LA STRAORDINARIA FORZA DELLE PAROLE

di Massimiliano Perna – ilmegafono.org - 28/03/2009
In occasione della puntata di “Che tempo che fa”, a lui dedicata, Roberto Saviano ha toccato i cuori e le coscienze del pubblico, mettendo ancora una volta a nudo, con la sua splendida rabbia, l’orrore immondo della camorra

La forza delle parole, la loro straordinaria capacità di esaltare la verità, di liberarla dalla morsa oppressiva di poteri oscuri, di renderla comprensibile a tutti, semplicemente di farla emergere e metterla a nostra disposizione. È questo il messaggio che ancora una volta Saviano ha dato all’opinione pubblica, nel corso della puntata speciale di Che tempo che fa, andata in onda mercoledì 25 marzo su Raitre ed a lui interamente dedicata. Due ore di trasmissione, aperte da un monologo di circa 40 minuti, in cui lo scrittore napoletano, con l’ausilio di un megaschermo, ha mostrato come la camorra, attraverso una serie di giornali locali, usi il linguaggio per nascondersi e per indirizzare l’opinione pubblica verso un pensiero comune che si trasforma facilmente in complicità, connivenza, accettazione.

Una carrellata di titoli comparsi sui quotidiani casertani, una sfilza di parole improprie che descrivono quella che di fatto è una guerra come se fosse una cosa normale, con l’aggravante di fornire ai lettori una chiave di lettura “conformista”, che induca ad approvare il punto di vista imposto dai boss. Vedendo scorrere sullo schermo quei ritagli di giornale, si ha l’impressione che quei giornalisti (se così si possono chiamare) abbiano scritto sotto la dettatura dei capiclan, le cui dichiarazioni o lettere, tra l’altro, sono spesso ospitate dagli stessi giornali. Un sistema di comunicazione in mano alla camorra, con mezzi di informazione che sfacciatamente si permettono di scrivere “Sindacalista giustiziato” o di definire “infame” un collaboratore di giustizia.

Roberto Saviano spiega benissimo ogni cosa, regalandoci una lezione di giornalismo e di analisi sociologica del linguaggio basata sulla realtà dei fatti, una realtà che fa arrossire, anche perché è rimasta nell’ombra e nell’assoluto silenzio per anni. Dalle terre di camorra arrivano storie di uomini che hanno combattuto e sono morti per affermare la giustizia, semplicemente hanno deciso di non piegarsi, di non svendere la propria dignità. E lo Stato e i mass media hanno taciuto, consapevolmente e colpevolmente, per evitare di guardare in faccia quella realtà, per evitare di dover intervenire, far qualcosa, schierarsi contro la camorra e a fianco degli onesti.

Così, Saviano ci racconta di don Peppino Diana, parroco ucciso perché con le sue parole aveva sfidato la camorra, e di Salvatore Nuvoletta, carabiniere di 20 anni ucciso mentre era per strada, disarmato. Già, perché come ricorda Roberto, i camorristi sono “dei codardi, che uccidono solo quando sei disarmato”. Poi, una volta eseguito il delitto, comincia un altro delitto, ancora più grave, cioè quello della diffamazione, del sospetto addossato alle vittime, in modo che non diventino esempi di chi ha alzato la testa, in modo che non possano essere considerati come degli eroi. Così hanno fatto con don Diana, così con Salvatore Nuvoletta: li hanno diffamati, utilizzando giornali locali conniventi, che hanno sbattuto in prima pagina le tesi suggerite dai boss, facendo da subito scemare un possibile interesse dei media nazionali.

Lo spiega chiaramente Saviano quando, rivolgendosi al pubblico, a proposito di Nuvoletta, afferma: “Perché non avete mai sentito questo nome? È un carabiniere di 20 anni. Non lo avete mai sentito, perché quando la camorra uccide non lo fa con le pallottole ma con la diffamazione”. Con questo metodo si costruisce il silenzio, un silenzio terribile, colpevole, che ha consentito di nascondere all’intero Paese il sangue di una guerra terribile, che ha fatto migliaia di morti, che ha visto corpi martoriati e volti sventrati dai proiettili giacere in mezzo alla strada, attorniati da folle di curiosi assiepate dietro i nastri biancorossi della polizia: nelle prime file di questo pubblico, come Saviano ha mostrato con rabbia in alcune foto, c’erano sempre tanti bambini, spettatori puntuali di uno spettacolo macabro e sconvolgente. Proprio come avviene nelle tante zone di guerra sperdute nel mondo, in cui il volto serio dei bambini davanti ad un teatro di morte sconquassa le coscienze di chi ancora è capace di indignarsi e di chiedere pace.

