Gli ignari e il complotto, peggio del '92

di Daniela Gaudenzi - Liberacittadinanza - 08/04/2012
E’ difficile stabilire il primato dello schifo tra il quadro di voracità predatoria di un clan che per vent’anni ha preteso di rappresentare le ragioni del Nord ed il tenore delle reazioni, in primis quelle del patriarca “tradito” che immemore dei cappi nelle aule parlamentari e dei guanti bianchi delle “mani pulite” urla ora al “complotto dei PM di Roma ladrona”.

Ancora una volta ma con contorni persino esilaranti, come le lauree pagate alla vicepresidente del Senato Rosi Mauro e fidanzato, evidentemente parimenti assetati di sapere, il quadro è quello consolidato del tesoriere plenipotenziario, che gestisce ogni tipo di  pratica dalla Family onnicomprensiva per la famiglia in senso stretto, a quelle molto personali come i 50.000 euro per entrare in un consiglio di amministrazione strategico, fino a quelle che attraverso Bonnet portano al sempreverde Aldo Brancher, operativo dai tempi di Tangentopoli, insider Fininvest, ministro lampo per 17, condannato a due anni e 4 mesi per appropriazione indebita nella scalata Antonveneta.

Purtroppo, come hanno sottolineato in pochi, lo spettacolo del giorno dopo è quasi più desolante e disgustante di quello che si è aperto con la lettura delle carte dell’inchiesta, che coinvolge ben tre procure con un filone che riguarda anche i rapporti con faccendieri in stretto giro d’affari con l’’ndrangheta.

 Non c’ è solo il grande capo che se la prende con “il complotto romano” ordito da una imprecisata asse PM-Governo Monti, e incredibilmente dopo essersi dimesso da segretario si ritrova presidente “pronto a ricandidarsi al congresso”.

C’è la cosiddetta badante Rosi Mauro, sorprendentemente vice-presidente del Senato ampiamente coinvolta come beneficiaria di cifre esorbitanti sottratte a qualsiasi controllo, che non vede motivo alcuno di dimettersi da una carica istituzionale così elevata perché, testualmente, si considera “una persona molto diretta” e confida che tutto si concluderà nel migliore dei modi, per lei, si intende.

E già nel giorno stesso delle dimissioni di Bossi, l’onnipresente Matteo Salvini, verde più che mai, ha rivendicato la suprema dignità del capo che ha ritenuto di doversi dimettere nella prospettiva di competere ad un congresso di là da venire per rappresentare “una lega più forte di prima”.

C’è stata la obbligata e ribadita richiesta di “pulizia” da parte di Maroni, già ministro dell’Interno che ha sempre rivendicato come merito personale i risultati conseguiti dagli inquirenti sul fronte della criminalità organizzata,  nonché “barbaro sognante”paladino del rinnovamento del partito. Ma siede in quel triumvirato emergenziale approntato con criteri da manuale cencelli interno accanto a quel Roberto Calderoli, fedelissimo di Berlusconi che da dentista-statista si era alacremente impegnato a “riscrivere” la nostra Costituzione e che rappresenta la continuità più assoluta con il cerchio magico e la ragnatela di affari che arriva ad Aldo Brancher.

La reazione degli ex alleati per bocca dell’impavido Cicchitto è stata rigorosamente difensiva e cioè del tipo “noi non abbiamo nulla temere, i nostri bilanci sono trasparenti e a prova di qualsiasi controllo”.

Dall’altra parte, oltre ai tentativi anche un po’ troppo scoperti di compiacere gli elettori leghisti allo sbando, orfani di quella Lega definita, illo tempore, “una costola della sinistra” dall’acutissimo D’Alema, è tutta una gara, comprensibile, a mettere la pietra tombale con la fine di Bossi, archiviato a pochi mesi da Berlusconi, sulla disonorevole seconda repubblica.

Ma dato che quello della Lega, definito da Famiglia cristiana, un esempio di “saccheggio dell’Italia” viene, per stare alla stretta attualità, dopo gli scandali del consiglio regionale della Lombardia, inaugurato da Filippo Penati, e a poche settimane da quello dell’altro tesoriere “per caso” della defunta Margherita, il tuttora insuperato Lusi, forse è il caso che le analisi politologiche cedano il passo all’imperativo della pulizia e della trasparenza subito.

E non basta ribadire come ha fatto D’Alema, e come e peggio di lui hanno fatto tutti i rappresentanti dei partiti della coalizione di governo davanti ai microfoni de IlFattoquotidiano.it , che ci son innumerevoli progetti di legge depositati sul finanziamento e la trasparenza dei bilanci dei partiti, che la colpa della mancata discussione è sempre degli altri e che anzi, come ha sostenuto con notevole faccia tosta la pasdaran vicepresidente pidiellina alla Camera Isabella Bertolini, “sono già in discussione”.

L’ultimo impegno in proposito è arrivato direttamente dal ministro della Giustizia che ha dichiarato formalmente in stretta sintonia con Monti di voler intervenire sui soldi ai partiti con il  controllo da parte di un’autorità garante indipendente attraverso una legge ad hoc o un intervento nel ddl anticorruzione, Parlamento permettendo.

Intanto, con qualche fondato dubbio sulla volontà di autoriforma da parte di chi sembra ogni giorno di più non riformabile, è meglio essere pronti al referendum.

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