Le strade son piene di mostri

di Massimiliano Perna - ilmegafono.org - 10/09/2011
Riflessione di Massimiliano Perna camminando nelle strade di Milano

Una giornata come tante altre, normale, piuttosto serena nel suo scorrere. Tornando dal lavoro decido di fare una passeggiata in centro, stasera Milano ha un vestito accogliente e ho voglia di respirarla un po’. Approfitto del mio incedere volutamente lento per chiamare un po’ di amici che vivono qui e che non riesco mai ad incontrare. Qualche chiacchiera veloce mentre imbocco via Torino. Ripongo il telefono in tasca, attraverso piazza del Duomo ed entro in Galleria: c’è la solita folla di turisti, le solite macchinette infaticabili ad immortalare con il flash ogni angolo. Ci sono i bar, i tavolini fuori, commensali occasionali e habitué, ci sono i negozi e talloni infilati nell’effige rotonda del toro impressa sul pavimento. Ci sono i bengalesi, con i loro volti annoiati e gli occhi stanchi, a vendere giocattoli che nessuno compra, a far volare in alto molle di plastica luminose. Entro in una libreria, giro un po’ tra i reparti, compro un paio di libri. Adesso posso tornare a casa. Sono proprio al centro della Galleria, guardo la gente, ne immagino i pensieri, le abitudini. Il mio occhio cade su due cavallini di plastica che si muovono appaiati, meccanicamente, in mezzo alla folla. Sono i giochi dei venditori bengalesi ed aspettano la mano di qualche bambino che ancora provi curiosità per qualcosa che non sia alla moda.

È un attimo: un uomo corpulento, maglietta turchese e capelli bianchi che scendono, compatti, fino a metà del collo, si china afferrando i due cavalli e portandoli tra le sue braccia, con un movimento rude, quasi con stizza, mentre il giovane venditore volta le spalle e scappa, velocissimo, infilando una delle uscite laterali della Galleria. Non capisco cosa stia succedendo. Mi blocco, in una frazione di secondo ho l’istinto di avvicinarmi all’uomo, distante una decina di metri, e chiedere spiegazioni. Prendo tempo, lo seguo, mentre con il “bottino” tra le braccia si sposta alla mia destra. Si dirige verso un altro venditore, che sta mostrando i prodigi della molla di plastica a due turisti. Lentamente si accosta e, con decisione, lo afferra alle spalle, lo prende per il braccio e lo porta con sé. Freno ancora una volta il mio istinto di bloccare quell’uomo, ormai è chiaro che si tratta di un poliziotto. L’esperienza mi ha insegnato, in casi del genere, a non agire mai con rabbia o irrazionalità, lasciandomi travolgere o guidare dalle emozioni. Così faccio quello che ho sempre fatto, voglio ascoltare la voce di chi subisce: cerco di capire andando alla ricerca del ragazzo che vendeva i cavallini di plastica.

Prendo la sua direzione e lo trovo qualche centinaio di metri più avanti, nascosto in un angolo, con lo sguardo rivolto alla Galleria. “Chi era quell’uomo?”, gli chiedo. Mi conferma che è un poliziotto e che va sempre a caccia di venditori abusivi. Poi, mi domanda se per caso fossi interessato ad uno di quei cavalli. Rispondo di no, spiego il perché della mia domanda e vado via. Torno indietro e mi fermo proprio davanti alla camionetta della Polizia dove adesso si trova il malcapitato, quello finito tra le grinfie dell’energumeno. Vedo che giunge le mani, chiede di lasciarlo andare. Gli agenti parlano con lui, controllano la merce dentro la sua borsa. Li vedo sorridere, parlano tra loro, probabilmente di altro, come se tutto ciò fosse routine. Le loro risa stridono con il volto preoccupato di quel giovane che, in quel momento, ha perso la merce con cui guadagnarsi qualcosa per vivere onestamente. Già perché non è lui l’abusivo in questo mondo. A guardare la scena con me c’è un signore sulla cinquantina, dai tratti asiatici. I nostri occhi si incrociano e reciprocamente accenniamo ad una smorfia di identica perplessità. Così iniziamo a parlare. Ed è qui che, per l’ennesima volta, si compie un misterioso rituale che accompagna la mia vita.

