Per la felicità degli azionisti

di Isabelle Pivert* - Le Monde Diplomatique (traduzione dal francese di José F. Padova) - 27/03/2009
Le soppressioni di posti di lavoro si moltiplicano e nel 2008 gli azionisti delle quaranta maggiori imprese francesi quotate in Borsa (CAC 40) hanno ricevuto 54,2 miliardi di euro di dividendi. Di fronte a una simile esibizione di ricchezze distribuite in piena crisi il presidente della Repubblica francese fa balenare un’eventuale spartizione dei benefici. Questi ultimi saranno tanto più abbondanti quanto più i salari saranno compressi e i posti di lavoro cancellati dalla lista.

Verso la fine degli anni ’80 ha iniziato a imporsi il diktat della creazione di valore per l’azionista, ovvero shareholder value (inizialmente shareholder value creation). Questo concetto non soltanto ha sconvolto l’organizzazione e il funzionamento tradizionali delle imprese, ma anche la coesione sociale della quasi totalità dei Paesi industrializzati. Proveniente dai dipartimenti «Fusioni e acquisizioni» delle banche d’affari anglosassoni, la shareholder value mirava inizialmente a determinare il guadagno per l’azionista drivante da un’ operazione di fusione o di acquisto fra due imprese. A poco a poco essa è diventata il criterio di valutazione delle performance finanziarie dell’impresa, a detrimento di qualsiasi logica economica e industriale.

Le imprese, fino ad allora orientate a ingrandire, fondersi, fagocitarsi l’un l’altra o scomparire nel nome dell’economia di scala e della corsa alla grandezza critica, non lo furono ormai più se non al fine di fornire una remunerazione massima ai loro azionisti. La quale, d’altra parte, non dipendeva più unicamente da una distribuzione di dividendi (generalmente calcolati a partire dall’utile), ma sempre più dal rialzo del corso borsistico dell’azione della società.

Con l’incremento della mondializzazione, grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, a una mobilità sempre maggiore dei capitali e a una standardizzazione generalizzata dei sistemi informatici, gli studi internazionali di consulenza strategica hanno fatto uscire la shareholder value dalla sua culla originaria – la banca d’affari – per propagarla, attraverso le direzioni generali, a tutti i livelli decisionali delle società quotate in Borsa (1).

«Ormai voi lavorate unicamente per l’azionista!». Questo dirigente commerciale di una multinazionale dell’industria farmaceutica si ricorda così della presentazione, fatta dai suoi superiori a tutti i salariati riuniti per l’occasione, del concetto di creazione di valore: «Questo mi ha scioccato! Poi ci hanno spiegato che anche noi ne avremmo approfittato perché, se si fosse arricchito l’azionista, si sarebbero ricevuti premi, aumenti di paga…». Da parte sua, Charles C., vice-presidente di uno degli studi di consulenza che hanno contribuito a diffondere l’idea, ricorda: «Desideravo continuare a lavorare sul nesso fra strategia e nuova teoria finanziaria, quello che all’epoca si denominava il valore azionario dell’impresa. Si trattava di un approccio molto micro-economico e finanziario alla strategia di un’impresa; conveniva scegliere le strategie in funzione del loro potenziale di creazione di valore per l’azionista».

A partire dalla metà degli anni ’90 la shareholder value servirà come principio unificatore, se non addirittura «razionalizzatore», perché ormai si applica a tutti i settori o quasi. Un’impresa quotata in Borsa è tenuta a servire al meglio i suoi azionisti con i rendimenti, vale a dire i ritorni sull’investimento, che possono raggiungere – e talvolta superare – il 15% all’anno. Nello spazio di un decennio il concetto è diventato operativo e anzi centrale per le società iscritte alla Borsa. «L’ingresso di Valeo [accessori per l’auto, francese] nell’indice CAC 40 nel 1997-1998 ha creato un nuovo ritmo: ammonizioni sui risultati (profit warning), reporting, si percepiva una tensione più elevata sui risultati trimestrali», ricorda Didier C., direttore di una società di subappalti in campo automobilistico, acquistata nel 2005 da un gruppo giapponese.

Un colabrodo con acqua dentro
L’obbligo di servire gli interessi dell’azionista si trova allora codificato nell’espressione corporate governance, il (buon) governo dell’impresa, il cui principio naturale e implicito è quello di rispondere a una sola e medesima domanda, prima di ogni decisione: questo creerà ricchezza per l’azionista? Per Didier C. l’impresa quotata «è tenuta a realizzare performance di borsa, ma l’innovazione, il cui ritorno sull’investimento non si realizza che a medio o lungo termine, è compromessa da questo approccio. Non ci si trova più per nulla nella strategia industriale: l’impresa esiste per “sputare” risultati al servizio degli istituti finanziari». Perché, parallelamente, «in vent’anni l’intermediazione finanziaria è esplosa».

