Il vecchio, i cani e le voci che fanno paura

di Massimiliano Perna - ilmegafono.org - 28/06/2011
È giunto il momento di ascoltare voci nuove, vere, concrete, di cambiare faccia a questo Paese. E metterci la propria, come fanno i precari, è davvero un ottimo modo di iniziare.

C’era una volta, in un piccolo paese di provincia, un anziano signore, ricco possidente terriero, molto arrogante, che viveva la sua vita divertendosi e infischiandosene degli altri. Uno sbruffone, privo di cultura ed istruzione, ma con le tasche pienissime. Amava scherzare a modo suo, intratteneva chiunque capitasse nel bar in cui si trovava a bere qualcosa. Raccontava barzellette volgari, ammiccava a ogni donna che avesse la sfortuna di passargli davanti, ma soprattutto aveva un hobby: i cani. Ne aveva quattro e, in più, tutti i randagi del paese sembrava fossero suoi, lo rispettavano, lo seguivano, lo ascoltavano parlare, scodinzolanti o impauriti, quando ubriaco li eleggeva ad amici notturni a cui raccontare i suoi affari e le sue convinzioni oppure quando li rimproverava senza motivo. Il suo più grande divertimento, però, era quello di chiudere il pugno e, fingendo che dentro vi nascondesse del cibo, invitare i cani ad avvicinarsi per assaggiarne un po’. I poveri animali, contenti e con le code che battevano a mille, più o meno rapidamente accorrevano verso di lui che, non appena aveva i loro musi vicini, apriva il palmo mostrando il vuoto e accompagnando il gesto con una grassa risata di scherno. “Ci cascate sempre, idioti”, diceva allargando il suo ghigno tra le rughe.

Non ascoltava nessuno, nemmeno i pochi amici di sempre, compagni di affari e di bevute, e trattava con disprezzo tutti coloro che osavano contraddirlo o che gli facevano notare le sue poco limpide azioni, nella vita come nella gestione dei propri interessi. Morì ricchissimo e solo, ma soprattutto morì a causa della sua stoltezza: dopo che il terremoto aveva reso fragile la struttura della sua casa, si ostinò a restarvi dentro e licenziò la servitù che aveva “osato” rifiutarsi di continuare a vivere all’interno di una casa pericolante. “Non c’è nessun pericolo, idioti!”, attaccava. Una settimana dopo, al tramonto, mentre cenava, una valanga di blocchi di pietra lo seppellì per sempre.

Non so perché, ma questa vecchia storia, mi induce a pensare a qualcosa, mi sembra simile a qualcosa. O a qualcuno. Proviamo a fare una sostituzione. Vi viene in mente qualcuno che possa incarnare un vecchio signore, tracotante, sbruffone, amante delle barzellette, cocciuto, deciso a rimanere dentro il suo palazzo nonostante stiano crollando le fondamenta? E se pensiamo ai cani, non vi viene in mente che quei cani attirati da una promessa falsa e poi talmente annebbiati da ricascarci più volte, somigliano tanto ai cittadini di una nazione europea tra le più antiche e importanti? Uscendo fuori da questo gioco, guardiamo con serietà allo stato attuale del rapporto tra l’Italia e Berlusconi, o meglio tra il popolo italiano e la classe politica oggi al governo. La frattura è netta, spaventosa, perché è accaduto quello che in pochi realmente credevano potesse accadere: la gente ha preso coscienza. I nani, le ballerine e i bulli del palazzo lo sanno ed hanno paura, per questo scappano dai confronti: hanno il terrore di sottoporsi al giudizio del popolo.

E quindi optano per rinchiudersi in casa, sperando che nessuno li vada a prendere per ricordargli che quella è casa nostra, prima di tutto, e che non abbiamo firmato con loro nessun contratto di cessione a vita. Ora bisogna però capire quanto sia reale e consistente questo risveglio popolare. Si percepisce una nuova consapevolezza, legata alla stanchezza di sentirsi ostaggio di un governo che non governa, che vive tutto sulla vicenda personale e giudiziaria del suo capo, il quale vorrebbe convincerci che i suoi problemi siano la priorità di questo Paese. Sicuramente c’è una parte dei cittadini che da anni protesta, perché vive sulla propria pelle la situazione di precarietà, difficoltà, angoscia, ed è la stessa parte che già in questi anni si è ampiamente schierata contro Berlusconi ed i suoi (poco importa se questo flusso non ha avuto come conseguenza lo spostamento verso le forze di opposizione).