Da una passeggiata non prevista, il mio tardo pomeriggio si trasforma nell’ennesimo invito che qualcuno o qualcosa mi porge: “Non distrarti mai da te stesso. Non abbandonare mai quello che sei”. I fatti, le storie, le vite mi inseguono. Questo sconosciuto cittadino pachistano inizia a parlare con me, comincia a raccontarmi chi è quel poliziotto, cosa accade ogni giorno a chi prova a vivere in questo Paese. Mi dice che l’Italia non è male, che c’è tanta gente che aiuta chi è in difficoltà, dando cibo, vestiti, insomma i beni primari. Mi dice che lui è da 21 anni nel nostro Paese, che conosce tanti poliziotti per bene, che chiudono un occhio con chi non fa nulla di male. Sa chi è quell’energumeno, dice che è il terrore di tutti gli ambulanti. Penso con un sorriso amaro che fino a 5 anni fa anche io volevo entrare in Polizia o nei Carabinieri, ma ricordo che io sognavo di diventare il terrore di mafiosi, stupratori, sfruttatori e corrotti. Evidentemente c’è chi invece preferisce essere lo spauracchio di chi non ha i mezzi, la possibilità e la voglia di reagire. Di sicuro è più facile, anche perché avere un fisico imponente non sempre corrisponde alla presenza di un coraggio altrettanto imponente. E contro la criminalità organizzata, il coraggio serve eccome.

Mentre nel mio cervello passa questa riflessione, il signore di fronte a me continua a parlare, a raccontare. Mi parla dei tanti lavori fatti (lavapiatti, magazziniere, operaio) e della sua difficoltà al momento a trovare un lavoro stabile. Mi racconta di quella volta che, con un contratto a tempo indeterminato, è andato al commissariato di via Turati, per chiedere informazioni sul permesso di soggiorno e ha “fatto conoscenza” con un poliziotto pelato, un tantino nervoso, che lo ha schiaffeggiato invitandolo ad andare via e a non rompere le palle, dopo averlo riempito di insulti: “Lo hanno fermato i suoi colleghi, dicendomi di lasciarlo perdere, che lui ha un carattere particolare…”. Mi dice che è anche andato alla Cgil, il sindacato che lo segue, a raccontare la vicenda e che il sindacato ha protestato con la questura che, nemmeno a dirlo, ha negato tutto. Infine, mi racconta del ristorante di un albergo in zona Duomo, che gli ha pagato molte meno ore di quelle effettivamente svolte come lavapiatti, assicurando (sia a lui che al sindacato) di pagarle con l’ultima busta. Mancano ancora 20 euro (“Con 15 ci pago la bolletta del gas, prima che lo taglino”), che il datore di lavoro adesso rifiuta di pagare, invitandolo ad andare a denunciarlo se vuole.

“Cosa sono per lui 20 euro?”, mi dice con tono pacato. Già cosa sono? Sono la differenza tra due mondi, tra due modelli. Una banconota da 20 euro così come 5 litri d’acqua: per un milanese, per un italiano, per un europeo sono bazzecole, cose scontate, facili da rimediare. Per l’80% della popolazione mondiale sono vitali, sono tasselli di un puzzle malconcio chiamato sopravvivenza. Dopo un’ora di chiacchierata, il mio nuovo amico mi saluta e si scusa per avermi forse annoiato con le sue opinioni ed i suoi racconti: “Scusami, ma se ti ho raccontato tante cose della mia vita è perché credo a pelle che tu possa comprendere queste cose”. Lo rassicuro. Non mi ha annoiato. Stringo la mano e vado via. “Buona fortuna”, dico. “Buona fortuna anche a te fratello”, mi risponde. Cammino, guardo ancora la camionetta della Polizia, che è tornata al suo posto. L’energumeno non c’è. Sarà rimasto in questura con la sua “preda”.

Penso incessantemente ai mostri, a quelli che camminano per strada, con lo sguardo superbo e la giacca in ordine, a quelli che negli occhi hanno disegnato un immutabile disprezzo, a quelli in divisa, troppo spesso tutori del nulla, forti e prepotenti con i deboli, per strada come nelle salette delle loro tane blindate. Il decoro. Cosa diavolo è il decoro urbano? Un gioco ipocrita di prepotenza. La Galleria deve essere liberata dagli asiatici vestiti male e circondati da giochi poco attraenti e fashion. Via quei colori scuri e quella povertà che stonano con le gambe bianche dei turisti e con i vetri lucidi e le luci delle boutique. Danno fastidio, macchiano una tela fatta di linee apparentemente rette e simmetriche. Poco importa che le ‘ndrine si siano spartiti la città, che c’è chi paga il pizzo in silenzio, chi intasca rotoli di soldi imbrattati di fango e calcestruzzo. No. Il decoro non è una questione così profonda: è solo il trucco che riempie la faccia odiosa ed arrogante di quegli orrendi mostri che infettano le nostre sorde coscienze.

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