Grecia, il colpo di Stato silenzioso

di Stelios Kouloglou - Le Monde Diplomatique - Traduzione dal francese di José F. Padova - 21/06/2015
Una settimana dopo l’altra il nodo scorsoio delle negoziazioni strangola progressivamente il governo greco. Alcuni alti dirigenti europei hanno d’altronde spiegato al «Financial Times» che nessun accordo sarebbe possibile con il primo ministro Alexis Tsipras «prima che egli si sia sbarazzato dell’ala sinistra del suo governo». L’Europa, che predica la solidarietà, la consentirebbe soltanto ai conservatori?

Ad Atene «tutto cambia e tutto resta uguale», come dice una canzone tradizionale greca. Quattro mesi dopo la vittoria elettorale di Syriza i due partiti che hanno governato il Paese dalla caduta della dittatura in poi, il Movimento socialista panellenico (Pasok) e la Nuova Democrazia (destra) sono totalmente screditati. Il primo governò di sinistra radicale nella storia del Paese dopo il «governo delle montagne» (1), al tempo dell’occupazione tedesca, gode di grande popolarità (2). Anche se nessuno pronuncia più il nome della «troika», detestata perché responsabile del disastro economico attuale, le tre istituzioni – Commissione europea, Banca Centrale Europea (BCE) e Fondo Monetario Internazionale (FMI) – continuano con la medesima politica. Minacce, ricatti, ultimatum: un’altra «troika» impone al governo del nuovo primo ministro Alexis Tsipras l’austerità che i suoi predecessori applicavano docilmente.

 

Con una produzione di ricchezza amputata di un quarto dal 2010 e un tasso di disoccupazione del 27% (più del 50% per chi ha meno di 25 anni), la Grecia patisce una crisi sociale e umanitaria che non ha precedenti. Eppure, nonostante il risultato delle elezioni del gennaio 2015, che hanno attribuito a Tsipras un chiaro mandato per farla finita con l’austerità, l’Unione Europea continua a rivestire il Paese del ruolo di cattivo scolaro punito dai severi maestri di scuola di Bruxelles. L’obiettivo? Scoraggiare gli elettori «sognatori» in Spagna o altrove che credono ancora alla possibilità di governi in opposizione al dogma germanico.

 

La situazione ricorda il Cile dell’inizio degli anni ’70, quando il Presidente americano Richard Nixon si dedicò a rovesciare Salvador Allende per impedire aggiramenti simili in altri luoghi del “cortile di servizio” degli Stati Uniti. «Fate urlare l’economia!», aveva ordinato il Presidente americano. Quando questo fu fatto, i carri armati del generale Augusto Pinichet diedero il cambio.

Il colpo di stato silenzioso che si consuma in Grecia attinge da una cassa-attrezzi più moderna – dalle agenzie di rating ai media passando per la BCE. Una volta messa in funzione la morsa, al governo Tsipras rimangono solamente due opzioni: farsi strangolare finanziariamente se persiste nel voler applicare il suo programma o rinnegare le sue promesse e cadere, abbandonato dai suoi elettori.

 

Proprio per evitare la trasmissione del virus Syriza – la malattia della speranza – al resto del corpo europeo il presidente della BCE, Mario Draghi, il 22 gennaio 2015, giusto tre giorni prima delle elezioni in Grecia, ha annunciato che il programma d’intervento del suo istituto (la BCE acquista ogni mese 60 miliardi di euro di titoli di debito dagli Stati della zona euro) non sarà accordato alla Grecia se non sotto condizioni. L’anello debole della zona euro, quello che più ha bisogno di aiuto, non riceverebbe sostegno se non sottomettendosi alla tutela di Bruxelles.

 

Minacce e fosche predizioni

I greci hanno la testa dura. Hanno votato Syriza, costringendo il Presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem a richiamarli all’ordine: «I greci devono comprendere che i peggiori problemi della loro economia non sono scomparsi per il solo fatto che ha avuto luogo un’elezione» (Reuters, 27 gennaio 2015). «Noi non possiamo fare eccezioni per questo o quel Paese» ha confermato Christine Lagarde, direttrice generale del FMI (The New York Times, 27 gennaio 2015), mentre Benoît Cœuré, membro del Diretorio della BCE, rincarava: «La Grecia deve pagare, sono le regole del gioco europeo» (The New York Times, 31 gennaio e 1 febbraio 2015).

 

Una settimana più tardi, Draghi dimostrava che anche all’interno della zona euro si sapeva ugualmente «fare urlare l’economia»: senza la minima giustificazione chiudeva la principale fonte di finanziamento delle banche greche, sostituita dall’Emergency Liquidity Assistance (ELA), un dispositivo finanziario più costoso che deve essere rinnovato ogni settimana. In breve, egli poneva una spada di Damocle sulla testa dei dirigenti greci. Sulla sua scia l’agenzia di rating Moody’s annunciava che la vittoria di Syriza «influiva negativamente sulle prospettive di crescita» dell’economia (Reuters, 27 gennaio 2015).