I quadri dirigenti, la cui remunerazione in stock-option (che dipendono quindi dal corso borsistico dell’azione) ha allineato gli interessi su quelli degli azionisti, non hanno altra scelta se non di selezionare lo scenario che pensano sia più suscettibile di fare salire, più in fretta e più in alto, il corso in Borsa. Quell’attività [industriale] esistente, che si suppone non generi «altro che» il 6%, il 7% o l’8% di ritorno sui capitali investiti – e quindi a priori redditizia –, verrà abbandonata o liquidata a favore di quella che genera un tasso superiore al 10%, addirittura al 15%. Per prendere un esempio dall’industria farmaceutica – nella quale i cicli di ricerca sono molto lunghi – questa logica finanziaria ha come conseguenza, in ogni decisione d’investimento riguardante la ricerca applicata partendo da una nuova molecola, l’identificazione preventiva dei clienti più promettenti. Fra la malaria, che colpisce milioni di persone nei Paesi poveri, e l’obesità, che affligge i Paesi ricchi, la scelta per la ricerca favorirà la seconda, considerata più favorevole per l’evoluzione dei corsi in Borsa.

Secondo Didier C. la necessità di generare profitti a breve termine, molto più imperiosa di un tempo, crea un ritmo estremamente difficile per le imprese. La globalizzazione e la delocalizzazione ne sono le conseguenze. Per i produttori di accessori per l’auto l’obbligo di essere sempre più redditizi a breve termine si traduce in una riduzione del costo del lavoro. «Se nel nostro settore mi si impone di aumentare i miei risultati del 10% o del 15%, licenzio altro personale e ne assumo nelle mie fabbriche in Cina o in India. Ma facendo questo io uccido l’impresa, perché il mio know-how è ancora qui [in Francia] e occorre battersi per mantenervelo». Per Gérard S., gestore di fondi pensione dopo essere stato analista e poi consulente di strategia in una grande banca, «in nove casi su dieci un’impresa che annuncia di trasferire il 10% dei suoi centri di produzione dalla Francia verso l’Asia vedrà le sue quotazioni di Borsa salire il giorno stesso».

Da qui nasce la contraddizione, per non dire la perversità, della creazione di valore: basandosi sul breve termine essa si oppone alla nozione stessa d’impresa, la quale è una scommessa dinamica e misurata sull’avvenire. Questa contraddizione è aggravata dalla credenza, sapientemente alimentata, che la battaglia sul breve termine va di pari passo con una concorrenza sfrenata e permanente. «Bisogna sentirsi in pericolo, adattarsi, investire», ritiene Jean-Marc P., investitore di capitali a proprio rischio. Da parte sua, il consulente Charles C. rilascia questa sorprendente confessione: «Io lavoro alla disumanizzazione dell’organizzazione e del management, nel senso di sopprimere tutto ciò che è interno all’uomo». Quanto a Jean-Michel L., che si occupa di assunzioni, pensa che i manager hanno snaturato in modo singolare un celebre pensiero dell’economista John Maynard Keynes: «”A lungo termine si è tutti morti”, quindi soltanto il quotidiano conta».

Un’altra delle alienazioni [mentali] provocate dalla creazione di valore è il fatto che questa porta profitto innanzitutto ad azionisti che non rassomigliano all’azionista tradizionale.  Effettivamente la società quotata in Borsa è soprattutto debitrice di investitori tradizionali (fondi pensione, banche, assicurazioni) o di fondi privati. Come lo spiega Didier C.: «Questa intermediazione, nella quale l’azionista è un fondo che esso stesso è il prodotto di migliaia di persone, crea uno schermo fra la realtà economica di un’impresa e l’azionista di base. Non si è più in un capitalismo di prossimità, nel quale la gente sa dove mette i soldi; si è in un’intermediazione che crea attese, perché questi fondi hanno anch’essi un prodotto da vendere. Si è lontani dallo schema capitalista in cui un individuo che ha un’idea può fare appello ad azionisti per mandare avanti un progetto». Charles C. da parte sua assicura: «Non vedo come si possa trattenere in Francia il valore quando questo è creato altrove. È come un colabrodo con dell’acqua dentro».

