Il ministro sono me

di Barbara Fois - Liberacittadinanza - 22/06/2010
Bossi a Pontida rassicura i suoi: il nuovo ministro per il Federalismo, appena creato da Berlusconi, in realtà non conta niente, al Federalismo ci pensano lui e Calderoli.

Che il neo ministro Aldo Brancher - appena nominato dal cavaliere giusto in tempo per sottrarlo a un processo - non conti niente, lo abbiamo tutti sospettato da subito: infatti di un altro ministro e soprattutto di un Ministro per l’Attuazione del Federalismo ( quando ancora non sappiamo nemmeno quanto ci potrebbe costare metterlo in atto) proprio nessuno – nemmeno la Lega – ne sentiva il bisogno, soprattutto data la vacanza di quello per lo Sviluppo economico, saldamente tenuto in pugno ormai da tempo ( altro che ad interim) dal cavaliere, in un conflitto di interessi gravissimo, dato che da quel ministero dipende la RAI e il rinnovo del suo contratto con lo stato.

Se il cavaliere proprio voleva salvare Brancher dal processo perché non gli ha passato il ministero che sta tenendo così impropriamente? Non solo perché così tiene in pugno la Rai, ma anche perché così si illude di controllare anche la Lega, che sul Federalismo ha imperniato la sua stessa esistenza.

L’ha capito bene Bossi che ieri, da Pontida ha mandato al cavaliere un messaggio forte e chiaro: il ministro sono io. Della serie “il federalismo è mio e lo gestisco io”, insieme al fedele Calderoli, certo.

Ieri infatti c’era l’annuale cerimonia leghista del giuramento di Pontida, svolta sotto una pioggia battente, che fustigava uno sparuto e patetico drappello di aficionados. E che fossero pochini lo si è visto bene in qualche ripresa del Tg3, in cui si sono fatte inquadrature d’insieme. Ma loro hanno suonato lo stesso le loro tronfie grancasse ( la mania di gonfiare i numeri, tipica del cavaliere, ha fatto scuola): Calderoli infatti ha detto che erano 50mila (!), poi – davanti all’evidenza delle immagini, sotto gli occhi di tutti – hanno ridimensionato loro stessi il numero dei presenti, scendendo a “circa 10mila”, ma se nella realtà sono arrivati a duemila, è davvero un miracolo. E basta guardare le immagini su Youtube per rendersene conto, senza bisogno di aggiungere altro.

Pochi e davvero fuori del comune: bisognava vederle certe facce, degne delle inquietanti foto di Diane Arbus. E bisognava sentire certe dichiarazioni, per rendersi davvero conto del livello culturale di quei padani. E dire che quel pugno di fanatici razzisti sta determinando tutta la politica del governo e quindi del paese. L’ha detto chiaro Castelli ieri “ Noi siamo determinanti per la stabilità del governo e Berlusconi lo sa.” Te capì, per dirla in padano?

Non è un caso che Fini abbia attaccato la Lega, dicendo giustamente che la Padania non esiste, è solo una invenzione, frutto di propaganda politica.

Ma la Padania non è la sola invenzione propagandistica della Lega: si sono inventati un passato storico che non esiste. Le incredibili inesattezze sul Carroccio, sulla Lega Lombarda, su Alberto da Giussano che si raccontano l’un l’altro, esaltandosi su panzane ridicole, sono paradossali e mai successe nella Storia, quella vera, con la S maiuscola.

