La CGIL ed i referendum

di Marco Manneschi - 15/09/2012
Intervento di Marco Manneschi in risposta ad Epifani (Unità di martedì)

Guglielmo Epifani pone alcune domande ai promotori dei referendum sostenendo, in sostanza, l’inutilità di questa sfida, che si dovrebbe al contrario condurre in Parlamento, coniugando la difesa dell’art. 18 nella sua versione antecedente alla mutilazione Monti – Fornero, con i diritti dei precari e di chi non trova lavoro.

“Troppo al di sotto del profilo del cambiamento che bisogna tenere” la definizione dell’iniziativa referendaria da parte di Epifani che suggerisce prudenza in una materia dove i precedenti sono tutti di segno negativo. Queste parole fanno tornare alla mente le tante obiezioni quando l’Italia dei Valori avviò la sfida referendaria per l’acqua pubblica, contro il legittimo impedimento ed il nucleare.

E’ vero che i referendum sull’art. 18 non toccano la mole complessiva dei problemi del lavoro e dell’economia, e che senza una politica industriale di rilancio e di sostegno delle produzioni non avremo nuovi posti di lavoro e quindi non avremo effetti apprezzabili dall’eventuale aumento dei salari.

Ma se nell’immediato il ripristino del diritto al reintegro riguarderà una modesta (ancorché significativa – vedi i licenziamenti dei soli iscritti FIOM) parte dei lavoratori, in prospettiva la permanenza di tale diritto garantirà che la ripresa economica offra uguali possibilità alle parti sociali. È evidente infatti che il travolgimento dell’art. 18, conquistato negli anni 70, rappresenta il simbolo dello sbilanciamento dei rapporti di forza fra capitale (sempre più finanziario) e manodopera.

Quando una azienda è veramente in crisi economica nessun lavoratore si sogna di invocare l’art. 18 per ottenere il reintegro in una azienda avviata alla chiusura, decretata dai Tribunali fallimentari. Il fatto è che la diffusione delle forme di precariato e di sfruttamento fa leva proprio su questo plateale sbilanciamento dei rapporti di forza, che fanno perdere dignità al valore fondante la nostra Carta costituzionale, il lavoro.

Così che qualora il Governo ed il Parlamento (rinnovati) riescano ad imboccare la strada di un nuovo sviluppo questo non possa prescindere da un patto fra le parti sociali che sia “equilibrato”, arginando la naturale tendenza allo sfruttamento. Proprio l’unità richiamata da Epifani fra tutti i lavoratori, giovani, precari, pensionati (che si è formata ad esempio in occasione degli ultimi referendum, suscitando una immensa energia positiva nel Paese), costituisce uno degli obiettivi della consultazione referendaria a difesa di un diritto fondamentale.

Il tentativo di disarticolare la società messo in atto in questi ultimi venti anni non si è compiuto, proprio perché un ampio schieramento si è “opposto” più in nome di valori universali che di vere proposte “alternative”. Ma ora che tante battaglie hanno reso possibile il cambiamento sarebbe sbagliato non cogliere la profondità e la vastità delle domande che provengono dai cittadini, compresi gli imprenditori.

Chi pretende definirsi “riformista” non deve dimenticare che le riforme, quelle vere (non le controriforme cui ci ha abituato Berlusconi imitato in parte da Monti) toccano interessi consolidati, sono scomode, ma garantiscono, ed anzi hanno come obiettivo principale, lo sviluppo, come accadde negli anni ’60. Perché nessuno parla di incentivi alle aziende che assegnino ai lavoratori una parte dell’utile di impresa? Oppure di misure VERE per eliminare gli adempimenti formali, ripetitivi ed inutili?

Marco Manneschi Consigliere regionale Italia dei Valori Toscana

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