Di certo, però, c’è anche un’ampia parte che è più timida, che magari ha creduto fino a pochi mesi fa alle promesse. Ha scodinzolato fino a poco tempo fa e si distacca lentamente, con discrezione, nel segreto rigenerante e rassicurante dell’urna elettorale. Eppure Lui continua a dire che non c’è alcun problema, che la gente è ancora dalla sua parte. Dimentica, evidentemente, un aspetto importante, forse centrale, di cui chi governa dimostra di non rendersi conto: in Italia il consenso, anche quando sembra eterno è estremamente fragile. L’italiano è un cittadino strano, spesso credulone, facilmente condizionabile e portato ad affidarsi a personaggi carismatici che fanno la loro comparsa in politica, ad assicurare un consenso piuttosto lungo, apparentemente drogato ed irrazionale. Lo ha fatto con Mussolini, lo ha fatto anche con Craxi e, negli ultimi 20 anni, con Berlusconi. Il problema è che quello stesso cittadino ci sta poco a disaffezionarsi e a distaccarsi quando le cose non vanno bene e quando lo fa utilizza metodi netti, irreversibili.

Se questo Paese, che è stato fascista, dopo la caduta del regime non ammetteva di esserlo stato, se è stato ammaliato da Craxi e, non appena esploso lo scandalo Tangentopoli e svelato ampiamente il buco gigantesco nel bilancio statale, a Craxi ha riservato solo insulti e monetine, forse è il caso di interrogarsi sulla fragilità attuale del potere berlusconiano. I tre personaggi citati, anche se con le dovute differenze, si somigliano molto. E la fine drammatica dei primi due non lascia tranquillo il Caimano, che forse ha sottovalutato (o sopravvalutato, dipende dai punti di vista) l’Italia e il principio per cui, alla fine, i giochetti con la vita ed il futuro delle persone si pagano, restituendo all’arroganza, prima ottusamente confusa con il carisma, i connotati pesanti e la sagoma ingombrante della sopraffazione.

E mentre il Re attende la sua fine, il suo declino inarrestabile, mostrandosi buono e gentile perfino con il nemico di sempre (si vedano saluto, sorriso e chiacchierata con Di Pietro), fuori dal palazzo usurpato c’è un Paese che reclama. Lasciando stare gli pseudo risvegli dell’ultima ora, è indubbio che i protagonisti del cambiamento, quelli che negli ultimi anni, con proteste, iniziative, atti concreti, hanno costruito e spinto in avanti un progetto di rinnovamento culminato nel voto amministrativo e referendario, stanno prendendo sempre più forza e stanno mettendo a dura prova non solo coloro che governano, ma anche l’opposizione. Perché chi ha davvero preso coscienza non può non mettere in discussione l’intera classe politica, facendolo in maniera intelligente, non ignorando le differenze (che ci sono, a dispetto di quanto farnetica Beppe Grillo) e popolando le forme democratiche di partecipazione quali le primarie, le raccolte firme, il voto.

Ma soprattutto prendendo la parola, ribattendo alle falsità dei potenti, contestando, affermando i contenuti reali. Ascoltare le voci dei precari, i discorsi così giusti, veri, pulsanti di vita vissuta nel terreno polveroso della quotidianità, con la schiena dritta e i pugni stretti, e non nel velluto pregiato dei salotti del potere, con le schiene curve e la carne cadente, lascia sperare davvero che siamo in un momento decisivo, forse ancor più importante che negli anni 70, perché quegli anni ci hanno insegnato qualcosa e perché la situazione globale è in un equilibrio forse più fragile che in passato. È giunto il momento di ascoltare voci nuove, vere, concrete, di cambiare faccia a questo Paese. E metterci la propria, come fanno i precari, è davvero un ottimo modo di iniziare.

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