Per non dire del loro inno, altrettanto abborracciato e ridicolo “ Va’ pensiero” un canto messo in bocca da Verdi a un gruppo di schiavi ebrei, al tempo della cattività Babilonese: cosa c’entri con la Padania è davvero un mistero. A meno che non si riferiscano allo spirito risorgimentale e patriottico dell’Autore, che dietro il dolore e il desiderio di riscatto degli ebrei cantava quello dei patrioti lombardi sotto il giogo austriaco... ma vi rendete conto della contraddizione paradossale?? Nel momento stesso in cui il loro capo dice che col tricolore si pulisce le auguste terga, mentre tutti dichiarano che vogliono la secessione, sputano sulla patria e disertano le feste dello Stato, poi si prendono un inno fatto da e per ferventi patrioti italiani?? E’ il colmo del ridicolo e dell’ignoranza. Ma del resto fa il paio con Alberto da Giussano, preso non dalla storia ma dalla leggenda popolare e dalla poesia del Carducci e che in realtà non partecipò affatto alla straesaltata battaglia di Legnano, anzi: non si sa nemmeno con certezza se sia davvero esistito. In alcuni documenti medievali infatti si parla di un certo Alberto che veniva dal paese di Giussano, centro vicino a Milano, ma in tempi assai posteriori a quella battaglia, che per altro non fu risolutiva della questione politica fra comuni e impero. Inoltre pare che i leghisti ignorino che le città lombarde erano spesso in lotta fra loro, come Milano, per esempio, in perenne guerra contro Lodi e Como, che furono perfino alleate dell’Imperatore Federico Barbarossa.... insomma: una cosa è la complessa realtà storica, un’altra le balle su cui i leghisti hanno costruito i loro rituali infantili.

Ma aldilà delle liturgie inventate, degli eroi finti, degli inni sbagliati, la realtà concreta è che solo 8 italiani su 100 la pensano come loro, questo vuol dire che ben 92 italiani su 100 non sono d’accordo con i leghisti. Ma loro millantano di rappresentare tutto il nord. Per farli smettere basterebbe indire un referendum e chiedere ai cittadini di quelle regioni se sono d’accordo sul programma separatista della Lega e i numeri ci dicono fin da ora che questa perderebbe alla grande. Sarebbe non inutile farlo, perché se Berlusconi si vuol far dettare l’agenda da un pugno di leghisti, non significa che l’intero paese si debba adeguare! Insomma: abbiamo modo e mezzi per arginare questa follia, cosa aspettiamo a farlo? Che avvelenino col loro ottuso razzismo l’intero paese?

Fra l’altro i leghisti si sono macchiati di reati gravissimi e anticostituzionali, come vilipendio alla bandiera, alto tradimento del giuramento di fedeltà alla bandiera e allo Stato, istigazione alla secessione, minaccia di rivolta armata... ce n’è per farli dimettere dai loro posti di rappresentanti di uno stato che non fanno che insultare in ogni modo e maniera e per sbatterli in galera per anni. E soprattutto senza i nostri soldi, i soldi sudati dagli altri italiani, che stanno pagando la loro egoistica e stupida follia secessionista.


Barbara Fois


Approfondimenti

Ecco i “testi di storia” a cui si ispira la Lega: due poesie; una di Carducci e una di Berchet


Il Parlamento

di Giosuè Carducci

I

Sta Federico imperatore in Como.
Ed ecco un messaggero entra in Milano
Da Porta Nova a briglie abbandonate
« Popolo di Milano », ei passa e chiede,
« Fatemi scorta al console Gherardo ».
Il console era in mezzo de la piazza,
E il messagger piegato in su l'arcione
Parlò brevi parole e spronò via.
Allor fe' cenno il console Gherardo,
E squillaron le trombe a parlamento.

II

Squillarono le trombe a parlamento:
Ché non anche risurto era il palagio
Su' gran pilastri né l'arengo v'era,
Né torre v'era, né a la torre in cima
La campana. Fra i ruderi che neri
Verdeggiavan di spine, fra le basse
Case di legno, ne la breve piazza
I milanesi tenner parlamento
Al sol di maggio. Da finestre e porte
Le donne riguardavano e i fanciulli.

