Riforma costituzionale affossata, Repubblica salvata. Il Pd impari la lezione

di Pancho Pardi - 29/06/2012
Con tutti i problemi economici e sociali che abbiamo di fronte la questione della riforma costituzionale rischia di apparire un trastullo da specialisti

E, in effetti, nel disinteresse generale dell’opinione pubblica se ne sono occupati solo loro. I costituzionalisti, salvo eccezioni ridotte a poche unità, hanno espresso severe critiche, tra cui spiccavano quelle di vari presidenti emeriti della Corte Costituzionale. Ma i partiti della maggioranza provvisoria hanno fatto finta di non sentirle.

Il recente voto di mercoledì al Senato ha ottenuto il probabile effetto di affossare il tentativo originario prodotto dalla cosiddetta intesa ABC, Alfano-Bersani-Casini. Se così avverrà ci sarà solo da essere contenti: riforma affossata, repubblica salvata.

Ma per arrivare a questa sintesi sbrigativa bisogna pur spiegare il cammino che l’ha prodotta.

C’è in origine un progetto di riforma costituzionale elaborato dalla maggioranza ABC che si può riassumere in quattro punti fondamentali.

Primo. Si propone una riduzione del numero dei parlamentari. E’ un trucco: i parlamentari non vogliono alcuna riduzione del loro numero, ma i partiti della maggioranza provvisoria la usano per rendere persuasiva di fronte ai cittadini la necessità della riforma costituzionale da loro adottata. L’argomento prevalente è: non si può modificare la legge elettorale se non si cambia in Costituzione il numero dei parlamentari. Non è affatto vero: si può cambiare la legge elettorale senza modificare il numero dei parlamentari. E la prova è proprio il Porcellum: legge elettorale cambiata e numero di parlamentari invariato.

Al contrario si può benissimo ridurre il numero dei parlamentari senza essere obbligati a modificare la Costituzione in diversi punti essenziali. Anzi a essere seri si potrebbe solo ridurre il numero dei parlamentari e subito dopo scrivere una legge elettorale meno ingiusta del Porcellum. Ma modificare la Costituzione è proprio ciò che la maggioranza provvisoria vuole. Vedremo subito che la modifica è una brutta storpiatura. Ma a loro piace. Piace in particolare al Pd, incurante del dissenso diffuso nelle proprie file.

Quindi si riduce il numero dei parlamentari ma nel modo meno incisivo possibile: circa un sesto del numero. Non è granché.

Secondo. Bisogna superare il bicameralismo perfetto, secondo cui una legge modificata da una Camera deve tornare all’altra, e se l’altra a sua volta introduce modifiche la legge deve fare un nuovo cammino a ritroso. Lasciamo da parte pregi e difetti del bicameralismo perfetto, discussione troppo lunga e tecnica. Il fatto è che la riforma ABC non lo supera affatto. Anzi lo complica e lo rende ancora più farraginoso.

Il cardine principale del bicameralismo è che entrambe le Camere sono elette a suffragio diretto e tenute a dare la fiducia al governo. Questa è l’origine della loro parità: entrambe hanno la stessa fonte di legittimità ed esprimono giudizio sull’attività di governo. Superare davvero il bicameralismo comporta togliere a una delle Camere l’elezione diretta e il rapporto fiduciario col governo; costituire una di esse (poniamo il Senato) con elezione indiretta (poniamo da parte dei Consigli Regionali) e fare di essa la Camera delle autonomie locali. La riforma ABC sceglie invece la via della distinzione di competenze: affari di Stato alla Camera, affari regionali al Senato. Strada già sperimentata con la famosa modifica del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione, che ha costretto la Corte Costituzionale al superlavoro per distinguere competenze spesso indistinguibili.

In termini più popolari: i senatori non vogliono essere declassati e anche se fanno finta di cedere resisteranno fino alla morte per mantenere il bicameralismo classico. Magari travestito, farraginoso e produttore di paralisi legislative.