 

Lo scenario del Grexit (l’uscita della Grecia dalla zona euro) e del default dei pagamenti tornava all’ordine del giorno. Quarantotto ore appena dopo le elezioni di gennaio il Presidente dell’Isituto tedesco per la Ricerca Economica, Marcel Fratzscher, già economista presso la BCE, spiegava che Tsipras giocava «un gioco molto pericoloso»: «Se la gente comincia a credere che la cosa è veramente seria, si potrebbe assistere a una fuga in massa dei capitali e a un assalto alle banche. Siamo al punto che un’uscita dall’euro diventa possibile» (Reuters, 28 gennaio 2015). Esempio perfetto di profezia autorealizzantesi, che portò all’aggravarsi della situazione economica di Atene.

 

Syriza disponeva di un margine di manovra limitato. Tsipras era stato eletto per rinegoziare le condizioni vincolate all’«aiuto» del quale il suo Paese era stato beneficiario, ma nel quadro della zona euro, perché l’idea di un’uscita non godeva di sostegno maggioritario da parte della popolazione. Quest’ultima era stata convinta dai media greci e internazionali che un Grexit costituirebbe una catastrofe di dimensioni bibliche. Ma la partecipazione alla moneta unica tocca altre corde, qui in Grecia ultrasensibili.

 

Fin dalla sua indipendenza nel 1822 la Grecia ha bilanciato il suo passato in seno all’Impero ottomano con la «europeizzazione», un obiettivo che agli occhi delle élite e della popolazione ha sempre avuto il significato della modernizzazione del Paese e dell’emersione dal suo sottosviluppo. La partecipazione al «nocciolo duro» dell’Europa era ritenuta la materializzazione di questo ideale nazionale. Durante la campagna elettorale i candidati di Syriza si sono quindi sentiti in obbligo di sostenere che l’uscita dall’euro costituiva un tabù. Al centro dei negoziati fra il governo Tsipras e le istituzioni europee la questione delle condizioni fissate dai creditori: i famosi memorandum che, dal 2010, obbligano Atene ad applicare politiche di austerità e di devastanti aumenti d’imposte. Più del 90% dei versamenti effettuati dai creditori tuttavia ritornavano loro direttamente – talvolta il giorno dopo! - , perché vincolati al rimborso del debito. Come ha riassunto il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, che reclama un nuovo accordo con i creditori, «la Grecia ha passato questi ultimi cinque anni a vivere per la successiva restituzione di denaro, come il drogato che aspetta la sua prossima dose» (1 febbraio 2015).

 

Poiché però il non rimborso del debito equivale a un “evento di credito”, vale a dire a una specie di bancarotta, lo sblocco della dose è un’arma di ricatto molto potente nelle mani dei creditori. In teoria, poiché i creditori hanno bisogno di essere rimborsati, si sarebbe potuto immaginare che Atene disponesse anche di un’importante leva negoziale. Salvo il fatto che l’attivazione di questa leva avrebbe portato la BCE a interrompere il finanziamento delle banche greche, provocando il ritorno alla dracma. Non v’è niente di sorprendente quindi se, appena tre settimane dopo le elezioni, i diciotto ministri delle Finanze della zona euro hanno inviato un ultimatum al diciannovesimo membro della famiglia europea: il governo greco doveva applicare il programma trasmessogli dai suoi predecessori o pagare le sue obbligazioni trovando il denaro altrove. In questo caso, concludeva il New York Times, «molti protagonisti del mercato finanziario pensano che la Grecia non ha altra scelta se non di abbandonare l’euro» (16 febbraio 2015).

 

Per liberarsi degli ultimatum asfissianti, il governo greco ha sollecitato una tregua di quattro mesi. Non ha reclamato il versamento di 7,2 miliardi di euro, ma sperava che, durante il cessate il fuoco, le due parti sarebbero addivenute a un accordo che includesse misure per sviluppare l’economia e poi risolvere il problema del debito. Sarebbe stato maldestro fare cadere subito il governo greco e quindi i creditori hanno accettato.

 

Atene pensava di poter contare – per lo meno provvisoriamente – sulle somme che sarebbero rientrate nella sue casse. Il governo sperava di disporre, nelle riserve del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria, di 1,2 miliardi di euro non utilizzati nel procedimento di ricapitalizzazione delle banche greche, come pure di 1,9 miliardi che la BCE aveva guadagnato sui titoli di stato greci e promesso di restituire ad Atene. Ma a metà marzo la BCE annunciava che non avrebbe restituito questi guadagni, mentre i ministri dell’Eurogruppo decidevano non soltanto di non versare il denaro, ma di trasferirlo nel Lussemburgo, come se si temesse che i greci si sarebbero trasformati in predatori di banche! Inesperto, non aspettandosi simili manovre, il team di Tsipras aveva dato il suo accordo senza esigere garanzie. «Non pretendendo un accordo scritto abbiamo commesso un errore», ha riconosciuto il primo ministro in un’intervista alla rete televisiva Star il 27 aprile 2015.

