorta “di alibi” per non dover più scrivere in un contesto talmente abbruttito e degradato dove ormai nemmeno le sue parole rivelatrici e “impietose” nei confronti del potere corrotto e dei suoi cantori, potevano più incidere e creare sana indignazione.

Quanto il male dell’informazione, oltre alla bramosia sempre troppo diffusa di vendersi, sia il timore o meglio “il terrore” di non essere abbastanza ossequiosi al potente di turno ed il contemporaneo timore di non essere pronti ad eventuali riposizionamenti è ampiamente riconfermato dalla truffa linguistica denunciata da Bocca per cui è stato definito “terzismo”, per il quasi ventennio berlusconiano, quello che era semplicemente e bassamente “doppiogiochismo”.

Che le parole abbiano perso senso, che le parti possano agevolmente essere invertite, che il giornalismo più asservito e propagandistico possa avere l’arroganza di spacciarsi come vittima di censure e boicottaggi, non deve più essere dimostrato. Almeno non dopo le reazioni indignate di Minzolini ad una imputazione di natura penale, il reato di peculato, il quale paragona il suo “caso” a quello subito da Michele Santoro e pretende, contro la decisione dell’azienda, di mantenere la direzione del TG 1 e di continuare ad occuparlo con le sue incursioni propagandistiche a favore di nuovi o vecchi padroni redivivi.

In quale stato versi, pur nel generale abbassamento della qualità dell’offerta dell’informazione giornalistica, quel che resta del cosiddetto servizio pubblico nazionale lo si può constatare ogni giorno di più con l’uscita dai palinsesti Rai di giornalisti, autori satirici, autori, tanto che è veramente difficili trovare argomenti oltre a generici appelli al rispetto della legalità formale per giustificare il pagamento del canone Rai.

Forse dobbiamo tenere presenti quei sette punti di resistenza civile in cui Giorgio Bocca ha voluto sintetizzare il suo ultimo messaggio per noi che siamo ancora qua. L’ultranoventenne “partigiano della parola” ci esorta a non dare mai per acquisiti come principi immutabili delle false idee a cui bisogna ribellarsi come, per citarne solo alcuni: la crescita folle; la corruzione generale (con l’ovvio corollario tutti corrotti, nessun corrotto); la fine del giornalismo, l’Italia senza speranza.

Finché ci saranno uomini e donne che non hanno paura di raccontarla come è veramente, forse l’Italia non sarà spacciata.

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