Musei: va in scena una politica cultura da avanspettacolo

di PubblicaMente Musei Bologna, lavoratori autorganizzati dell’Istituzione Bologna Musei - Il Manifesto Bologna - 15/05/2015
Articolo, pubblicato sul blog del manifesto bologna, sulla situazione dei musei a Bologna che può rappresentare una chiave d'interpretazione molto interessante ed attuale per ciò che si va prefigurando nelle politiche degli enti locali verso i beni culturali e non solo

Una politica culturale da avanspettacolo, in cerca di soubrette capaci di improvvisare, sull’illustre palcoscenico dei musei comunali, molteplici numeri d’arte varia per attrarre improbabili investitori e rivestire di lustrini l’impianto agonizzante dell’Istituzione Musei. Tutto con il sottofondo martellante e monotono dell’usurato motto “bambole, non c’è una lira”.

È questa la trama, sottesa da tempo alla politica culturale di Bologna, che governa anche il “concorso” (più propriamente un avviso di selezione) per trovare il prossimo direttore o direttrice dell’Istituzione: un capro espiatorio annunciato, per un’amministrazione che ha da tempo abdicato alle sue responsabilità civiche. Ai sei coraggiosi candidati e candidate che si sono presentati al colloquio non è stata somministrata una sola domanda che riguardasse una visione della cultura.

Tutti i quesiti, pur fantasiosamente declinati, riguardavano due soli aspetti: la conoscenza delle cervellotiche regole che guidano la pubblica amministrazione locale, da un lato, e le più diverse strategie per trovare soldi interagendo astutamente con il “privato”, dall’altro. Niente sulle attività proprie dei musei, finalizzate in primo luogo alla tutela e alla valorizzazione dell’immenso e preziosissimo patrimonio che questa città possiede. E con città ci si riferisce, sia chiaro, ai cittadini e alle cittadine tutti, purtroppo scarsamente consapevoli di quanto la Giunta municipale tenga in poco conto le loro proprietà.

Basta dare un’occhiata al bilancio di previsione 2015 per capire che i 920.000 euro che il Comune destina all’Istituzione per la gestione di 14 sedi sono talmente irrisori da non permettere di garantirne neppure una ridotta apertura. Si dirà che il Comune paga a parte il personale (105 persone a tempo indeterminato, e a alcuni potrebbero sembrare tante) e le utenze, e che perciò la liquidità su cui possono contare i musei, in definitiva, non è poi una sciocchezza.

Sarebbe vero se il trasferimento del Comune fosse effettivamente destinato alle attività, ma la realtà è diversa. Con tutti quei soldi l’Istituzione riesce a coprire solo in parte, alla voce “servizi”, il personale esternalizzato: lavoratori e lavoratrici meno tutelati degli altri, ma altrettanto necessari. Tenere aperte 14 sedi significa infatti anche avere un numero di addetti adeguato per la sorveglianza. E questo è solo uno dei problemi che il nuovo direttore o la nuova direttrice si troverà ad affrontare. Perché se buona parte delle spese vive dovranno essere reperite con le vendite di biglietti e cataloghi, con le locazioni e concessioni di spazi e, soprattutto, con la caccia a sponsor recalcitranti, si dovrà trovare il modo di rendere i musei molto appetibili.

Ma con quali soldi per finanziare l’attività? Allo sventurato direttore, o direttrice, dovrebbero tremare i polsi, visto che dalle Fondazioni Bancarie, peraltro impegnate a finanziare i propri musei e le proprie mostre, giungono cifre sempre più modeste, per non dire sempre più vicine al nulla. Niente di accertabile sul versante delle sponsorizzazioni e ancora meno su quello dell’Art Bonus. La previsione di spesa, però, è di oltre 2.650.000 euro. La cifra risolutiva per coprire i costi quindi, è attesa da incassi non preventivabili e ovviamente subordinati al grado di fascinazione che eserciteranno sul pubblico le attività dei musei.

D’obbligo allora puntare su un ricco repertorio di attività didattiche e laboratoriali a pagamento, inclusi i redditizi centri estivi, che rappresentano un costo ridotto a fronte di entrate certe, accompagnati come sono, fortunatamente, da una lunga tradizione e una meritata buona fama. Ma se già le famiglie faticano a pagare per avere la carta igienica a scuola, figuriamoci quali investimenti potranno fare prossimamente per le visite e le vacanze ai musei. Anche a essere molto ottimisti, comunque, visto che questi proventi servono quasi interamente a pagare i costi materiali e gli operatori forniti da un’impresa esterna, tutto si risolve in una sorta di partita di giro che rimpingua di poco le casse dei musei, anche se raggiunge lo scopo pragmatico di assicurare un buon numero di visitatori e quello nobile di allargarne le conoscenze.

