Englaro, la politica continua a insultare

di Tommaso Cerno - Espresso - 11/02/2014
Il Parlamento che non decide. Le risse in aula. E i rinvii. Beppino Englaro li visse sulla propria pelle.
 E aspetta ancora 
una legge. Dalla morte della figlia Eluana. Era il febbraio 2009

Eluana? La sua vicenda sia un monito per il Parlamento ad affrontare i problemi dell’Italia nel concreto. Con soluzioni chiare, senza risse e insulti». Beppino Englaro sta salendo a Paluzza, nel paesello arrampicato sulle alpi friulane dov’è sepolta sua figlia. Il 9 febbraio saranno cinque anni dalla morte, dopo 17 anni in stato vegetativo. Senza che la politica abbia ancora fatto una legge sul biotestamento. Toccò alla magistratura, dopo l’appello di quel padre, mettere una pezza dove il Palazzo non aveva saputo decidere. Ci vollero 5.750 giorni. Una metafora di questi tempi. Con il Parlamento che discute all’infinito e gli insulti che riempiono le aule. Ne sa qualcosa papà Beppino, che se li prese addosso. Gaetano Quagliariello, oggi ministro, gridò “assassino” dai banchi del Senato, «ma io non lo denunciai», racconta Englaro a “l’Espresso”. «Provai pena, ma il giudice è la gente e sa da sola cosa pensare».

Eluana morì il 9 febbraio 2009. Come ha trascorso questi cinque anni senza sua figlia?
«Non sono cinque, sono ventidue. Eluana non c’era più dal 18 gennaio 1992. Sono stati diciassette anni infernali, umanamente devastanti fino alla sua morte. Gli ultimi cinque anni, invece, sono stati alla ricerca di un nuovo, possibile rientro nella vita dopo quella lacerante vicenda».

Ha un ricordo particolare di sua figlia?
«La sua folgorante, umana radiosità. Doti di natura. Non c’è stata persona che avesse a che fare con Eluana che non si chiedesse “ma lo saprà Eluana di essere così eccezionale?».

Lei ha chiesto che il 9 febbraio sia la giornata del silenzio. Perché?
«Dopo il clamore, credo che a Eluana sia dovuto il silenzio. Un clamore che non avrebbe dovuto esserci, perché era un clamore degli altri che entravano nella vita di una persona. Una persona che non aveva chiesto nessun parere o intervento, né lo avrebbe accettato».

Lei, nel resto dell’anno, parla: con i ragazzi delle scuole, con le persone che la invitano, con le associazioni da Nord a Sud. Perché?
«Per la consapevolezza libera e aperta del sapere, perché quello che non si può escludere è di andare incontro a certe situazioni, di cui ci si rende coscienti approfondendo la vicenda di Eluana. Lo sento dentro di me, è il primato della coscienza personale. Pulitzer ha detto: “Un’opinione pubblica bene informata è come una corte suprema”. Lei non ha un’idea della gratitudine delle persone dopo ognuno di quegli incontri. Mi commuovono. Con il cuore in mano mi dicono: “Grazie, Beppino, vai avanti! Non smettere, mi raccomando!”».

La battaglia per poter portare a termine la volontà di Eluana durò più di 17 anni perché la politica latitava. Discusse molto, ma non fece nulla.
«La magistratura invece ha risposto alla domanda di giustizia di Eluana, cui la politica non aveva dato risposte. Non poteva non farlo, come ha spiegato la sentenza della Cassazione. La magistratura vicariava le funzioni che sarebbero dovute spettare alla politica, cui mi ero rivolto già dal 14 giugno 2000. Prima non fece nulla e poi, quando legiferò, lo fece senza rispettare Costituzione e Convenzione di Oviedo. Così la sentenza del 16 ottobre 2007 affermò ciò che per la nostra famiglia era ovvio già dal gennaio 1992: l’autodeterminazione terapeutica non può incontrare un limite anche se ne consegue la morte, e nulla ha a che vedere con l’eutanasia. Poi, ancora più importante, nessuno può decidere né al posto, né per te. Ma deve decidere con te».

Ricorderà gli insulti al Senato. Quagliariello, che oggi è ministro ed è stato nominato fra i saggi scelti dal Quirinale, le gridò assassino. Cosa pensò?
«Mi fece tanta pena e disgusto. Così come gli altri che insultavano. Mi fecero pena perché erano fuori da questa vicenda e ci volevano entrare. E disgusto per il linguaggio che appestava il clima, in una sede istituzionale, che dovrebbe rappresentare i cittadini. In quel caso specifico, poi, la cittadina Eluana Englaro cui io davo solo voce».

