Verso
la fine degli anni ’80 ha iniziato a imporsi il diktat
della creazione di valore per l’azionista, ovvero shareholder
value (inizialmente
shareholder
value creation).
Questo concetto non soltanto ha sconvolto l’organizzazione e il
funzionamento tradizionali delle imprese, ma anche la coesione
sociale della quasi totalità dei Paesi industrializzati. Proveniente
dai dipartimenti «Fusioni e acquisizioni» delle banche d’affari
anglosassoni, la shareholder
value
mirava inizialmente a determinare il guadagno per l’azionista
drivante da un’ operazione di fusione o di acquisto fra due
imprese. A poco a poco essa è diventata il criterio di valutazione
delle performance finanziarie dell’impresa, a detrimento di
qualsiasi logica economica e industriale.
Le imprese, fino ad
allora orientate a ingrandire, fondersi, fagocitarsi l’un l’altra
o scomparire nel nome dell’economia di scala e della corsa alla
grandezza critica, non lo furono ormai più se non al fine di fornire
una remunerazione massima ai loro azionisti. La quale, d’altra
parte, non dipendeva più unicamente da una distribuzione di
dividendi (generalmente calcolati a partire dall’utile), ma sempre
più dal rialzo del corso borsistico dell’azione della
società.
Con l’incremento della mondializzazione, grazie
allo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione, a una mobilità sempre maggiore dei capitali e a una
standardizzazione generalizzata dei sistemi informatici, gli studi
internazionali di consulenza strategica hanno fatto uscire la
shareholder
value
dalla sua culla originaria – la banca d’affari – per
propagarla, attraverso le direzioni generali, a tutti i livelli
decisionali delle società quotate in Borsa (1).
«Ormai
voi lavorate unicamente per l’azionista!».
Questo dirigente commerciale di una multinazionale dell’industria
farmaceutica si ricorda così della presentazione, fatta dai suoi
superiori a tutti i salariati riuniti per l’occasione, del concetto
di creazione di valore: «Questo
mi ha scioccato! Poi ci hanno spiegato che anche noi ne avremmo
approfittato perché, se si fosse arricchito l’azionista, si
sarebbero ricevuti premi, aumenti di paga…».
Da parte sua, Charles C., vice-presidente di uno degli studi di
consulenza che hanno contribuito a diffondere l’idea, ricorda:
«Desideravo
continuare a lavorare sul nesso fra strategia e nuova teoria
finanziaria, quello che all’epoca si denominava il valore azionario
dell’impresa. Si trattava di un approccio molto micro-economico e
finanziario alla strategia di un’impresa; conveniva scegliere le
strategie in funzione del loro potenziale di creazione di valore per
l’azionista».
A
partire dalla metà degli anni ’90 la shareholder
value
servirà come principio unificatore, se non addirittura
«razionalizzatore», perché ormai si applica a tutti i settori o
quasi. Un’impresa quotata in Borsa è tenuta a servire al meglio i
suoi azionisti con i rendimenti, vale a dire i ritorni
sull’investimento, che possono raggiungere – e talvolta superare
– il 15% all’anno. Nello spazio di un decennio il concetto è
diventato operativo e anzi centrale per le società iscritte alla
Borsa. «L’ingresso
di Valeo [accessori
per l’auto, francese] nell’indice
CAC 40 nel 1997-1998 ha creato un nuovo ritmo: ammonizioni sui
risultati
(profit warning), reporting, si
percepiva una tensione più elevata sui risultati trimestrali»,
ricorda Didier C., direttore di una società di subappalti in campo
automobilistico, acquistata nel 2005 da un gruppo giapponese.
Un
colabrodo con acqua dentro
L’obbligo
di servire gli interessi dell’azionista si trova allora codificato
nell’espressione corporate
governance,
il (buon) governo dell’impresa, il cui principio naturale e
implicito è quello di rispondere a una sola e medesima domanda,
prima di ogni decisione: questo creerà ricchezza per l’azionista?
Per Didier C. l’impresa quotata «è
tenuta a realizzare performance di borsa, ma l’innovazione, il cui
ritorno sull’investimento non si realizza che a medio o lungo
termine, è compromessa da questo approccio. Non ci si trova più per
nulla nella strategia industriale: l’impresa esiste per “sputare”
risultati al servizio degli istituti finanziari».
Perché, parallelamente, «in
vent’anni l’intermediazione finanziaria è esplosa».
