A chi serve?

di Francesco Baicchi - 22/05/2016

Per capire quale è la vera posta in gioco nel referendum di ottobre dovremmo per prima cosa chiederci a cosa e soprattutto a chi servono le modifiche al testo della nostra Costituzione, che sono diventate la scommessa su cui Matteo Renzi e i suoi dichiarano di giocare il loro futuro.

Ricordare che le ha richieste pubblicamente la J.P.Morgan, banca d’affari che porta gran parte della responsabilità della crisi economico-finanziaria mondiale, è un buon punto di partenza, ma non è certo sufficiente, anche se serve a chiarire lo scenario in cui si inserisce una vicenda che ha dimensioni ben più ampie dei nostri confini nazionali.

Da quando le modifiche in corso al nostro sistema istituzionale sono apparse nella loro reale ampiezza molti autorevoli interventi hanno sistematicamente ‘smontato’ le motivazioni presentate dai ‘riformatori’, o perché le modifiche alla Carta sono apparse non funzionali agli obiettivi con cui si tentava di giustificarle, o perché gli stessi obiettivi, se fossero stati veri, si sarebbero potuti realizzare più velocemente e semplicemente con altri mezzi.

Così è stato sin troppo facile dimostrare che il risparmio ottenibile con la trasformazione del Senato, stimato in una novantina di milioni (meno del costo di un F35 o del deficit annuale dell’ATAC), è assai inferiore a quello che sarebbe risultato dal dimezzamento del numero dei parlamentari (Camera e Senato), o ancor più semplicemente delle loro astronomiche indennità.

Anche l’accusa che il bicameralismo allungherebbe i tempi della approvazione delle leggi è oggettivamente smentita dalle stesse statistiche parlamentari, che dimostrano come le norme proposte dall’esecutivo e condivise da una reale maggioranza hanno un iter con tempi analoghi a quelli degli altri Paesi europei: il ‘lodo Alfano’ fu approvato in venti giorni e la sciagurata riforma Monti dell’articolo 81 della stessa Costituzione nei tempi minimi previsti. Il ‘rimpallo’ avviene quando entrano in gioco interessi inconfessabili o puramente ideologici (i diritti civili, ad esempio), sui quali prevalgono logiche ostruzionistiche.

Da un altro punto di vista non si capisce perché alcuni provvedimenti, se effettivamente condivisi dalla attuale maggioranza, non siano già stati realizzati: la definizione di tempi certi per l’esame delle Leggi di Iniziativa Popolare, ad esempio. Su questo la ‘riforma’ Verdini/Renzi rinvia ai regolamenti parlamentari, che avrebbero potuto essere facilmente modificati senza intervenire sulla Costituzione, anche perché su questo punto anche gran parte delle opposizioni sono d’accordo.

Ci sono poi ‘revisioni’ costituzionali che avrebbero potuto essere già approvate a larga maggioranza: l’abolizione del CNEL, per esempio, o la definizione come base di calcolo del quorum sui referendum abrogativi (art. 75 Cost.) del numero dei votanti per la Camera per scorporare l’astensionismo ‘fisiologico’ (magari senza aggravare enormemente il numero delle firme da raccogliere, e imponendo concretamente l’obbligo di rispettare l’esito del referendum). A questa categoria appartiene anche la differenziazione delle competenze fra le due Camere, a cui nessuno di oppone in linea di principio.

Il governo di voltagabbana voluto da Napolitano ha invece preferito abbinare revisioni condivise e possibili con un vero e proprio attacco alla sovranità popolare, legando la nuova legge elettorale a uno stravolgimento del sistema istituzionale che trasforma il nostro sistema rappresentativo parlamentare in un iper-presidenzialismo di investitura e cristallizza gruppi di potere della peggiore partitocrazia.

Che le argomentazioni a sostegno di questa deriva autoritaria siano ampiamente contestabili è poi confermato dall’impianto stesso della martellante propaganda renziana, che tenta di presentare come necessario e innovativo un intervento che punta al contrario a comprimere la sovranità popolare e a riportarci indietro a momenti storici che speravamo irripetibili.

La inutile complessità, al limite della incomprensibilità, di alcuni articoli (la pluralità degli iter legislativi, la difficoltà a definire la composizione del Senato) può addirittura far pensare al tentativo di rendere di fatto inapplicabili le nuove norme, con l’obiettivo di facilitare la tentazione della concentrazione del potere nelle mani di un ‘capo’ risolutore e decisionista. L’Italia si inserirebbe così nella pericolosa tendenza reazionaria che affligge altri Paesi europei, sollecitata dalla grande finanza internazionale e dalle lobby delle principali multinazionali nel tentativo di impedire la messa in discussione di un modello di sviluppo che appare ogni giorno di più insostenibile.

E’ questa la principale priorità del nostro Paese, che mal governato, in piena crisi economica e occupazionale, afflitto da un insostenibile dilagare della corruzione, della evasione fiscale, della criminalità organizzata, utilizza le scarse risorse disponibili per salvare le banche ‘amiche’ e per provvedimenti dal netto sapore propagandistico e elettorale?

Infine: come si può pensare a una Carta Costituzionale imposta da uno schieramento parlamentare rappresentativo di una ridotta minoranza dell’elettorato (il PD nel 2013 ha ottenuto circa il 25% dei voti validi, con un programma che nemmeno prevedeva di intervenire sul sistema istituzionale), promossa da una martellante propaganda resa possibile dalla occupazione dei media, che appare respinta almeno da una metà del Paese?

Le costituzioni per definizione devono essere condivise e frutto del confronto democratico e del consenso di una ampia maggioranza di cittadini, che in esse si riconoscono, altrimenti tradiscono la loro funzione di garanzia contro gli abusi del potere e costituiscono una imposizione intollerabile.

Per questo, per evitare le incognite e i pericoli di una fase di instabilità e di scontro sociale è indispensabile bloccare questa involuzione antidemocratica con un clamoroso NO nel referendum costituzionale di ottobre .

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