 

Il governo continuava a godere di grande popolarità, nonostante le concessioni alle quali aveva acconsentito: non ritornare sulle privatizzazioni decise dai governi precedenti, adeguare l’aumento del salario minimo, aumentare ancora la tassa sul valore aggiunto (IVA). Berlino ha dunque messo in moto un’operazione mirante a screditarlo. Alla fine di febbraio lo Spiegel pubblicava un articolo sui «rapporti tormentosi fra Varoufakis e Schäuble» (27 febbraio 2015). Uno dei tre autori era Nikolaus Blome, recentemente passato da Bild a Spiegel ed eroe della campagna condotta nel 2010 da quel quotidiano contro i «greci fannulloni» (3). Il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble, il quale, evento raro nella storia dell’Unione Europea ma anche della diplomazia internazionale, ironizzava pubblicamente sul suo omologo greco che qualificava come «stupidamente ingenuo» (10 marzo 2015), era presentato dal giornale tedesco (Bild) come un Sisifo benevolo, desolato per il fatto che la Grecia era condannata a fallire e a lasciare la zona euro. Salvo che, insinuava l’articolo, Varoufakis fosse dimesso dalle sue funzioni.

 

Mentre si moltiplicano fughe di notizie, funeree predizioni e minacce, Dijsselbloem piantava in avanti un nuovo paletto, dichiarando al New York Times che l’Eurogruppo stava esaminando l’eventualità di applicare alla Grecia il modello cipriota, ovvero una limitazione al movimento di capitali e una riduzione dei depositi bancari (19 marzo 2015). Un annuncio che si fatica nell’interpretare se non come un tentativo – infruttuoso – di provocare un panico bancario. Mentre la BCE e Draghi stringevano ancor più il nodo scorsoio, limitando maggiormente le possibilità per le banche greche di finanziarsi, Bild pubblicava uno pseudo-reportage su una scena di panico ad Atene, non esitando a snaturare una banale fotografia di pensionati che facevano la fila davanti a una banca per incassare la loro pensione (31 marzo 2015).

 

A fine aprile l’operazione organizzata da Berlino portava i primi frutti. Varoufakis era sostituito dal suo vice, Euclides Tsakalotos, nei negoziati con i creditori. «Il governo deve fare fronte a un colpo di Stato di nuovo genere», ha dichiarato Varoufakis. «I nostri assalitori non sono più, come nel 1967, i carri armati, ma le banche» (21 aprile 2015).

 

Per il momento, il colpo di Stato silenzioso ha colpito soltanto un ministro. Ma il tempo lavora per i creditori. Costoro esigono l’applicazione della ricetta neoliberista. Ognuno con le sue ossessioni. Gli ideologi del FMI chiedono la deregolamentazione del mercato del lavoro e la legalizzazione dei licenziamenti di massa, che hanno promesso agli oligarchi greci proprietari delle banche. La Commissione europea, in altre parole Berlino, reclama il proseguimento delle privatizzazioni suscettibili d’interessare le aziende tedesche al prezzo più basso. Nella lista interminabile delle vendite scandalose balza agli occhi quella, effettuata dallo Stato greco nel 2013, di 28 immobili, che però continua a utilizzare in affitto. Durante i prossimi vent’anni Atene dovrà pagare 600 milioni di euro di affitto ai proprietari, circa tre volte l’importo che ha ricavato dalla vendita – e che è stato girato direttamente ai creditori.

 

In una situazione di debolezza, abbandonato da coloro dai quali sperava ricevere sostegno (come la Francia), il governo greco non può risolvere il problema più grande davanti al quale il Paese si trova: un debito pubblico insostenibile. La proposta di organizzare una conferenza internazionale simile a quella del 1953, che esentò la Germania dal rimborsare la maggior parte delle riparazioni per i danni di guerra, aprendo così la strada al miracolo economico (4), è annegata in un mare di minacce e di ultimatum. Tsipras si sforza di ottenere un accordo migliore dei precedenti, che però sarà sicuramente lontano dai suoi annunci e dal programma votato dai cittadini greci. Jyrki Katainen, vice-presidente della Commissione europea, a questo proposito è stato molto chiaro appena dopo le elezioni legislative greche: «Noi non cambiamo politica in funzione di elezioni» (28 gennaio 2015).

 

Ma allora le elezioni hanno un senso, se un Paese che rispetta l’essenziale dei suoi impegni non ha diritto di modificare per nulla la sua politica? I neonazisti di Alba dorata dispongono di una risposta già pronta. Si può escludere che essi beneficino di un fallimento del governo Tsipras più dei sostenitori di Schäuble ad Atene?

 

 (1) Lire Joëlle Fontaine, « “Il nous faut tenir et dominer Athènes” », Le Monde diplomatique, juillet 2012.

(2) Selon un sondage du 9 mai publié par le quotidien Efimerida ton Syntakton,53,2 % de la population jugerait « positive » ou « plutôt positive » la politique du gouvernement.

(3) Lire Olivier Cyran, « “Bild” contre les cyclonudistes », Le Monde diplomatique,mai 2015.

(4) Lire Renaud Lambert, « Dette publique, un siècle de bras de fer », Le Monde diplomatique, mars 2015.

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