Stiamo vivendo una fase costituente senza averne adeguata
consapevolezza, senza la necessaria discussione pubblica, senza la
capacità di guardare oltre l’emergenza. È stato modificato l’articolo 81
della Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio. Un decreto
legge dell’agosto dell’anno scorso e uno del gennaio di quest’anno hanno
messo tra parentesi l’articolo 41. E ora il Senato discute una
revisione costituzionale che incide profondamente su Parlamento,
governo, ruolo del Presidente della Repubblica. Non siamo di fronte alla
buona “manutenzione” della Costituzione, ma a modifiche sostanziali
della forma di Stato e di governo. Le poche voci critiche non sono
ascoltate, vengono sopraffatte da richiami all’emergenza così perentori
che ogni invito alla riflessione configura il delitto di lesa economia.
In
tutto questo non è arbitrario cogliere un altro segno della incapacità
delle forze politiche di intrattenere un giusto rapporto con i cittadini
che, negli ultimi tempi, sono tornati a guardare con fiducia alla
Costituzione e non possono essere messi di fronte a fatti compiuti.
Proprio perché s’invocano condivisione e coesione, non si può poi
procedere come se la revisione costituzionale fosse affare di pochi, da
chiudere negli spazi ristretti d’una commissione del Senato, senza che i
partiti presenti in Parlamento promuovano essi stessi quella
indispensabile discussione pubblica che, finora, è mancata.
Con una battuta tutt’altro che banale si è detto che la riforma dell’articolo 81 ha dichiarato l’incostituzionalità di Keynes.
L’orrore
del debito è stato tradotto in una disciplina che irrigidisce la
Costituzione, riduce oltre ogni ragionevolezza i margini di manovra dei
governi, impone politiche economiche restrittive, i cui rischi sono
stati segnalati, tra gli altri da cinque premi Nobel in un documento
inviato a Obama. Soprattutto, mette seriamente in dubbio la possibilità
di politiche sociali, che pure trovano un riferimento obbligato nei
principi costituzionali. La Costituzione contro se stessa? Per mettere
qualche riparo ad una situazione tanto pregiudicata, uno studioso
attento alle dinamiche costituzionali, Gianni Ferrara, non ha proposto
rivolte di piazza, ma l’uso accorto degli strumenti della democrazia.
Nel momento in cui votavano definitivamente la legge sul pareggio di
bilancio, ai parlamentari era stato chiesto di non farlo con la
maggioranza dei due terzi, lasciando così ai cittadini la possibilità di
esprimere la loro opinione con un referendum.
Il saggio invito
non è stato raccolto, anzi si è fatta una indecente strizzata d’occhio
invitando a considerare le molte eccezioni che consentiranno di sfuggire
al vincolo del pareggio, così mostrando in quale modo siano considerate
oggi le norme costituzionali. Privati della possibilità di usare il
referendum, i cittadini — questa è la proposta — dovrebbero raccogliere
le firme per una legge d’iniziativa popolare che preveda l’obbligo di
introdurre nei bilanci di previsione di Stato, regioni, province e
comuni una norma che destini una quota significativa della spesa proprio
alla garanzia dei diritti sociali, dal lavoro all’istruzione, alla
salute, com’è già previsto da qualche altra costituzione. Non è una via
facile ma, percorrendola, le lingue tagliate dei cittadini potrebbero
almeno ritrovare la parola.
L’altro fatto compiuto riguarda la
riforparlamentari, costituzionale strisciante dell’articolo 41. Nei due
decreti citati, il principio costituzionale diviene solo quello
dell’iniziativa economica privata, ricostruito unicamente intorno alla
concorrenza, degradando a meri limiti quelli che, invece, sono principi
davvero fondativi, che in quell’articolo si chiamano sicurezza, libertà,
dignità umana. Un rovesciamento inammissibile, che sovverte la logica
costituzionale, incide direttamente su principi e diritti fondamentali,
sì che sorprende che in Parlamento nessuno si sia preoccupato di
chiedere che dai decreti scomparissero norme così pericolose.