III

« Signori milanesi », il consol dice,
« La primavera in fior mena tedeschi
Pur come d'uso. Fanno pasqua i lurchi
Ne le lor tane, e poi calano a valle.
Per l'Engadina due scomunicati
Arcivescovi trassero lo sforzo.
Trasse la bionda imperatrice al sire
Il cuor fido e un esercito novello.
Como è co' i forti, e abbandonò la lega ».
il popol grida: « L'esterminio a Como! »

IV

« Signori milanesi », il consol dice,
« L'imperator, fatto lo stuolo in Como,
Move l'oste a raggiungere il marchese
Di Monferrato ed i pavesi. Quale
Volete, milanesi? od aspettare
Da l'argin novo riguardando in arme,
O mandar messi a Cesare, o affrontare
A lancia e spada il Barbarossa in campo? »
« A lancia e spada », tona il parlamento,
« A lancia e spada, il Barbarossa, in campo! »

V

Or si fa innanzi Alberto di Giussano.
Di ben tutta la spalla egli soverchia
Gli accolti in piedi al console d'intorno.
Ne la gran possa de la sua persona
Torreggia in mezzo al parlamento: ha in mano
La barbuta: la bruna capelliera
Il lato collo e l'ampie spalle inonda.
Batte il sol ne la chiara onesta faccia,
Ne le chiome e ne gli occhi risfavilla.
È la sua voce come tuon di maggio.

VI

« Milanesi, fratelli, popol mio!
Vi sovvien » dice Alberto di Giussano
« Calen di marzo? I consoli sparuti
Cavalcarono a Lodi, e con le spade
Nude in man gli giurâr l'obedienza.
Cavalcammo trecento al quarto giorno,
Ed a i piedi, baciando, gli ponemmo
I nostri belli trentasei stendardi.
Mastro Guitelmo gli offerì le chiavi
Di Milano affamata. E non fu nulla ».

VII

« Vi sovvien » dice Alberto di Giussano,
« Il dì sesto di marzo? A i piedi ei volle
Tutti i fanti ed il popolo e le insegne.
Gli abitanti venìan de le tre porte,
Il carroccio venìa parato a guerra;
Gran tratta poi di popolo, e le croci
Teneano in mano. Innanzi a lui le trombe
Del carroccio mandâr gli ultimi squilli,
Innanzi a lui l'antenna del carroccio
Inchinò il gonfalone. Ei toccò i lembi ».

VIII

« Vi sovvien? » dice Alberto di Giussano:
« Vestiti i sacchi de la penitenza,
Co' piedi scalzi, con le corde al collo,
Sparsi i capi di cenere, nel fango
C'inginocchiammo, e tendevam le braccia,
E chiamavam misericordia. Tutti
Lacrimavan, signori e cavalieri,
A lui d'intorno. Ei, dritto, in piedi, presso
Lo scudo imperial, ci riguardava,
Muto, co 'l suo diamantino sguardo ».

IX

« Vi sovvien » dice Alberto di Giussano,
« Che tornando a l'obbrobrio la dimane
Scorgemmo da la via l'imperatrice
Da i cancelli a guardarci? E pe' i cancelli
Noi gittammo le croci a lei gridando:
— O bionda, o bella imperatrice, o fida,
O pia, mercé, mercé di nostre donne! —
Ella trassesi indietro. Egli c'impose
Porte e muro atterrar de le due cinte
Tanto ch'ei con schierata oste passasse ».

X

« Vi sovvien? » dice Alberto di Giussano:
« Nove giorni aspettammo; e si partiro
L'arcivescovo i conti e i valvassori.
Venne al decimo il bando — Uscite, o tristi,
Con le donne, co' i figli e con le robe:
Otto giorni vi dà l'imperatore. —
E noi corremmo urlando a Sant'Ambrogio,
Ci abbracciammo a gli altari ed a i sepolcri.
Via da la chiesa, con le donne e i figli,
Via ci cacciaron come can tignosi ».

XI

« Vi sovvien », dice Alberto di Giussano,
« La domenica triste de gli ulivi?
Ahi passion di Cristo e di Milano!
Da i quattro Corpi santi ad una ad una
Crosciar vedemmo le trecento torri
De la cerchia; ed al fin per la ruina
Polverosa ci apparvero le case
Spezzate, smozzicate, sgretolate:
Parean file di scheltri in cimitero.
Di sotto, l'ossa ardean de' nostri morti ».