I
quadri dirigenti, la cui remunerazione in stock-option
(che dipendono quindi dal corso borsistico dell’azione) ha
allineato gli interessi su quelli degli azionisti, non hanno altra
scelta se non di selezionare lo scenario che pensano sia più
suscettibile di fare salire, più in fretta e più in alto, il corso
in Borsa. Quell’attività [industriale] esistente, che si suppone
non generi «altro che» il 6%, il 7% o l’8% di ritorno sui
capitali investiti – e quindi a priori redditizia –, verrà
abbandonata o liquidata a favore di quella che genera un tasso
superiore al 10%, addirittura al 15%. Per prendere un esempio
dall’industria farmaceutica – nella quale i cicli di ricerca sono
molto lunghi – questa logica finanziaria ha come conseguenza, in
ogni decisione d’investimento riguardante la ricerca applicata
partendo da una nuova molecola, l’identificazione preventiva dei
clienti più promettenti. Fra la malaria, che colpisce milioni di
persone nei Paesi poveri, e l’obesità, che affligge i Paesi
ricchi, la scelta per la ricerca favorirà la seconda, considerata
più favorevole per l’evoluzione dei corsi in Borsa.
Secondo
Didier C. la necessità di generare profitti a breve termine, molto
più imperiosa di un tempo, crea un ritmo estremamente difficile per
le imprese. La globalizzazione e la delocalizzazione ne sono le
conseguenze. Per i produttori di accessori per l’auto l’obbligo
di essere sempre più redditizi a breve termine si traduce in una
riduzione del costo del lavoro. «Se
nel nostro settore mi si impone di aumentare i miei risultati del 10%
o del 15%, licenzio altro personale e ne assumo nelle mie fabbriche
in Cina o in India. Ma facendo questo io uccido l’impresa, perché
il mio
know-how è
ancora qui [in Francia] e occorre battersi per mantenervelo».
Per Gérard S., gestore di fondi pensione dopo essere stato analista
e poi consulente di strategia in una grande banca, «in
nove casi su dieci un’impresa che annuncia di trasferire il 10% dei
suoi centri di produzione dalla Francia verso l’Asia vedrà le sue
quotazioni di Borsa salire il giorno stesso».
Da
qui nasce la contraddizione, per non dire la perversità, della
creazione di valore: basandosi sul breve termine essa si oppone alla
nozione stessa d’impresa, la quale è una scommessa dinamica e
misurata sull’avvenire. Questa contraddizione è aggravata dalla
credenza, sapientemente alimentata, che la battaglia sul breve
termine va di pari passo con una concorrenza sfrenata e permanente.
«Bisogna
sentirsi in pericolo, adattarsi, investire»,
ritiene Jean-Marc P., investitore di capitali a proprio rischio. Da
parte sua, il consulente Charles C. rilascia questa sorprendente
confessione: «Io
lavoro alla disumanizzazione dell’organizzazione e del management,
nel senso di sopprimere tutto ciò che è interno all’uomo».
Quanto a Jean-Michel L., che si occupa di assunzioni, pensa che i
manager hanno snaturato in modo singolare un celebre pensiero
dell’economista John Maynard Keynes: «”A
lungo termine si è tutti morti”, quindi soltanto il quotidiano
conta».
Un’altra
delle alienazioni [mentali] provocate dalla creazione di valore è il
fatto che questa porta profitto innanzitutto ad azionisti che non
rassomigliano all’azionista tradizionale. Effettivamente la
società quotata in Borsa è soprattutto debitrice di investitori
tradizionali (fondi pensione, banche, assicurazioni) o di fondi
privati. Come lo spiega Didier C.: «Questa
intermediazione, nella quale l’azionista è un fondo che esso
stesso è il prodotto di migliaia di persone, crea uno schermo fra la
realtà economica di un’impresa e l’azionista di base. Non si è
più in un capitalismo di prossimità, nel quale la gente sa dove
mette i soldi; si è in un’intermediazione che crea attese, perché
questi fondi hanno anch’essi un prodotto da vendere. Si è lontani
dallo schema capitalista in cui un individuo che ha un’idea può
fare appello ad azionisti per mandare avanti un progetto».
Charles C. da parte sua assicura: «Non
vedo come si possa trattenere in Francia il valore quando questo è
creato altrove. È come un colabrodo con dell’acqua dentro».
Di
colpo, nelle società «ricche» il crollo degli impieghi fissi
genera nelle classi medie e popolari una permanente insicurezza
sociale ed economica. Secondo Aline T., analista finanziaria in una
società di Borsa, «è
l’organizzazione globale del sistema capitalista, attraverso la
Borsa, che crea la disoccupazione».