È
con questi spiriti che si vuol giungere a un intervento assai drastico,
come quello in discussione al Senato. Ne conosciamo i punti essenziali.
Riduzione del numero dei modifiche riguardanti l’età per il voto e per
l’elezione al Senato, correttivi al bicameralismo per quanto riguarda
l’approvazione delle leggi, rafforzamento del Presidente del Consiglio,
poteri del governo nel procedimento legislativo, introduzione della
sfiducia costruttiva. Un “pacchetto” che desta molte preoccupazioni
politiche e tecniche e che, proprio per questa ragione, esigerebbe
discussione aperta e tempi adeguati. Su questo punto sono tornati a
richiamare l’attenzione studiosi autorevoli come Valerio Onida,
presidente dell’Associazione dei costituzionalisti, e Gaetano Azzariti, e
un documento di Libertà e Giustizia, che hanno pure sollevato alcune
ineludibili questioni generali.
Può un Parlamento non di eletti,
ma di “nominati” in base a una legge di cui tutti a parole dicono di
volersi liberare per la distorsione introdotta nel nostro sistema
istituzionale, mettere le mani in modo così incisivo sulla Costituzione?
Può l’obiettivo di arrivare alle elezioni con una prova di efficienza
essere affidato a una operazione frettolosa e ambigua? Può essere
riproposta la linea seguita per la modifica dell’articolo 81, arrivando a
una votazione con la maggioranza dei due terzi che escluderebbe la
possibilità di un intervento dei cittadini? Quest’ultima non è una
pretesa abusiva o eccessiva. Non dimentichiamo che la Costituzione è
stata salvata dal voto di sedici milioni di cittadini che, con il
referendum del 2006, dissero “no” alla riforma berlusconiana.
A
questi interrogativi non si può sfuggire, anche perché mettono in
evidenza il rischio grandissimo di appiattire una modifica
costituzionale, che sempre dovrebbe frequentare la dimensione del
futuro, su esigenze e convenienze del brevissimo periodo. Le riforme
costituzionali devono unire e non dividere, esigono legittimazione forte
di chi le fa e consenso diffuso dei cittadini.
Considerando più
da vicino il testo in discussione al Senato, si nota subito che esso
muove da premesse assai contestabili, come la debolezza del Presidente
del Consiglio. Elude la questione vera del bicameralismo, concentrandosi
su farraginose procedure di distinzione e condivisione dei poteri delle
Camere, invece di differenziare il ruolo del Senato. Propone un
intreccio tra sfiducia costruttiva e potere del Presidente del Consiglio
di chiedere lo scioglimento delle Camere che, da una parte, attribuisce
a quest’ultimo un improprio strumento di pressione e, dall’altra,
ridimensiona il ruolo del Presidente della Repubblica. Aumenta oltre il
giusto il potere del governo nel procedimento legislativo, ignorando del
tutto l’ormai ineludibile rafforzamento delle leggi d’iniziativa
popolare. Trascura la questione capitale dell’equilibrio tra i poteri.
Tutte
questioni di cui bisogna discutere, e che nei contributi degli studiosi
prima ricordati trovano ulteriori approfondimenti. Ricordando, però,
anche un altro problema. Si continua a dire che le riforme attuate o in
corso non toccano la prima parte della Costituzione, quella dei
principi. Non è vero. Con la modifica dell’articolo 81, con la
“rilettura” dell’articolo 41, con l’indebolimento della garanzia della
legge derivante dal ridimensionamento del ruolo del Parlamento, sono
proprio quei principi ad essere abbandonati o messi in discussione.
Nel silenzio generale stiamo assistendo alla manomissione di alcuni importantissimi articoli della Costituzione. Può un Parlamento di non eletti, ma di “nominati” in base a una legge di cui tutti a parole dicono di volersi liberare per la distorsione introdotta nel nostro sistema istituzionale, mettere le mani in modo così incisivo sul testo fondativo della nostra Repubblica?