È un
viaggio senza fine, un disperato pellegrinaggio nel Mediterraneo,
bagnato dal dolore e dalle lacrime che ricoprono un mare divenuto
ormai luogo di sfida tra la speranza e la morte, tra la vita e
l’oblio. Non si ferma il dramma dei migranti, l’epopea di milioni
di esseri umani che inseguono la propria sopravvivenza, giocandosi
tutto ciò che hanno, subendo qualsiasi violenza nel tragitto che li
conduce verso l’Europa, verso l’Italia, terra desiderata, terra
d’avvio di quella che potrebbe essere una “nuova vita”, lontana
da guerre, persecuzioni, fame, orrore.
Un viaggio continuo,
nell’inferno fatto di acqua, tra le onde che hanno abbracciato
mortalmente migliaia e migliaia di fratelli, di giovani costretti a
crescere in fretta, a soffrire, a resistere, tra i colpi inesorabili
della fame e della sete, tra il dolore per gli amici, per i
familiari, per i figli lasciati cadere laggiù, nel cimitero dei
sogni, da dove grandi occhi neri guardano verso l’alto, per
ricordare a tutti noi, sazi figli del benessere, che c’è una
coscienza con cui fare i conti. Sì, perché quegli occhi sono la
nostra coscienza, ci guardano fissi, con umida intensità, ci
chiedono perché avviene tutto questo, per quale ragione una parte
del mondo finisce sepolta tra sabbia e pesci.
C’è tanta gente in
Italia che tiene a mente quegli occhi, che combatte per loro e per
tutti quelli che sono riusciti ad arrivare qui, in carne ed ossa, con
la triste felicità di essere scampati a una parte dell’inferno.
Già, perché l’altra parte invece è pressoché inevitabile ed
assume nomi come Kufra o Ganfuda o Tripoli; l’altra metà
dell’inferno si chiama Libia. Uno Stato con cui l’Italia di
Berlusconi ha stretto accordi firmati con il colore rosso del sangue
di giovani torturati, di donne abusate e costrette a portare in
grembo i figli dei loro stupratori.
L’Italia della Lega ha
rimandato all’inferno uomini, donne, bambini che avevano il diritto
di ricevere asilo, che avevano il diritto di approdare nelle nostre
coste e di essere accolti e tutelati dalle nostre istituzioni.
Abbiamo respinto donne incinte, stremate, assetate, debilitate, che
sono morte al sole, abbandonate sull’asfalto bollente del porto di
Tripoli. Un porto da cui, inevitabilmente, centinaia di persone ogni
giorno partono alla volta dell’Europa, stipati in barconi
fatiscenti, costretti a stare immobili per giorni, a far tutto nel
posto in cui gli scafisti li sbattono appena saliti a bordo. Si può
solo sperare e pregare: sperare di giungere a destinazione ed esser
tanto resistenti da arrivare con ancora un briciolo di forza in
corpo; pregare il proprio Dio affinché li protegga da nuovi orrori.
E se accade qualcosa, se il mare diventa troppo minaccioso e
violento, se la barca smette di singhiozzare e resta funestamente in
silenzio, unendosi all’enorme immobilità della notte, l’unica
possibilità che resta, se si ha la fortuna di avere un satellitare,
è di provare a lanciare l’allarme, sperando che qualcuno lo
raccolga. Anche in quest’ultimo caso, però, tutto ciò non basta.
Perché può capitare che per giorni passino decine di imbarcazioni
che magari lanciano a bordo qualche bottiglia d’acqua, un po’ di
viveri, per poi proseguire la loro rotta, senza poter fare alcun
trasbordo per timore di essere denunciati dalle autorità.
Oppure può
capitare che due Paesi come Malta e Italia diano sfogo al loro
consueto rimpallo di responsabilità, affrontandosi a colpi di
burocrazia e di norme, con la voce alta e acuta che stride con il
silenzio attorno al quale si compie il disperato destino dei
migranti.
Ancora una volta, il braccio di ferro tra i due Stati ha
sporcato di sangue il Mediterraneo. Nuovamente, il tardivo soccorso
basato sull’accompagnamento, senza il trasbordo dei naufraghi, ha
prodotto morte. L’ultimo caso è quello del barcone con a bordo 298
migranti lasciato in mezzo al mare forza 7, scortato da una
petroliera italiana, nell’attesa che si decidesse di intervenire.
Lo si è fatto tardi, dopo tre giorni dall’avvistamento, quando il
cuore di un giovane somalo di 25 anni aveva già deciso di
arrendersi. Egli è giunto privo di vita nel porto di Pozzallo, dove
sono stati sbarcati i naufraghi, tra cui 46 donne (4 delle quali in
stato di gravidanza) e una trentina di bambini. Si tratta, per la
gran parte, di somali ed eritrei, in fuga dalla guerra e dalla
violenza delle loro terre, passati dall’inferno libico ed ora
giunti in Italia, dopo notti di terrore, sofferenza, SOS inascoltati.
Avevano chiamato alcuni familiari residenti nel nostro Paese,
implorandoli di fare qualcosa, perché le onde erano altissime e la
barca stava per affondare. Una volta che l’allarme era stato
lanciato alle autorità, cominciava il solito balletto delle
competenze territoriali, mentre le associazioni umanitarie
protestavano e chiedevano di intervenire immediatamente, così come
faceva anche l’Alto commissario Onu per i rifugiati, Laura
Boldrini, la quale aveva dichiarato: “Riteniamo che sarebbe molto
pericoloso lasciare che l’imbarcazione continui a navigare senza
intervenire.
Per questo motivo auspichiamo che si faccia rapidamente chiarezza sulla posizione della barca, affinché venga deciso qual è il Paese che deve intervenire per prestare i necessari soccorsi ed evitare una nuova tragedia del mare”. Tragedia che, però, non si è evitata, perché la morte anche di un solo essere umano, in tali condizioni, è un dramma immane che pretende giustizia, giustizia che la Procura di Agrigento cerca di stabilire, attraverso l’apertura di un’inchiesta. Ma a cosa porterà? Magari a qualche condanna, ma purtroppo sappiamo bene che non basterà certo un’eventuale sentenza a coprire la vergogna di un mondo che chiude la porta a chi chiede aiuto. A coprire la vergogna di un’Italia che mostra gli artigli e i denti agli ultimi, ai disperati.