Apriamo gli occhi sulle torce umane

di Annamaria Rivera - Il Manifesto - 25/09/2014
Catania. La città con Salvatore La Fata, edile licenziato e ambulante. Dopo il sit-in di solidarietà del circolo «Città Futura», oggi conferenza stampa della Cgil e venerdì 26 tutti in Piazza Risorgimento

Seb­bene Sal­va­tore La Fata, disoc­cu­pato cata­nese di 56 anni, non sia la prima tor­cia umana a bru­ciare in una piazza ita­liana, la sua vicenda è tra­gi­ca­mente esem­plare. A tal punto che, que­sta volta, anche sul ver­sante sin­da­cale v’è qual­che rea­zione ade­guata. Dopo il tem­pe­stivo sit-in di soli­da­rietà nei suoi con­fronti e di con­danna del com­por­ta­mento della poli­zia muni­ci­pale, pro­mosso dal cir­colo «Città Futura», pure la Cgil si è atti­vata. Ha, infatti, annun­ciato una conferenza-stampa per oggi,mercoledì 24 e una mani­fe­sta­zione uni­ta­ria, con le altre cen­trali sin­da­cali, per il pome­rig­gio di venerdì 26, nella stessa piazza Risor­gi­mento che è stata tea­tro dell’atroce protesta.

Ope­raio edile spe­cia­liz­zato, spesso par­te­cipe d’iniziative sin­da­cali, La Fata era stato licen­ziato due anni fa. Il can­tiere in cui lavo­rava era stato costretto a chiu­dere, come tanti: a Cata­nia, rife­ri­sce la Fil­lea, ben die­ci­mila edili hanno perso il lavoro negli anni recenti. Per un po’ Sal­va­tore (spo­sato, due figli a carico) aveva sop­por­tato umi­lia­zione e ver­go­gna. Poi, pur di non stare con le mani in mano, da alcuni mesi s’era messo a ven­dere qual­cosa in piazza Risor­gi­mento: nient’altro che due o tre cas­sette di olive e fichi d’india, appena venti euro di merce. Troppo per la squa­dra di vigili urbani, agguer­rita e ultra-motorizzata, che al mat­tino del 19 set­tem­bre fa irru­zione in piazza. In tempi di crisi e di dispe­ra­zione sociale è quel che ci vuole: non sia mai che le classi peri­co­lose si met­tano a far di testa loro per sbar­care il luna­rio, invece che sop­por­tare pazien­te­mente la morte civile, con­tri­buendo così al dise­gno deciso in alto loco. Fuor di sar­ca­smo, è da notare come, paral­lelo allo sfa­celo sociale pro­vo­cato dalle poli­ti­che di auste­rità, vada inten­si­fi­can­dosi un cru­dele acca­ni­mento repres­sivo con­tro atti­vità infor­mali di nes­sun rilievo penale, volte alla pura sopravvivenza.

Ma tor­niamo a quel mat­tino cata­nese. Sal­va­tore è lì, con le sue cas­sette, quando i vigili urbani minac­ciano di mul­tarlo e di seque­strar­gli la merce. Secondo dei testi­moni, lui li scon­giura di evi­tar­gli almeno il seque­stro. I vigili lo pren­dono in giro e, quando lui grida che è pronto a darsi fuoco, uno degli agenti replica che lo fac­cia pure, ma spo­stan­dosi un po’ più in là. Sta di fatto che nes­suno di loro inter­viene per tutto il tempo in cui va a rifor­nirsi di car­bu­rante, torna in piazza, si cosparge di ben­zina e si dà fuoco. E nep­pure men­tre è già avvolto dalle fiamme. Lo ammette impli­ci­ta­mente il coman­dante della Poli­zia muni­ci­pale, nel ten­ta­tivo di giu­sti­fi­care i suoi: «Se c’è stata qual­che incer­tezza da parte dei vigili, è per­ché siamo impre­pa­rati a que­sto tipo di soc­corso». Così che, men­tre scrivo, Sal­va­tore è in pro­gnosi riser­vata nell’ospedale di Aci­reale. I suoi fami­liari hanno annun­ciato che inten­dono que­re­lare i vigili urbani. «Non è pos­si­bile — ha detto il fra­tello nel corso del sit-in — che tutto passi sotto silen­zio solo per­ché noi siamo figli di nessuno».

È quasi pleo­na­stico osser­vare quanto que­sta sto­ria somi­gli a quella di Moham­med Boua­zizi, «la scin­tilla» della rivo­lu­zione tuni­sina. Quanto sia simile, anche, alla vicenda del gio­vane maroc­chino Nou­red­dine Adnane, morto il 19 feb­braio 2011, dopo nove giorni d’agonia dac­ché s’era dato fuoco in una piazza di Palermo: anch’egli ambu­lante, ma rego­lare, eppure vit­tima di ves­sa­zioni da parte d’una «squa­dretta» di vigili urbani in odore di neo­na­zi­smo. Peral­tro, lo schema di que­ste due sto­rie è del tutto sovrap­po­ni­bile a quello delle cen­ti­naia di casi che ho rac­colto nei paesi del Magh­reb, non­ché in Europa e in Israele.

Ad acco­mu­narne molti v’è uno stesso «det­ta­glio», cioè il com­por­ta­mento arro­gante, per­sino di sfida, delle forze dell’ordine: un’autentica isti­ga­zione al sui­ci­dio. E in tutti i casi il sui­ci­dio per fuoco è un grido dispe­rato di ribel­lione e pro­te­sta, un gesto sov­ver­sivo di sot­tra­zione vio­lenta del pro­prio corpo alla vio­lenza del sistema, per citare Bau­dril­lard. Desti­nato, delle volte, a cadere nel vuoto; altre volte, come in Magh­reb, a per­pe­tuare il ciclo rivolta-immolazione-rivolta; in un caso, quello tuni­sino, a sca­te­nare un’insurrezione popolare.

Da noi, c’è uno iato pro­fondo fra la dram­ma­ti­cità dell’autoimmolazione pub­blica — atto non solo dispe­rato, ma anche di spe­ranza nel genere umano, in fondo — e la nostra impo­tenza. Da noi, non c’è alcun sog­getto col­let­tivo che riven­di­chi come pro­prio «mar­tire» chi si è immo­lato o che sia capace di cogliere fino in fondo il nesso fra le pro­prie riven­di­ca­zioni e la dispe­ra­zione sociale che spinge alcuni a sui­ci­darsi in pub­blico. Eppure le torce umane e più in gene­rale i sui­cidi «eco­no­mici» sono indi­zio di un con­flitto sociale latente. Quello che la poli­tica, i sin­da­cati, per­fino i movi­menti non sem­pre sanno ren­dere espli­cito, né sem­pre orga­niz­zare in forme razio­nali ed effi­caci, tali da impe­dire che altri corpi umani ardano nelle piazze.

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