LE BANDIERE DELLA SOCIETÀ CIVILE

di Nadia Urbinati - La Repubblica - 08/07/2017
È in corso dal 4 dicembre un proliferare di movimenti a sinistra del Partito democratico, voci che emergono dalla società civile e aspirano a proporre visioni politiche. Singole personalità della cultura mosse dal senso civico di contribuire alla vita pubblica per rimediare alla debolezza dimostrata dalla leadership del Partito democratico. Sigle politiche nate per progressiva secessione dal Pd nel corso degli anni, a partire dalle primarie seguite al ritiro di Veltroni fino alle più recenti, e soprattutto dopo il 4 dicembre. Questo movimento plurale nella sfera pubblica è positivo, il segno di una società non apatica, ricca di potenzialità, insoddisfatta del corso attuale del partito di governo e del governo stesso e preoccupata del persistente e crescente astensionismo elettorale.
La questione sociale è grave e i timidissimi segnali di ripresa dell’ economia non sono accompagnati da un effettivo percepito miglioramento delle condizioni di milioni di cittadini e lavoratori che vivono o nell’ indigenza o vicini alla povertà. Diritti sociali che sono in molti casi diritti solo formali, e politiche governative che non hanno preso sul serio né i principi di giustizia ed eguaglianza contenuti nella Costituzione né le promesse democratiche, che non si riducono a mettere in piedi governi che durino.
«Finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garantita a tutti la libertà; finché non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizzeremo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia», diceva Lelio Basso all’ Assemblea costituente il 6 marzo 1947. Dopo settant’anni quegli intenti sono ancora allo stato di desiderio, con l’ aggravante che oggi è debole la convinzione che lavoro e cittadinanza debbano stare insieme, che siano i valori fondamentali su cui impegnarsi. C’ è uno spazio vuoto di progettualità politica da riempire perché l’ insoddisfazione non si traduca in disillusione e senso di impotenza o, che è anche peggio, reazione xenofoba e nazionalistica.
A tanta potenzialità desiderata, espressa o in formazione corrisponde una straordinaria povertà di politica pragmaticamente propositiva. Povertà per troppa ricchezza di attori individuali e, soprattutto, per l’ abitudine ad un linguaggio che è emotivo e morale, incapace di farsi politico, di nominare problemi invece che leader, idee programmatiche invece che frasi a effetto, critiche motivate sulle cose invece che attacchi personali. La “vibrante società civile”, per usare un’ espressione habermasiana, dovrebbe riuscire a incanalarsi nella deliberazione politica; e perché questo avvenga sono indispensabili forme di partecipazione che sappiano articolare e unire. A questo servono i partiti. La loro asfissia, anzi la loro scomparsa fuori dalle istituzioni e la loro sostituzione con manifestazioni personali di leadership: questo è uno dei maggiori problemi del presente (che non sia solo italiano non è di alcun sollievo).
Il 4 dicembre ha squadernato questo problema, che è colossale, e ha messo a nudo la miopia di una politica leaderistica e plebiscitaria. Ma quel che ha lasciato è una pratica personalistica tracimante. Cosicché oggi il problema non deriva dalla scarsità dell’offerta individuale, ma dalla sua sovrabbondanza. Ogni voce si presenta come vera rappresentante della sinistra, come la parola che manca o quella più autentica. Alla fine, la sinistra sembra sempre più una categoria metafisica indecifrabile alla quale ci si appiglia per coprire un disordine di elaborazione che è proporzionale al numero dei candidati a risolverlo.
I partiti politici hanno una funzione che in questi tempi di attivismo senza bussola emerge con chiarezza: rendere le varie personalità che la vita politica naturalmente genera capaci di collaborare, di dialogare, di trovare nella loro rappresentatività singolare una forza che arricchisca progetti collettivi. Senza questa cooperazione per uno scopo elettorale comune, la pluralità di leader è un problema. Ed è quanto rischia di accadere a questa sinistra fatta di tanti soggetti individuali ma con una gracilissima coralità. Una sinistra di tanti capitani di ventura, con eserciti transitanti e, anche questi, composti di menti singole, abituate a dichiarare e asserire sui social, ma troppo poco a deliberare o discutere con altri. E invece, ad ogni idea una persona, ad ogni persona una sinistra, e a ogni sinistra un leader. Questa proliferazione per partenogenesi di indivualismo dissociativo uccide la politica.
Senza dialogo, senza una trama comune di idee, senza una riflessione competente su progetti possibili, senza riannodare tradizioni di valori e di studio – senza l’ accettazione del fatto che la politica nella democrazia elettorale deve costruire soggetti collettivi per competere e non può corrispondere soltanto a capi plebiscitari – senza tutto questo la vibrante società civile resta tale. E la profusione di bandiere nuove che sventolano, di siti internet e di sigle è destinata a restare una selva che non ha unità di senso, che non orienta ma disorienta.
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