Economia spicciola (e approssimativa)

di Francesco Baicchi - 19/09/2014

Il sistema economico italiano ha alcune caratteristiche innegabili e note da tempo, che ci differenziano dagli altri Paesi industrialmente sviluppati. Ignorarle rischia di rendere inefficace qualunque tentativo di intervenire su di esso.

Per prima cosa la dimensione media delle nostre imprese è estremamente ridotta: 3,7 addetti. Le microimprese (con meno di 10 addetti) rappresentano il 95,1% delle imprese attive, il 47,2% degli addetti e il 31,4% del valore aggiunto realizzato (dati ISTAT riferiti al 2011). 

Non meno rilevante è la coerente incidenza delle imprese a conduzione familiare, o comunque gestite direttamente dalla famiglia del titolare. Recenti ricerche hanno inoltre confermato che la selezione del personale nella maggior parte delle nostre aziende avviene per segnalazione diretta, se non addirittura per rapporti familiari. Estremamente limitato il ricorso ad agenzie specializzate e quasi nulla la presenza dei Centri per l’Impiego pubblici. Questo spiega, fra l’altro, la scarsa importanza che viene attribuita alla della preparazione scolastica e alla formazione teorica in generale.

Le imprese di dimensione rilevante sono prevalentemente pubbliche, a partecipazione pubblica o di recente privatizzazione.

Le nuove imprese hanno una vita media inferiore ai tre anni, e, anche se sopravvivono, troppo alta è la percentuale di quelle che non arrivano alla seconda generazione; cessano cioè la loro attività con il ritiro del fondatore.

Rilevante la prevalenza nel settore manifatturiero delle imprese di sub-fornitura, che non producono cioè beni destinati al mercato di consumo, ma ad altre imprese che li incorporano in prodotti più complessi. Questa caratteristica è estremamente importante per più motivi: intanto l’azienda di subfornitura in genere non progetta i propri prodotti, e comunque è legata a precise prescrizioni del committente. Si può dire anzi che dipende in modo determinante dal committente, perché i suoi volumi di produzione sono condizionati dal successo del prodotto finale. Se i committenti sono pochi (caso molto frequente) la stessa sopravvivenza della subfornitrice dipende da quella del cliente. Inoltre alla impresa di sub-fornitura in genere manca il feed-back del mercato, essenziale per progettare nuovi prodotti.

Per il settore della subfornitura è ovviamente fondamentale, sul piano della competitività, il prezzo: se il committente fornisce la progettazione (e talvolta addirittura la materia prima), a parità di qualità il criterio di scelta del fornitore non può che essere legato al prezzo e, successivamente, a aspetti logistici (tempo di consegna, distanza fra le aziende, ecc…). Questo ingigantisce la rilevanza dei costi del processo produttivo e in particolare del costo del lavoro, anche perché gli altri fattori sono fortemente condizionati dalle dimensioni aziendali.

Le ridotte dimensioni aziendali influiscono ovviamente sia sul livello di capitalizzazione (scarso), che sulla struttura organizzativa, che troppo spesso non prevede specifiche funzioni come reti di vendita, logistica, comunicazione, ecc… Anche in presenza di un buon livello qualitativo la competitività risente della scarsa attenzione ai ‘fattori immateriali’ che pure possono essere determinanti per la scelta del cliente: reti di assistenza, puntualità, politica di ‘brand’, ecc ….

L’insieme di questi fattori disegna un quadro di precarietà che si traduce in una scarsa propensione all’investimento, in particolare nella ricerca e sviluppo di nuovi prodotti e/o processi produttivi, che è invece ormai essenziale condizione di competitività su un mercato mondiale in cui agiscono concorrenti che godono di un regime di costo del lavoro irraggiungibile, dovuto a condizioni sociali improponibili (speriamo) nel nostro Paese.

Ma i fattori che pesano negativamente sulla competitività del ‘sistema Italia’ sono anche altri: il costo del credito e il non-funzionamento di servizi essenziali, ad esempio.

Un elemento che non può e non deve essere taciuto è il ruolo svolto dal sistema creditizio, da sempre troppo sensibile al potere politico e delle grandi imprese e poco propenso al sostegno delle nuove iniziative, che spesso non è nemmeno in grado di valutare.

Tutti i governi che si sono succeduti dall’inizio della crisi hanno finto di ignorare la propensione verso investimenti speculativi delle banche, che hanno preferito investire in borsa o in titoli garantiti le loro disponibilità, togliendo ossigeno a aziende anche solo temporaneamente in difficoltà. Dei fondi messi a disposizione dalla BCE a tasso praticamente nullo ben poco è arrivato al mercato interno e alle aziende, comunque costrette a pagare pesantemente lo scarso credito concesso loro.

Sul piano dei servizi (se possiamo definirlo così) un ostacolo è costituito dalla lentezza della giustizia civile e dalla sottovalutazione delle conseguenze distorsive sul mercato di fenomeni come l’evasione fiscale e contributiva, l’alto numero dei fallimenti (con conseguenze irrisorie per il fallito), la scarsa tutela di marchi, modelli, ecc…

Per non parlare naturalmente degli extra-costi rappresentati in alcune grandi aree dalla presenza della criminalità organizzata.

In un quadro così drammatico una politica per il rilancio dell’economia e della occupazione non può ragionevolmente essere basata prevalentemente sulla compressione del costo del lavoro e dei diritti dei lavoratori, che rappresentano una parte minima dei fattori di competitività e hanno conseguenze negative sulla domanda interna di consumo. Lo dimostra il fatto che meglio di noi vanno anche nazioni con costo del lavoro superiore, ma che investono maggiormente e più efficacemente in ricerca, innovazione e formazione.

Il Paese ha bisogno di ben altro: per esempio di recuperare risorse da destinare a investimenti pubblici utili e ricerca con una lotta seria all’evasione, alla corruzione e alla criminalità, compresa quella dei ‘colletti bianchi’, cancellando la TAV, il MOSE e altri monumenti al mal governo. Ma anche di un diverso sistema di incentivi per le imprese nascenti, di credito a un costo tollerabile, di maggiore competenza imprenditoriale, di politiche che favoriscano la nascita di consorzi e la crescita dimensionale delle aziende, di un sistema efficiente di promozione all’estero delle PMI, di politiche serie per la valorizzazione del patrimonio e la salvaguardia dell’ambiente. Tutte cose che

i ‘gufi e parrucconi’ propongono da tempo, inascoltati dai nuovi ‘riformatori’.

Far credere che a tenere lontani gli investitori stranieri e a disincentivare le assunzioni siano i contratti nazionali di lavoro, o l’articolo 18, che rappresentano solo una difesa a tutela della dignità e della libertà dei lavoratori dall’arroganza di chi si sente ‘padrone’, è solo un modo per nascondere la propria incapacità di affrontare i problemi reali, o la propria connivenza con i veri responsabili della crisi. In questo il berlusconismo non è mai finito.

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