Lei ha vissuto sulla sua pelle questo clima. Cosa pensa di quello che vede oggi: offese, risse, scontri. Siamo un Paese eversivo, come dice la presidente Boldrini?
«Siamo più semplicemente un Paese che non sa affrontare i problemi per quello che sono. Io so bene che ho toccato un tema sensibilissimo e lacerante, ma l’ho affrontato per quello che era, concretamente. Questo devono imparare le persone, specialmente se siedono in Parlamento. Devono definire soluzioni, non continuare con le parole. Di questo hanno bisogno gli italiani e questo chiedono alla loro classe dirigente».

Lei si è sempre definito un “semplice cittadino” durante la sua lunga battaglia. Oggi sono i Cinque stelle di Beppe Grillo che si definiscono così. Che ne pensa, abusano del termine?
«Nel mio caso la cittadina era Eluana Englaro. Una cittadina che ha posto alle istituzioni un problema altamente drammatico, in modo diretto. Senza i sotterfugi del nostro costume italico. Per mia voce ha chiesto l’avallo della legge. Io mi sono mosso sempre e solo dentro le regole, e dentro la società, perché credo che l’unica libertà sia dentro la società. Non è un abuso, quindi, usare il termine cittadino se chi lo utilizza affronta le questioni con questo spirito. Dando risposte concrete ai problemi e non avvitandosi nelle polemiche e nello scontro politico. Questo ci si dovrebbe attendere da un Parlamento che si rispetti».

Alcuni deputati hanno querelato altri per le offese ricevute. Lei denunciò chi la insultò?
«No».

Perché non lo fece?
«Perché credo che gli italiani siano gli unici giudici cui spetta valutare tutto questo. Chi ascolta i parlamentari dire certe frasi giudica da sé. Molti ancora oggi mi chiedono: “Come hai fatto a sopportare?” E io rispondo: “Perché denunciare chi mi fa solo pena e disgusto?”».

Al Quirinale, il presidente Napolitano la volle abbracciare, poche settimane dopo la morte di Eluana. Crede che a distanza di cinque anni servirebbe un appello alle Camere anche sui temi etici?
«Le Camere devono imparare ad affrontare le questioni centrali per la vita dei cittadini, senza rinvii, e dovrebbero farlo anche senza appelli. Qualsiasi Parlamento potrebbe essere in grado di farlo, se ci fosse questa mentalità semplice».

Ricordare Eluana può essere un monito?
«Oggi l’esempio di Eluana è calzante e potrebbe essere non solo un ricordo, ma uno stimolo importante perché la politica cominci a occuparsi del merito dei problemi. Con soluzioni in tempi brevi, chiare e applicabili. In tutti i campi dove si scorgono emergenze, urgenze e ritardi. La vicenda di Eluana è stata tutta all’insegna della semplicità. Non serve essere costituzionalisti per capire che la libertà di dire no alle terapie c’è. Eppure l’abbiamo trovato scritto in una sentenza solo molti anni dopo. Mandela, più di 27 anni in galera per rivendicare la parità tra bianchi e neri, Eluana, 17 anni e 22 giorni. Ogni cambiamento culturale ha bisogno di tempo».

Cos’è cambiato dopo la morte di Eluana?
«Oggi un cittadino può non lasciarsi più intrappolare. Superata l’urgenza dello stato di necessità, ogni persona ha il diritto di dire no alle terapie e lasciare che la morte accada. Dal randagio che abbaiava alla luna, direi che i passi culturali in avanti sono stati enormi. Basta vedere nei Comuni, la richiesta spasmodica delle persone di poter presentare il testamento biologico: la gente vuole avere la possibilità di esercitare le proprie libertà e diritti fondamentali».

Il suo biotestamento in Italia ha valore anche in assenza di una legge ad hoc?
«Certo. Il mio approfondimento ha più di ventidue anni. Voglio vedere, di fronte al mio biotestamento, che è una semplificazione giornalistica di quelle che si chiamano “disposizioni anticipate di trattamento”, quale medico o magistrato possa dire “no”. E costringermi a riprendere il discorso dal 1992, come fu per mia figlia. I medici, adesso, si trovano di fronte un cittadino che sa di poter dialogare ed esprimere delle disposizioni. Lasciate che la morte accada, se non si possono escludere sbocchi di vita senza limiti. Leonardo Sciascia scrisse: “In certe situazioni, non è la speranza l’ultima a morire, ma è il morire l’ultima speranza”. È la vittoria dei principi di libertà e della non discriminazione. Chiedere di essere lasciati morire non nasce dall’amore per la morte, ma dall’amore per la vita».

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