Questo vale anche quando la società non è quotata e una parte del
suo capitale è nelle mani di fondi d’investimento privati (private
equity).
«Questi
fondi acquistano grandi imprese allo scopo di rivenderle entro tre o
quattro anni,
avverte Gérard S. Il
loro fine è quello di realizzare plusvalenze le più alte possibili.
Bisogna fare “sputare sangue” all’impresa. Nel peggiore dei
casi, fermeranno la ricerca, annulleranno gli investimenti a lungo
termine, licenzieranno più gente possibile, per fare sì che i
profitti a breve termine siano i più grandi possibili e per poi
rivenderla».
L’obbligo
di creare valore ha portato quindi da parte degli azionisti e dei
quadri dirigenti dell’impresa – remunerati con stock-option
– alla presa del potere e del controllo sui salariati di base, ma
il processo è ben lungi dall’essere concluso. Di fronte alla
pressione dei primi, i secondi hanno sviluppato strategie individuali
di «sopravvivenza» che comprendono nuove pratiche di sottrazione di
materiale o di merci, di resistenza nel dare informazioni, di accordi
ufficiosi che vanno contro alla strategia del primo gruppo e alla
rimunerazione massima dell’azionista. In modo simmetrico e
preventivo la propaganda, l’omissione e la menzogna sono diventati
modi correnti di management operativo; si parla perfino di
«management mediante terrore».
Mestieri
portatori di germi autoritari
Quando
si nuota in un ambiente di concorrenza volontariamente esacerbata,
colui che non si integra abbastanza in fretta nella norma è escluso.
Secondo Didier C. «il
sindacato svolgeva, prima, un ruolo di intermediario fra i destini
individuali e la politica dell’impresa, ma ora si sente che, anche
se questo non è mai stato un criterio per tenere o licenziare le
persone, quelli che restano sono coloro le cui aspirazioni
individuali si avvicinano finalmente alle necessità dell’impresa,
senza il bisogno di qualsivoglia intermediazione».
Allo stesso tempo l’integrazione alla norma comporta adeguamenti
per anticipazione o per mimetismo, come sottolineano gli analisti
dell’agenzia di rating
Fitch: «Trasferire
la produzione in Paesi con bassi costi salariali non procura
necessariamente un vantaggio concorrenziale, ma è probabilmente una
nuova norma».
Storico per formazione, consulente dello Studio Syndex – che lavora
per i comitati d’impresa – Rémi Skoutelsky constata
un’evoluzione nei licenziamenti collettivi: «È
un capitolo come un altro, una pratica ricorrente fra le “scatole
chiuse” [ndt.:
boîtes,
in
questo caso in senso spregiativo] del
CAC 40. Per sostenere il corso dell’azione bisogna far vedere che
si ristruttura».
Ed
è proprio in questa deriva che sta il pericolo per le democrazie,
che vedono svilupparsi due tipi d’impiego portatori di germi
autoritari. Il primo concerne la comunicazione-propaganda, praticata
sia all’interno che fuori dall’azienda. Il secondo, da parte sua,
dipende dal controllo e dalla sicurezza in seno all’impresa ma
anche all’esterno. Contraria alle libertà pubbliche, la crescita
di questi mestieri fa parte del medesimo diniego della realtà,
basato sull’incapacità della maggior parte dei responsabili
politici attuali di rimettere in discussione una massiccia credenza
in un capitalismo fondamentalmente buono (i neoliberali) o alla fine
buono (i social-democratici). Anche se il capitalismo finanziario è
oggi concretamente e spettacolarmente toccato nel suo nucleo, quanti
sono coloro ce si appellano devotamente (e in fondo penosamente) alla
sua moralizzazione?
(1) Studi come McKinsey, Boston Consulting
Group (BCG), Arthur D. Little come pure il defunto Andersen
Consulting hanno contribuito a propagare gli strumenti (informatici,
tabelle d’analisi strategica…) all’interno delle imprese.
* Isabelle Pivert, saggista, autrice di Soleil capitaliste. Entretiens au cœur des multinationales [Sole capitalista. Interviste nel cuore delle multinazionali], Editions du Sextant, Paris, 2006 e di Plan social. Entretien avec un licencieur [Piano sociale. Colloquio con un licenziatore], Editions du Sextant, 2004. questo articolo è argomentato con estratti da interviste con quadri dirigenti di multinazionali, con finanzieri e consulenti effettuate fra il 2003 e il 2008