«Gli immigrati non vengono in
Italia solo a fare lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma
anche a difendere diritti che gli italiani non vogliono più
difendere». Roberto Saviano, autore trentenne del bestseller
mondiale Gomorra, simbolo della lotta alle mafie che il Sole 24 Ore
ha inserito nella classifica dell'uomo dell'anno per la battaglia di
legalità, non rinuncia a vedere negli incidenti di Rosarno un lato
positivo. L'altra faccia della luna. A mostrarla sono gli immigrati
che protestano contro le mafie oggi come a Villa Literno nel
settembre 1989, dopo l'omicidio del sudafricano Jerry Masso, e a
Castel Volturno nel settembre 2008 dopo l'uccisione di sei immigrati.
Saviano - che in questa intervista lancia l'allarme per il
rischio di nuovi attentati di 'ndrangheta e camorra dopo la bomba di
Reggio Calabria - non nega che le modalità della rivolta siano
criticabili, ma è convinto che «a ribellarsi è la parte sana della
comunità africana» che non accetta compromessi con la criminalità.
«Quello che colpisce - dice lo scrittore - è che gli immigrati
hanno un coraggio contro le mafie che gli italiani hanno perso. Per
loro il contrasto alle organizzazioni criminali è questione di vita
o di morte». Non vanno criminalizzati. «Piuttosto dovremmo
considerarli alleati nella battaglia all'illegalità».
Saviano
non vuole criminalizzare gli immigrati di Rosarno, che nelle regioni
a rischio mafia entrano nella rete della criminalità organizzata fin
dallo sbarco. «Mentre nel nord Italia la Lega ha continuato a
ostacolare l'immigrazione, la camorra si è lentamente impadronita
del monopolio dei documenti falsi: le leggi più severe
sull'immigrazione le hanno fruttato milioni di euro».
Saviano,
lei usò parole dure anche in occasione del massacro di Castel
Volturno, territorio che conosce bene.
Di Rosarno come di Castel Volturno si parla solo quando c'è una
rivolta. Anche questo mi colpisce: il silenzio favorisce le mafie e
si perdono occasioni di sviluppo. Castel Volturno ha il maggior
numero di abusi edilizi al mondo ed è il comune più africano
d'Italia.
C'è
una connessione fra le due cose?
Era una città abbandonata per via dell'abusivismo e nei palazzi
vuoti arrivarono gli africani. È diventata così la prima città
africana d'Italia. Anziché valorizzarla, l'abbiamo nascosta come
fosse una suburra.
Valorizzarla,
come?
Qualunque
paese europeo avrebbe fatto un vanto di avere una città tutta
africana e l'avrebbe messa sotto i riflettori mediatici. Avrebbe
fatto un sindaco immigrato, avrebbe portato lì le ambasciate dei
paesi africani, avrebbe organizzato un bel festival africano. Ne
avrebbe fatto una porta sul Mediterraneo. Invece, si è consegnata la
città in mano alla mafia nigeriana con il risultato di farne uno
snodo del traffico della droga. Una città dove la maggior parte
degli immigrati onesti vivono una vita d'inferno.
Cos'è
che i media non raccontano?
La
Calabria è, come la Campania, un territorio che vive una guerra
quotidiana. Se si vedono i dati, ci sono tantissimi attentati alle
associazioni antiracket o a consiglieri comunali, intimidazioni con
un colpo sparato alla porta o una molotov su una tomba. Magistrati
continuamente nel mirino come Raffaele Cantone o Nicola Gratteri. È
una guerra silenziosa che non trovi sui giornali.
Che
significa in questa guerra quotidiana la bomba alla procura di
Reggio?
È il
segno che la 'ndrangheta alza il livello dello scontro. È una bomba
artigianale, quindi un segnale di misura contenuta e simbolica
ancora, un messaggino. La famiglia Condello possiede bazooka ed
esplosivi C3 e C4, capaci di far saltare l'intero edificio della
procura.
È
credibile che l'attentato sia stato deciso da una riunione di tutti i
capiclan?
Mi
pare più probabile che l'abbia deciso una famiglia e abbia ottenuto
il silenzio-assenso delle altre. Certo è un segnale condiviso in
qualche misura da tutte le 'ndrine.