XII

Così dicendo Alberto di Giussano
Con tutt'e due le man copriasi gli occhi,
E singhiozzava: in mezzo al parlamento,
Singhiozzava e piangea come un fanciullo.
Ed allora per tutto il parlamento
Trascorse quasi un fremito di belve.
Da le porte le donne e da i veroni,
Pallide, scarmigliate, con le braccia
Tese e gli occhi sbarrati al parlamento
Urlavano — Uccidete il Barbarossa! —

XIII

« Or ecco », dice Alberto di Giussano,
« Ecco, io non piango più. Venne il dì nostro,
O milanesi, e vincere bisogna.
Ecco: io m'asciugo gli occhi, e a te guardando,
O bel sole di Dio, fo sacramento:
Diman da sera i nostri morti avranno
Una dolce novella in purgatorio:
E la rechi pur io! » Ma il popol dice:
« Fia meglio i messi imperiali ». Il sole
Ridea calando dietro il Resegone.

[ Aprile 1876 - marzo 1879 ].



Il Giuramento di Pontida

di Giovanni Berchet

L'han giurato li ho visti in Pontida
convenuti dal monte e dal piano.
L'han giurato e si strinser la mano
cittadini di venti città
Oh spettacol di gioia! I Lombardi
son concordi, serrati a una Lega.
Lo straniero al pennon ch'ella spiega
col suo sangue la tinta darà.
Più sul cener dell'arso abituro
la lombarda scorata non siede.
Ella è sorta. Una patria ella chiede
ai fratelli, al marito guerrier.
L'han giurato. Voi donne frugali,
rispettate, contente agli sposi,
voi che i figli non guardan dubbiosi,
voi ne' forti spiraste il voler.
Perchè ignoti che qui non han padri
qui staran come in proprio retaggio?
Una terra, un costume, un linguaggio
Dio lor anco non diede a fruir?
La sua patria a ciascun fu divisa.
E' tal dono che basta per lui.
Maledetto chi usurpa l'altrui,
chi il suo dono si lascia rapir.
Sù Lombardi! Ogni vostro Comune
ha una torre, ogni torre una squilla:
suoni a stormo. Chi ha un feudo una villa
co' suoi venga al Comun ch'ei giurò
Ora il dado è gettato. Se alcuno
di dubbiezze ancora parla prudente,
se in suo cor la vittoria non sente,
in suo cuore a tradirvi pensò.
Federigo? Egli è un uom come voi.
Come il vostro è di ferro il suo brando.
Questi scesi con esso predando,
come voi veston carne mortal.
- Ma son mille più mila - Che monta?
Forse madri qui tante non sono?
Forse il braccio onde ai figli fer dono,
quanto il braccio di questi non val?
Su! Nell'irto increscioso allemanno,
su, lombardi, puntate la spada:
fare vostra la vostra contrada
questa bella che il cel vi sortì.
Vaghe figlie del fervido amore,
chi nell'ora dei rischi è codardo,
più da voi non isperi uno sguardo,
senza nozze consumi i suoi dì.
Presto, all'armi! Chi ha un ferro l'affili;
chi un sopruso patì sel ricordi.
Via da noi questo branco d'ingordi!
Giù l'orgoglio del fulvo lor sir
Libertà non fallisce ai violenti,
ma il sentier de' perigli ell'addita;
ma promessa a chi ponvi la vita
non è premio d'inerte desir.
Giusti anch'ei la sventura, e sospiri
l'allemanno i paterni suoi fuochi;
ma sia invan che il ritorno egli invochi,
ma qui sconti dolor per dolor.
Questa terra ch'ei calca insolente,
questa terra ei morda caduto;
a lei volga l'estremo saluto,
e sia il lagno dell'uomo che muor

29 aprile 2013

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