Ciao e grazie, Monsignor Hilarion Capucci

di Yousef Salman - linterferenza.info - 03/01/2017

Mentre tutto il mondo dava l’addio al 2016 e festeggiava l’arrivo del nuovo anno, arriva la notizia bomba inaspettata della scomparsa di una persona cara e preziosa per tutti noi:  la scomparsa del nostro Arcivescovo di Gerusalemme in esilio. Anche se era avanti con l’età, la notizia sconvolge tutti, palestinesi, arabi e gli amici della causa palestinese. Padre-uomo di culto e guida spirituale, amico caro di tanti anni e di tante battaglie, simbolo di una causa giusta sicuramente vittoriosa e non ha ancora vinto. Silenzio, sgomento, dolore, rabbia per la durezza e il tradimento di questo mondo. Tanti pensieri, tanti ricordi che ti passano in mente e in quell’ attimo. E’ morto Monsignor Hilarion Capucci, arcivescovo di Gerusalemme in esilio: un altro simbolo e pezzo della storia della Palestina.

E’ morto qui a Roma, capitale della sua seconda, terza…patria. Nato nella martoriata Aleppo (Siria) il 2/3/1922. Dal 1965 arcivescovo della chiesa greco cattolica a Gerusalemme fino al suo arresto da parte delle forze d’occupazione israeliane nel 18/8/1974, con l’accusa di trasporto di armi per i combattenti palestinesi di Al Fatah. Viene arrestato, torturato, processato e condannato a 12 anni di carcere. Il suo caso diventa un caso internazionale: il popolo palestinese in rivolta ovunque, manifestazioni di piazza in tutte le capitali del mondo, i governi si muovono e Israele è costretto a rilasciarlo dopo meno di 4 anni di carcere e consegnarlo al rappresentante dello Stato del Vaticano, del Papa Paolo VI e portarlo a Roma il 7/11/1977 con la condizione che non potrà più far ritorno nella sua amata Gerusalemme e in Palestina. Quei giorni lui affermava:”Io non sono una straordinaria leggenda, io sono un semplice uomo di questo grande popolo combattente, ho visto violare il bene, la ragione, il diritto e la giustizia, ho semplicemente gridato e rifiutato il male e l’ingiustizia. Io santifico la terra di Palestina e la sua Gerusalemme che dovrà rimanere araba per sempre”.

Soffriva il suo esilio forzato di Roma, ringraziava l’Italia, Presidente, governo e popolo per l’ospitalità, la generosità e la solidarietà, però il suo cuore e la sua mente, erano lì a Gerusalemme. Diceva sempre:”L’esilio è una grande sofferenza, è una tortura e solo Dio sa della mia sofferenza”. Lo chiamava il Presidente Yasser Arafat tutti i giorni e tutta la Direzione palestinese, le masse palestinesi ed arabe continuavano a manifestare per la sua libertà e il suo ritorno a casa, a Gerusalemme, in Palestina.

L’ho conosciuto sin dal suo arrivo, l’ho accompagnato nei suoi vari scioperi della fame che fece nella sede della Lega degli Stati Arabi a Roma, contro i vari massacri israeliani contro il popolo palestinese. Mi chiamava figliolo ed io in lui ho trovato un padre, un maestro spirituale e un esempio di vita. Lo portavo entusiasta dappertutto, lo volevo come protagonista in tutte le mie iniziative e lo portavo dove mi chiedevano la sua presenza; ci veniva volentieri e si sentiva vivo con noi e fra di noi, ultimamente qualcuno cercava di farmi ricordare e capire che ormai, era diventato anziano e non ce la faceva più. Non ha mai perso una commemorazione della scomparsa del suo “amico” Arafat, l’11/11 di ogni anno (dal 2004). Quando veniva a sapere di qualche anniversario o manifestazione dove non è stato invitato o informato, mi chiamava e mi chiedeva il motivo per averlo tradito e non averlo invitato, per lui eravamo una “boccata di vita e di ossigeno”. Per me la sua telefonata era musica per il mio orecchio.

Quando lo chiamavo, istantanea era la domanda:”Come stai Siidna (in dialetto palestinese, nostro nonno)?” rispondeva subito:”Cosa vuoi che ti rispondo figliolo, vedendo e sentendo le notizie provenienti dall’Iraq, dalla Siria, da Gaza, dallo Yemen, il mio morale è come il zeft (il catrame)…”. Il sogno che ha sempre avuto, era quello di poter tornare e vedere Gerusalemme, la sua chiesa, la sua gente prima di lasciare l’inferno di questo mondo e “tornare alla casa del padre”, come diceva. Rispondevo subito e con vera emozione, “Nostro Monsignore, sei ancora giovane e noi e la Palestina abbiamo proprio bisogno di te, specialmente dopo la scomparsa del vecchietto (Arafat), ricordati che dobbiamo fare il libro sulla tua vita, in italiano e dobbiamo continuare il lavoro”. Non osavo mai dire: non tradirmi.

Addio Monsignore, addio padre, maestro, simbolo, addio grande uomo di grandi ideali ed umanità. Ci mancherai, ma ti ricorderemo sempre per il tuo bel sorriso, il tuo ottimismo e il tuo spirito rivoluzionario. Sarai eterno nei nostri cuori e nelle nostre lotte per una Palestina libera, laica e democratica, patria libera e rispettosa per tutti i suoi concittadini e per un mondo diverso, più giusto e più civile.
Un giorno andrò a Gerusalemme e farò per te una lunga preghiera nel Santo Sepolcro e nella moschea di Al Aqsa, caro Siidna…

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