Col terzo e quarto punto si entra nel vivo. Il punto di partenza l’ha espresso Berlusconi un sacco di volte: la Costituzione non dà a chi governa gli strumenti per farlo. Invece di rispondergli che era lui incapace di governare, anche con maggioranze truccate dal premio di maggioranza, il Pd tutto contento si accoda. Così al terzo punto abbiamo la corsia preferenziale per i disegni di legge del governo, che entro un breve periodo determinato le Camere devono approvare senza emendamenti. E’ il cosiddetto voto bloccato alla francese. Le Camere assistono da spettatrici impotenti all’attività legislativa saldamente ristretta nelle sole mani del governo.

Ma non basta. Non più il governo ma il solo presidente del consiglio riceve la fiducia delle Camere. Così la natura collegiale del governo va in soffitta. Poi il presidente del consiglio aggiunge alla facoltà di indicare la nomina dei ministri anche quella di chiederne la revoca. C’è qui per generale ammissione una riduzione delle prerogative del Presidente della Repubblica e anche delle Camere che non possono più esercitare la sfiducia nei confronti di un singolo ministro. Ma il punto d’arrivo finale è la facoltà del presidente del consiglio di chiedere lo scioglimento delle Camere. Con minime differenze tecniche è il premierato forte già sonoramente bocciato dal referendum popolare del giugno 2006 sulla riforma costituzionale del centrodestra di allora.

Incurante della bocciatura clamorosa, la maggioranza provvisoria ABC vuole imporre una riforma costituzionale che esautora le Camere e dà tutto il potere sostanziale al presidente del consiglio. La stessa sfiducia costruttiva (facoltà delle Camere di sfiduciare il presidente del consiglio a condizione di indicarne un sostituto entro ventuno giorni) si configura nella situazione italiana più come strumento di ricatto nelle mani del capo del governo contro le Camere che come mezzo in mano alle Camere per controllare l’esecutivo.

Fin qui la riforma ABC, che il Pd ha sostenuto a spada tratta contro tutte le critiche interne ed esterne. Di più: senza fare il minimo tentativo di coinvolgere i suoi elettori nella discussione.

E senza tenere conto dei precedenti: in particolare la fine ingloriosa della Bicamerale di D’Alema, quando l’accordo sul premierato forte già concluso con Berlusconi fu fatto saltare dall’arrivo inaspettato della Lega che, insieme a Berlusconi, fece prevalere il semipresidenzialismo alla francese: il presidente è eletto a suffragio diretto e universale e diventa perciò l’arbitro indiscusso di tutta la scena istituzionale e politica.

Ora è chiaro a tutti che un sistema impostato sul premierato forte, per quanto indigeribile sia per molti palati, è comunque alternativo alla supremazia del presidente della repubblica eletto direttamente. Eppure la farsa della Bicamerale si è ripetuta: il Pd ha concluso e sostenuto il premierato forte e ha dovuto assistere in aula al capovolgimento prodotto dalla riunificazione degli alleati appena separati (PdL e Lega) che hanno imposto uno sgangherato Senato federale con l’obbiettivo di sostituire la prossima settimana il premierato col presidenzialismo.

A questo punto qualsiasi riforma è inceppata. La proposta ABC, che poteva contare sulla maggioranza dei due terzi necessaria per evitare il referendum, è caduta. L’accoppiata Senato federale-presidenzialismo ha solo una maggioranza risicata che non raggiungerà mai i due terzi. Risultato: la riforma ABC è accoppata, l’altra nasce morta.

Alla fine, per quanto paradossale, il risultato è positivo. Si può sperare che il Pd abbia capito la lezione? Anche Napolitano, che aveva fortemente incoraggiato la riforma ABC, sembra aver ripiegato su obbiettivi più circoscritti: riduzione del numero dei parlamentari e nuova legge elettorale. Programma sostenuto da tempo da IdV e dal protagonismo civile, ma allora considerato dagli altri partiti troppo minimalista. Ora invece sembra perfino troppo arduo per essere raggiunto. E la maggioranza silenziosa dei parlamentari si rallegra in silenzio.

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