Un
segnale alla procura o a chi altro?
Alla procura, non c'è dubbio. Le grammatiche delle mafie sono
disciplinatissime. Se avessero voluto intimidire la direzione
antimafia, l'avrebbero messo alla loro sede.
Perché
ora?
Ci sono
due livelli di risposta. Il primo riguarda la procura di Reggio
Calabria. Il destinatario della bomba è il procuratore capo che è
arrivato un mese fa e ha già fatto scelte importanti. Penso ci
fossero correnti di magistrati, all'interno della procura, che le
cosche preferivano. Non necessariamente colluse. Forse, più
semplicemente, meno efficienti. Istruire le carte di un processo in
tre mesi o due anni può cambiare il destino di una famiglia, saltano
attività economiche, azioni criminose.
C'è
un livello di lettura più generale dell'attentato di Reggio
Calabria?
Molto
è cambiato con gli arresti nel casertano e le sentenze di condanna
in Calabria. Un anno e mezzo fa a Reggio è stato arrestato Pasquale
Condello detto "il supremo". Era il leader indiscusso, uomo
capace di mediazione, anche con la politica. Il suo arresto ha messo
in crisi assetti consolidati. Le mafie si aspettavano molto dai loro
referenti politici e non sono disposte a vedere che se la cavano. Il
problema non riguarda solo la Calabria.
Pensa
che l'episodio della bomba non resterà isolato?
Non
mi aspetto che sia finita qui. Chiedo molta attenzione al governo, ai
media. Il 15 gennaio dovrebbe chiudersi in Cassazione il processo
Spartacus contro i Casalesi. È il primo processo sull'intera
organizzazione camorristica che arriva al terzo grado. È il più
importante processo di mafia nella storia insieme al maxiprocesso di
Palermo. Se le condanne saranno confermate, l'organizzazione non
potrà non fare nulla, manderà segnali.
C'è
il rischio di una escalation.
Tanto
più se la cosa passerà sotto silenzio. Ricordo che questo processo
era durato dieci anni in primo grado e, dopo che sono stati accesi i
riflettori sui Casalesi, fino ad allora sconosciuti alla pubblica
opinione, il processo di appello è durato un anno e mezzo e ora il
terzo grado un anno.
C'è
un collegamento fra questi gruppi? Siamo abituati a ragionare che le
mafie sono sistemi isolati.
Le
mafie non sono monadi isolate. Casertani e calabresi sono in continua
connessione perché sono le mafie degli investimenti e delle regole.
Non come i napoletani, sregolati, e i siciliani, ormai vecchi. In
Romania stanno lavorando insieme, sui casinò investono insieme. Le
loro strutture seguono la globalizzazione con ritmi più veloci di
quanto riesca a fare lo Stato. Nelle loro strutture ci sono
domenicani, boliviani, tedeschi. Negli ultimi arresti fatti a Caserta
c'era un tunisino affiliato. La camorra è la prima mafia ad aver
aperto agli stranieri e fra dieci anni avremo capicamorra arabi e
slavi.
Il
cambiamento di clima confermerebbe quel che dice il ministro Maroni:
una risposta dello Stato c'è già stata. Che valutazione dà del
modello Caserta?
È
stato fatto un buon lavoro: arresti e molta pressione sulle
amministrazioni pubbliche, sul risparmio, sul ciclo dei rifiuti. Però
le mafie sono tutt'altro che sconfitte ed è un errore grave dirlo o
anche solo farlo pensare.
Qual
è la realtà della vita quotidiana?
Se cammini sulla Napoli-Caserta, anche stasera, continui a
vedere, proprio come dieci anni fa, i fuochi delle discariche abusive
che bruciano copertoni arrivati da tutta Italia. Non è vero che il
ciclo dei rifiuti è stato sconfitto. Ancora sono liberi, per altro,
Antonio Iovine e Michele Zagaria, latitanti da 13 anni, i capi,
uomini del cemento che investono a Roma e in Romania.
Siamo
in una fase di transizione?