Quello che viene pagato con i trasferimenti comunali è quindi solo una parte del moltissimo lavoro necessario per far vivere i musei, quello che lo stato da anni si rifiuta di versare sotto forma di regolare stipendio a dipendenti regolarmente assunti. Come è risaputo, l’acclamata chimera del taglio dei costi del pubblico impiego non ha ovviamente ridotto il lavoro necessario, ma ha generato solo forme sempre più vergognose di sfruttamento nelle cooperative e nelle imprese appaltatrici.

Nonostante tutto questo, potrà il direttore, o la direttrice, dormire tranquillo, una volta che si sarà assicurato incassi per circa quel milione e mezzo abbondante di euro che, come minimo, servono per mantenere la routine? Probabilmente no, perché il combinato disposto del regolamento e del piano strategico metropolitano prevede che in futuro l’Istituzione si faccia carico anche dell’acrobatica gestione dei musei di tutta la città metropolitana (cioè tutta l’ex provincia). Sappiamo che il sistema museale metropolitano dovrebbe consistere, in teoria, nello “sviluppo di una rete sinergica”, che realizzi altre economie di scala incrementando (sic) i servizi al pubblico e presidiando la tutela del patrimonio, evitando ulteriori costi a carico della pubblica amministrazione attraverso la promozione, si badi bene, della “partecipazione volontaria delle comunità e della cittadinanza attiva, in forma individuale e associata, nella tutela come nella valorizzazione dei beni culturali, e la produzione di nuovi contenuti culturali collettivi (web 2.0).”

Per gestire tutto questo si ammetterà che un organico che conta non più di otto dipendenti nell’area amministrativa diventa davvero insufficiente. A dire il vero sarebbe molto esiguo anche il contingente degli addetti culturali, tenendo conto che l’età media di tutti i dipendenti inizia a essere piuttosto avanzata. Nessuna assunzione in vista, nessun passaggio di consegne: un know-how maturato in decenni di dedizione professionale e di standard museali altissimi destinato a disperdersi. Cosa che sembra non preoccupare nessuno, visto che in questo paese, nel più sconsolante silenzio, si lasciano estinguere perfino eccellenze assolute come l’Opificio delle Pietre Dure e si mandano in soffitta le Soprintendenze.

Nessuna possibilità, probabilmente, di pagare altro personale esterno o esternalizzato per provvedere a queste incombenze. Rallegriamoci, tuttavia, perché questo complesso di sofisticate conoscenze, a quanto pare, può comunque essere assicurato da dilettanti volonterosi e senza alcuna aspirazione a un reddito…

In questa dimensione non esiste, sia chiaro, uno straccio di modello funzionante a cui potersi ispirare. Sembra dunque plausibile che queste ambizioni siano, volutamente o meno, predestinate a un fallimento propedeutico alla cessione completa delle attività al privato, per la quale, del resto, è già pronto da tempo un disegno di legge della Fondazione Magna Carta presieduta da Gaetano Quagliariello, molto sponsorizzata dalla Presidente della Fondazione Torino Musei Patrizia Asproni, presidente anche di Confcultura e presente in diverse altre articolazioni di Confindustria, nonché membro del comitato tecnico dell’Expo e responsabile marketing della Repubblica – Gruppo L’Espresso. Sarà dietrologia, ma nell’attuale vuoto politico e amministrativo, questi sembrano essere i riferimenti più vicini e concreti: un modello di progressiva espropriazione dei cittadini dei loro diritti e dei loro averi, già ampiamente avvenuto, del resto, nel campo dell’istruzione, della salute, dell’assistenza e dei beni comuni.

C’è davvero da chiedersi non solo quale ruolo abbia il “pubblico” nello sviluppo della Nazione, visto l’inarrestabile smantellamento delle istituzioni e dei servizi, ma anche in quale accezione dovremmo intendere il termine stesso di Nazione: l’intera cittadinanza o, molto più restrittivamente, le imprese? Quale destino, dunque, attende quei dipendenti, funzionari e dirigenti pubblici intenzionati a rispettare gli Artt. 9 e 98 della Costituzione, secondo cui la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione, al servizio esclusivo della quale i pubblici impiegati sarebbero obbligati?

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