Di colpo, nelle società «ricche» il crollo degli impieghi fissi genera nelle classi medie e popolari una permanente insicurezza sociale ed economica. Secondo Aline T., analista finanziaria in una società di Borsa, «è l’organizzazione globale del sistema capitalista, attraverso la Borsa, che crea la disoccupazione». Questo vale anche quando la società non è quotata e una parte del suo capitale è nelle mani di fondi d’investimento privati (private equity). «Questi fondi acquistano grandi imprese allo scopo di rivenderle entro tre o quattro anni, avverte Gérard S. Il loro fine è quello di realizzare plusvalenze le più alte possibili. Bisogna fare “sputare sangue” all’impresa. Nel peggiore dei casi, fermeranno la ricerca, annulleranno gli investimenti a lungo termine, licenzieranno più gente possibile, per fare sì che i profitti a breve termine siano i più grandi possibili e per poi rivenderla».

L’obbligo di creare valore ha portato quindi da parte degli azionisti e dei quadri dirigenti dell’impresa – remunerati con stock-option – alla presa del potere e del controllo sui salariati di base, ma il processo è ben lungi dall’essere concluso. Di fronte alla pressione dei primi, i secondi hanno sviluppato strategie individuali di «sopravvivenza» che comprendono nuove pratiche di sottrazione di materiale o di merci, di resistenza nel dare informazioni, di accordi ufficiosi che vanno contro alla strategia del primo gruppo e alla rimunerazione massima dell’azionista. In modo simmetrico e preventivo la propaganda, l’omissione e la menzogna sono diventati modi correnti di management operativo; si parla perfino di «management mediante terrore».

Mestieri portatori di germi autoritari
Quando si nuota in un ambiente di concorrenza volontariamente esacerbata, colui che non si integra abbastanza in fretta nella norma è escluso. Secondo Didier C. «il sindacato svolgeva, prima, un ruolo di intermediario fra i destini individuali e la politica dell’impresa, ma ora si sente che, anche se questo non è mai stato un criterio per tenere o licenziare le persone, quelli che restano sono coloro le cui aspirazioni individuali si avvicinano finalmente alle necessità dell’impresa, senza il bisogno di qualsivoglia intermediazione». Allo stesso tempo l’integrazione alla norma comporta adeguamenti per anticipazione o per mimetismo, come sottolineano gli analisti dell’agenzia di rating Fitch: «Trasferire la produzione in Paesi con bassi costi salariali non procura necessariamente un vantaggio concorrenziale, ma è probabilmente una nuova norma». Storico per formazione, consulente dello Studio Syndex – che lavora per i comitati d’impresa – Rémi Skoutelsky constata un’evoluzione nei licenziamenti collettivi: «È un capitolo come un altro, una pratica ricorrente fra le “scatole chiuse” [ndt.: boîtes, in questo caso in senso spregiativo] del CAC 40. Per sostenere il corso dell’azione bisogna far vedere che si ristruttura».

Ed è proprio in questa deriva che sta il pericolo per le democrazie, che vedono svilupparsi due tipi d’impiego portatori di germi autoritari. Il primo concerne la comunicazione-propaganda, praticata sia all’interno che fuori dall’azienda. Il secondo, da parte sua, dipende dal controllo e dalla sicurezza in seno all’impresa ma anche all’esterno. Contraria alle libertà pubbliche, la crescita di questi mestieri fa parte del medesimo diniego della realtà, basato sull’incapacità della maggior parte dei responsabili politici attuali di rimettere in discussione una massiccia credenza in un capitalismo fondamentalmente buono (i neoliberali) o alla fine buono (i social-democratici). Anche se il capitalismo finanziario è oggi concretamente e spettacolarmente toccato nel suo nucleo, quanti sono coloro ce si appellano devotamente (e in fondo penosamente) alla sua moralizzazione?

(1) Studi come McKinsey, Boston Consulting Group (BCG), Arthur D. Little come pure il defunto Andersen Consulting hanno contribuito a propagare gli strumenti (informatici, tabelle d’analisi strategica…) all’interno delle imprese.

* Isabelle Pivert, saggista, autrice di Soleil capitaliste. Entretiens au cœur des multinationales [Sole capitalista. Interviste nel cuore delle multinazionali], Editions du Sextant, Paris, 2006 e di Plan social. Entretien avec un licencieur [Piano sociale. Colloquio con un licenziatore], Editions du Sextant, 2004. questo articolo è argomentato con estratti da interviste con quadri dirigenti di multinazionali, con finanzieri e consulenti effettuate fra il 2003 e il 2008

 

 

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