C'è
una operatività dello Stato che viene riconosciuta dalle mafie ma
non ancora considerata fisiologica. Se lo Stato fosse unito e la
risposta compatta, le mafie capirebbero che qualunque azione
peggiorerebbe la loro situazione. Se alzano il tiro è perché sanno
che ancora possono parlare con qualcuno all'interno dell'apparato
statale. È un brutto clima, lo stesso che ha portato alla primavera
siciliana, quando fu ucciso Lima.
Il
sequestro di beni è strumento risolutivo?
Un
salto di qualità c'è stato anche lì. Però rinnovo l'invito a non
abbassare la guardia. Sequestrare la Lamborghini o la villa è
importante, ma non abbiamo ancora intaccato i patrimoni attivi delle
mafie. La cosa davvero importante è che non si mettano all'asta.
Chiedo a Maroni che intervenga su questo punto: i beni vengano
immediatamente riassegnati alle biblioteche, alle associazioni
antiracket, alle università.
Sul
piano repressivo che altro bisogna fare?
La
repressione non basta. Bisogna sconfiggere l'economia mafiosa,
passare al sequestro delle loro aziende. Ci vuole un segnale di
cambiamento anche a livello di leggi: lo scudo fiscale, il limite
alle intercettazioni, il patteggiamento per i reati di mafia non
vanno bene.
Qual
è l'obiettivo?
Deve
essere premiato il mondo delle imprese pulite, si deve permettere
all'imprenditore di guadagnare dalla prassi antimafia. Oggi per
l'imprenditore pulito essere contro le organizzazioni mafiose porta
solo svantaggi e danni.
Come?
Va bene quel
che ha cominciato a fare Confindustria Sicilia: cacciare dal mercato
chiunque partecipi all'economica mafiosa, prima ancora che per un
fatto morale, per una concorrenza sleale. Prendiamo gli appalti. Il
gioco del massimo ribasso fa vincere le mafie perché possono fare
costi più bassi: pagano meno la manodopera in nero, ammortizzano i
costi con altre entrate come la droga. Se non cambi le regole degli
appalti, vinceranno sempre.
Ance
propone di passare a un sistema di subappalti in cui l'appaltatore
scelga in un elenco di imprese pulite selezionate dalle Procure. Che
ne pensa?
Il
certificato antimafia è una garanzia di partenza ma non basta.
Bisogna togliere all'imprenditore pulito la possibilità di
utilizzare il vantaggio competitivo che arriva dall'economia mafiosa.
La proposta va in quella direzione.
Che
significa uscire dal sistema del massimo ribasso?
Se un'impresa investe per lo sviluppo del territorio, per esempio
con una scuola di formazione di carpentieri, va premiata. Di più:
bisogna premiare l'attività antimafiosa delle imprese. Nelle gare
d'appalto basta massimo ribasso, diamo un premio a chi si impegna in
un'attività antimafiosa: chi denuncia il pizzo o l'economia mafiosa.
Se vogliamo vincere questa guerra dobbiamo abbandonare il formalismo
di certe gare e la legge del massimo ribasso.
Che
altro si può fare per sconfiggere l'economia mafiosa?
Fare
quello che fa l'associazione Libera. Porta lì ragazzi di Torino, del
Friuli, romani o umbri a fare il lavoro con le bufale di Schiavone o
i filari di vite portati via a Reina. Combatte l'economia mafiosa e
occupa il territorio.
Vede
segnali positivi?
Cresce
il disgusto degli elettori per politici collusi di destra e sinistra.
Penso alla Campania dove il coordinatore Pdl è Nicola Cosentino che
dice di essere dalla mia parte, ma non lo è affatto. I processi
faranno il loro corso. A un politico, però, bisogna chiedere non
solo di essere lontano dagli affari criminali, ma anche di avere una
reputazione lontana dagli affari criminali. Il fatto che sul
territorio un politico sia considerato da tutti come interlocutore di
quel mondo è di per sé imbarazzante anche qualora non fosse
condannato. Aggiungo che anche le politiche del centro-sinistra degli
ultimi anni sono state politiche di connivenza. Spero che gli
elettori alle prossime regionali facciano pulizia dei collusi
mandando un segnale chiaro.
Intervista a Roberto Saviano