Se chiede il conto l'amico degli amici

di Daniela Gaudenzi - Liberacittadinanza - 30/06/2010

Berlusconi ha liquidato come “piccole cose” la bega Brancher, uno che in fondo era stato inquisito solo per reatucci come falso in bilancio e illecito finanziamento ai tempi di Tangentopoli e al momento deve solo rispondere di appropriazione indebita nel processo su Antonveneta. E non a caso si è tenuto cautamente in disparte riguardo a quelle più sostanziose che lo toccano ancora più da vicino come le reazioni tragicomiche alla sentenza che ha ridotto di due anni la condanna per concorso in associazione mafiosa all’amico più amico, nonché ora inoppugnabilmente amico degli amici fino al ’92.

Che poi abbia cessato per incanto di esserlo dal ’92 in poi, quando il gioco si faceva più duro e stringente, urta palesemente a prescindere dai riscontri probatori che forse la corte di appello ha cercato di non approfondire troppo, con la logica e le evidenze storiche, ma è superfluo precisare che verità storica e processuale non sono sempre, o quasi mai secondo alcuni, la stessa cosa.

Come fosse orientata la corte di appello di Palermo lo si era capito in modo abbastanza evidente da subito, quando ha ritenuto irrilevante e non pertinente la deposizione di Massimo Ciancimino, “contraddittorio” a priori, così come nella conduzione delle audizioni di Gaspare Spatuzza e più ancora di Filippo Graviano a cui, come ha rilevato Marco Travaglio, bastava appunto fare la madre di tutte le domande, che gli avrebbe fatto qualsiasi bambino un po’ sveglio, e cioè se facesse o avesse mai fatto parte di cosa nostra. Da mafioso quale è avrebbe ovviamente risposto di no e allora forse sarebbe stato anche più facile restituire i rispettivi ruoli a lui e a Spatuzza e prevenire anche l’assunto demenziale che poiché un mafioso tuttora affiliato a cosa nostra smentisce un pentito scomodissimo come Spatuzza, il collaboratore di giustizia che ha portato prove fondamentali e inoppugnabili su via D’Amelio quanto tira in ballo il duo Berlusconi- Dell’Utri mente.

Quanto alle biografie dei magistrati ricostruite da Il Fatto e comunque note a Palermo, la loro veridicità è stata involontariamente autenticata dai diretti interessati che hanno ritenuto incredibilmente opportuno, prima di ritirarsi in camera di consiglio, comunicare in udienza che non si sarebbero “fatti condizionare” da pressione mediatiche, riferendosi non alla campagna in corso da anni contro la magistratura inquirente di Palermo e al muro difensivo eretto a favore di Marcello Dell’Utri, ma alle notizie mai smentite sul loro curriculum professionale o sui rapporti di loro congiunti con potentati affaristico-mafiosi.

Marcello Dell’Utri, da perfetto Giano bifronte ha definito “pilatesca” la sentenza in quanto non l’ha con palmare evidenza mandato assolto, ma ha esultato per una condanna per “cose minime”, una decisione che secondo lui ha demolito l’impianto accusatorio e ha fatto piazza pulita dell’ombra della mafia su FI e sull’operato politico suo e del presidente del Consiglio.

Un’esultanza condivisa non solo dai Cicchitto, Verdini, Lupi e sottotono persino da un Bossi totalmente immemore degli anatemi contro “il mafioso di Arcore” ma anche dal maitre à penser Giuliano Ferrara che sentenzia “Il politico Dell’Utri non ha mafiato; cadute le calunnie politiche; Assolta FI” a cui fa eco Il Riformista dell’intrepido Antonio Polito che con sprezzo del ridicolo titola “Macello Dell’Utri” con intenti fustigatori ovviamente contro l’impianto accusatorio che sarebbe stato travolto dalla sentenza di appello.

Ma l’imputato non si è limitato alla soddisfazione, dal suo punto di vista e di relativa conoscenza diretta dei fatti ampiamente comprensibile, e non casualmente nel giorno della condanna a “soli” sette anni per un ventennio di rapporti continuativi e funzionali all’attività criminale di Cosa Nostra ha voluto ribadire la riconoscenza e la gratitudine imperitura per “l’eroe Mangano” che ha operato tanto bene ad Arcore, aggiungendo anche “non so se io, trovandomi al suo posto in carcere riuscirei a resistere senza fare nomi…”.

Non occorre essere degli acuti mafiologi per comprendere il senso duplice del messaggio rivolto a mafiosi di rango da anni in carcere sottoposti al regime ferreo del 41-bis e detentori di verità dirompenti che se dovessero parlare non racconterebbero fatti de relato ma molto de visu come per esempio Giuseppe Graviano, boss di primissimo piano che secondo Spatuzza era il diretto referente mafioso del duo Berlusconi-Dell’Utri ben oltre il 1992, dunque durante e dopo le stragi. Ma rivolto anche all’amico, al principale e dante causa politico che gli ha riservato uno scranno parlamentare intoccabile in Italia e in Europa non sufficiente però a garantirgli un’impunità duratura se la condanna venisse confermata in Cassazione molto prima del 2014, traguardo di una prescrizione che non sembra dietro l’angolo. Naturalmente il bibliofilo prestato alla politica per “legittima difesa” e totalmente disinteressato a praticarla concretamente se non per crearsi un argine protettivo dai complotti della magistratura, come ha candidamente affermato e ripetuto in più occasioni, ha respinto con sdegno l’ipotesi prescrizione e ha annunciato che la impugnerebbe e pretenderebbe di essere giudicato nel merito.

Comunque Berlusconi insolitamente silente e defilato è stato avvisato. E come se non bastassero i venti di tempesta all’interno del PDL e nell’elettorato leghista, ormai imbestialito per i rospi sempre più indigesti che gli vengono somministrati ogni giorno con crescente oscenità, deve ancora vedersela con il fantasma polimorfo del simul stabunt, simul cadent che questa volta ha il volto dell’amico di una vita, nonché per un ventennio almeno, pure amico degli amici.

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