Secondo lo scrittore napoletano, dunque, i mass media sono i primi responsabili di tale silenzio: “In media si ammazzano una o due persone al giorno, spesso tre, e la cronaca nazionale ignora tutto questo che viene lasciato a pochi cronisti coraggiosi. Tutto questo vive in un silenzio colpevole perché non permette al Paese di capire ciò che sta succedendo”. Ma non solo. Anche la politica, di ogni colore, ha la sua grande responsabilità: “Nell’ultima campagna elettorale, da qualsiasi parte, non si è parlato di mafia perché c’era l’impressione che la gran parte della gente non fosse interessata.

La politica è molto complicata e la cosa più grave che può fare è far scendere il silenzio su queste vicende così come la cosa più grave che possano fare gli elettori è il silenzio su queste storie. La politica ha paura di affrontare l’argomento camorra. Bisogna capire che la legalità non è il risultato, ma deve essere la premessa dell’azione politica”. Anche chi combatte ogni giorno con la forza della parola, come fa Roberto, deve scontrarsi con le accuse, le critiche irriguardose, le invidie, che si aggiungono alle minacce e ai pericoli che ti costringono ad una vita blindata, chiuso in una stanza, solo, privo dell’aria che ti viene tolta solo perché hai detto la verità, perché hai fatto il tuo dovere di cittadino, di giornalista, di scrittore.

Alle accuse di essersi arricchito grazie alle sciagure della sua terra, di essere un’operazione mediatica e perfino a quelle assurde di plagio, fatte da un editore locale sotto processo per estorsione, Saviano risponde così: “Vivo grazie ai miei lettori e i soldi che ricevo sono quelli che mi danno loro comprando il mio libro o leggendo i miei articoli sui giornali per cui scrivo […] Io voglio essere un’operazione mediatica, voglio parlare al più alto numero di persone. Voglio le prime pagine, voglio serate come questa perché voglio raggiungere più persone possibili. Per quanto riguarda l’accusa di plagio ricordo le parole di Enzo (Biagi ndr), il quale, quando mi intervistò, mi disse ‘sei veramente arrivato quando fanno un falso del tuo libro e ti accusano di plagio’. Adesso io le ho tutte e due”.

Roberto Saviano, che ha ricevuto gli elogi e l’incoraggiamento di grandi della letteratura mondiale come Metha, Auster e Grossman, ha poi ringraziato i carabinieri che lo proteggono da tre anni, la gente che lo ha sostenuto e lo sostiene scrivendogli sempre, a tutte le ore, e anche chi lo ha criticato ma in maniera rispettosa. Poi, nel finale, con rabbia, citando John Kennedy, ha detto di “non dimenticare” il male subito da coloro che hanno lasciato solo lui e la sua famiglia, tutti quegli amici infastiditi dalla sua scelta, che lo hanno trattato come se lui avesse fatto qualcosa di male, coloro che lo hanno accusato senza ragione e senza rispetto, quelli che gli impediscono di vivere una vita normale. Già perché Roberto vive una vita blindata, difficile da invidiare, una vita che conosce l’aria e i colori solo quando egli va a parlare in pubblico o in tv, ma che un momento dopo ritorna ad essere blindata, scortata, solitaria.

Ma Roberto ha scelto una strada, lo ha fatto con coraggio, animato dalla convinzione che la parola è più forte di tutto, delle armi, delle guerre, delle organizzazioni criminali. E nella storia ci sono tanti esempi, da Gandhi a Martin Luther King, da Rushdie a don Puglisi. E le parole fanno paura. Lo spiega bene Roberto, durante l’intervista concessa a Fabio Fazio: “Come è possibile che organizzazioni così potenti abbiano paura di me o di un libro? Io lo ripeto: loro non hanno paura di me, hanno paura di tanti occhi che hanno letto queste parole, del fatto che tante lingue, tante braccia…tante discussioni avvengano su di loro. È il lettore la cosa più pericolosa che esiste per queste organizzazioni. Sono le prime pagine che i lettori impongono. Se chi racconta non avesse lettori non avrebbe le prime pagine. Quindi, in realtà, la loro paura è la paura di questo insieme”.

In conclusione, Saviano descrive, invece, qual è la sua paura: “Io sono terrorizzato dalla delegittimazione. Io ho paura che saranno tanti i tentativi di mettermi in ginocchio. Io mi aspetto il peggio, lo dico alle persone che mi vogliono bene. La mia paura è quella di continuare a stare in questa situazione anche di solitudine senza fine e sono grato a chi, in questi ultimi mesi, in questi anni, è riuscito a entrare nella mia vita non facendomi sentire in colpa per quello che sto subendo”. Ecco perché bisogna continuare a dare a Roberto il nostro sostegno, nella consapevolezza che la nostra continua solidarietà gli è di grande aiuto.

 

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