IL GIORNO DOPO

di Daniela Gaudenzi - Liberacittadinanza - 09/10/2009
La corte Costituzionale ha resistito impeccabilmente alla ridda di indiscrezioni, boatos, strattonamenti, intimidazioni, minacce che per giorni si sono addensate sulla sua funzione di supremo orano costituzionale e sulle persone dei suoi singoli componenti

Vedere scorrere i titoli di agenzia con la scritta “il Lodo Alfano è illegittimo, la legge è uguale per tutti” è stato di per sé un risarcimento alla frustrazione ed all’umiliazione di milioni di cittadini italiani che non si sono mai rassegnati ad assistere per la seconda volta nell’arco di un quinquennio all’abdicazione della democrazia liberale e costituzionale alla legge del più forte, ovvero del “primus super pares” secondo il neologismo strampalato dell’immaginifico Gaetano Pecorella che insieme al suo compagno di partita non ha reso un buon servigio al suo assistito.

E’ qualcosa di straordinariamente confortante, ma le buone notizie si fermano qui.

Lo spettacolo che si è prospettato agli occhi del paese e (ahinoi) a quelli del modo dopo la notizia della disintegrazione della legge salva premier è dei più sconcertanti e disgustosi.

Le reazioni del diretto interessato che sono di pura e semplice eversione, prevedibili certo conoscendo la “tempra” dell’uomo, ma non dimeno devastanti sotto il profilo istituzionale e della credibilità internazionale del paese; le sparate parimenti eversive del suo maggiore ed imprescindibile alleato, un Bossi, ministro della Repubblica che promette la guerra se a causa delle incursioni della magistratura, dovessero arrestarsi il federalismo; il coro dei portavoce e dei capigruppo del maggiore partito di Governo che ringhiano contro la persecuzione giudiziaria e la “Consulta rossa”.

Poi c’ è la difficoltà obiettiva e l’imbarazzo di un Capo dello Stato, il cui sguardo tradisce semplicemente timore, che oggi non può non essere difeso, insieme alla Corte Costituzionale per il prestigio dell’ istituzione che rappresenta dalle accuse incredibili che gli muove l’imputato- presidente Berlusconi, ma che avrebbe potuto e dovuto fin dall’inizio del suo mandato difendere in modo più netto, rigoroso ed inequivocabile la Costituzione dalla cui parte dichiara di essere sempre stato.

Purtroppo ora deve fare tale dichiarazione per difendersi dalle accuse infamanti di partigianeria che gli provengono da un capo dell’esecutivo che fin dal primo giorno della sua investitura mentre fingeva armonia istituzionale ed ostentava rapporti di grande cordialità con il capo dello Stato forzava abitualmente la Costituzione, senza che dalla sommità del Colle giungessero gli stop che la gravità o la eccezionalità delle incursioni governative richiedeva.

Un signore che non è un noto bolscevico, né un “rozzone” alla Di Pietro, ma che è un politologo apprezzato nel mondo e che non ha timore di andare controcorrente, come Giovanni Sartori aveva messo in guardia sin dall’inizio Giorgio Napolitano affinché non intraprendesse la strada controproducente della moral suasion che aveva contraddistinto la prima parte del mandato di Ciampi, ravvedutosi in itinere. Purtroppo Giorgio Napolitano è andato ben oltre la moral suasion, ha firmato sull’uscio una legge come il Lodo Alfano che a differenza del lodo Schifani non è stato solo boccitato come il suo predecessore, ma disintegrato dalla Consulta; ha firmato senza colpo ferire lo scudo fiscale che oltre ad essere un provvedimento immorale che va contro qualsiasi principio di legalità è stato approvato secondo la definizione del presidente della Camera con “modalità abnormi”; da presidente del CSM non ha fatto altro che ammonire il plenum affinché frenasse sulle pratiche a tutela di magistrati come la Gandus definita dal premier “nemico politico”.

Dunque i tentativi quirinalizi per mantenere a tutti i costi un clima di concordia istituzionale o quantomeno di “tregua” permanente, come viene molto impropriamente definita, si sono rivelati, come era altamente prevedibile, dei rovinosi boomerang.

All’indomani del niet gigantesco della Consulta alla legge Alfano ritenuta perno e precondizione della concordia nazionale e sulla cui tenuta verosimilmente la più alta carica dello Stato faceva affidamento, il senso di spiazzamento dalle parti del Quirinale, unito allo sconcerto per un attacco inqualificabile sul piano istituzionale e “a tradimento” nel clima collaborativo tenacemente perseguito, è più che palpabile.

Poi ci sono le reazioni dell’opposizione che completano un quadro sconcertante ed avvilente, certamente non nuovo.

In casa democratica è un susseguirsi di dichiarazioni del genere: “Sarebbe un fatto grave se un governo si dimettesse per una sentenza della Corte Costituzionale”, Massimo D’Alema; “La cosa ci coglie impreparati”, Gianni Cuperlo; “Noi speravamo che il lodo passasse”, Paolo Fadda. D’altronde Franceschini era già stato ripreso e indotto a dichiarazioni più indignate contro Di Pietro reo di aver criticato la firma praticamente preventiva di Napolitano allo scudo fiscale e la parola d’ordine nel PD è più che mai “mettere ai margini Di Pietro” come dice Pietro Marcenaro, parafrasando espressioni ben più colorite di Massimo D’Alema.

Insomma all’indomani dell’uscita di scena definitiva ed ingloriosa dell’ultima porcheria giuridica per tentare di escludere dalla scena politica l’elementare realtà che in primo luogo il presidente del Consiglio è un imputato di reati gravissimi contro la pubblica amministrazione, irrompe nuovamente lo spettro della “questione giudiziaria”.

Dunque il nemico numero uno non solo per l’imputato Berlusconi S., come è agevolmente comprensibile, ma anche, meno comprensibilmente, per il capo dello Stato nonché garante della Costituzione e per il maggiore partito di opposizione ritorna ad essere Antonio Di Pietro, già magistrato simbolo di Mani Pulite. Incredibile ma vero.

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