I custodi della Carta

di Salvatore Settis- La Repubblica - 29/07/2013
i cittadini dimostreranno che la Costituzione è ancora protetta da buoni custodi.

Si può cambiare la Costituzione, e come? Per tutto il 1947 la Costituente discusse appassionatamente questo punto cruciale. Tutti erano d’accordo che la Carta è «nelle sue grandi mura definitiva, e deve aver vita di secoli » (Meuccio Ruini), e che va intesa come “rigida”, un insieme organico di cui non si può cambiare un articolo senza incidere sull’insieme. Secondo il democristiano Lodovico Benvenuti (più tardi Segretario generale del Consiglio d’Europa), i principi della Carta «non possono esser rimessi all’arbitrio di qualsiasi maggioranza parlamentare», anche per evitare che affrettate modifiche richiedano «la complicità del presidente della Repubblica». Costantino Mortati (Dc) osservò che «la Costituente fu eletta ad hoc e nel periodo della sua formazione i partiti hanno presentato i loro programmi sulla nuova Costituzione», mentre «una Camera avvenire, eletta per un compito normale di legislazione», non sarà mai altrettanto legittimata a cambiarne il testo.

Si ritenne necessario «stabilire forti garanzie per evitare che la Costituzione sia modificata con leggerezza » (Lussu), ricorrendo a «una procedura straordinaria particolarmente complicata» per arginare colpi di maggioranza (così il liberale Martino, poi presidente del Parlamento europeo). Il 15 gennaio 1947 fu approvata la proposta del socialista Paolo Rossi (poi presidente della Corte costituzionale), secondo cui le Camere, dopo aver varato una modifica costituzionale, erano automaticamente sciolte, e la modifica entrava in vigore solo dopo essere stata riapprovata tal quale dalle nuove Camere. Dopo acceso dibattito si giunse a quello che è oggi l’art. 138, con le sue tre garanzie contro i colpi di mano. Prima di tutto, la doppia lettura da parte delle Camere, a tre mesi l’una dall’altra, onde «diluire nel tempo il procedimento di revisione al fine di accertarne la rispondenza ad esigenze veramente sentite e stabili» (Mortati), anche perché «tre mesi paiono sufficienti perché l’opinione pubblica si metta in moto»; in secondo luogo, la maggioranza di due terzi, e in difetto di questa «il ricorso alla fonte stessa della sovranità, il referendum popolare», fermo restando che «la legge, finché è legge, sia religiosamente osservata» (Rossi).

Questa calibratissima ingegneria istituzionale viene spazzata via dal disegno di legge 813, firmato da Enrico Letta e dai ministri Quagliariello e Franceschini. Secondo i proponenti, le Camere che oggi abbiamo, composte di membri nominati con la pessima legge elettorale che tutti deplorano e nessuno modifica, esprimeranno (con accordi fra i capigruppo e i presidenti delle Camere) una mini-Costituente di 40 membri. Tal Comitato esamina a tappe forzate («non sono ammesse questioni pregiudiziali, sospensive e di non passaggio agli articoli») le proposte di riforma della Costituzione «afferenti alla forma di Stato, alla forma di Governo e al bicameralismo», le elabora in quattro mesi e le trasmette alle Camere, che devono concluderne l’esame entro 18 mesi. Vengono mantenuti referendum e doppia lettura, ma l’intervallo è ridotto da tre mesi a uno. Il precedente è la Bicamerale del 1997, la cui unica funzione fu traghettare Berlusconi attraverso una legislatura di centrosinistra senza far nulla sul conflitto d’interesse.

Secondo Alessandro Pace (audizione al Senato, 21 giugno), un vizio di fondo inficia questo ddl. «Il Parlamento può modificare l’art. 138, ma finché quella procedura è in vigore deve rispettarla: l’art. 138 è bensì modificabile, ma non derogabile», il ddl 813 costituisce perciò «una modifica surrettizia con effetti permanenti». Ma le anomalie non si fermano qui: perché il governo ha nominato una commissione di “saggi” «incaricata di fornire i suoi input nel merito delle modifiche da apportare alla Costituzione»? Come mai gli emendamenti alle proposte di revisione costituzionale possono essere presentati dal governo e dai capigruppo, ma non da un singolo deputato come nella Costituente? Che vuol dire l’art. 4, secondo cui «qualora entro il termine non si pervenga all’approvazione di un progetto di legge costituzionale, il Comitato trasmette comunque un progetto di legge»? Quale progetto di legge, se nessuno è stato approvato? Perché infine (lo hanno incisivamente notato Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro) al Comitato è rimesso anche l’esame delle leggi elettorali, come se il Porcellum fosse diventato un pezzo di Costituzione?

Perché tanta fretta, perché tante anomalie? Perché, ci informa la relazione del ddl 813, la Costituzione dev’essere adeguata al «mutato scenario politico, sociale ed economico ». Chi difende la Costituzione com’è pecca di «conservatorismo costituzionale », spiegano Letta-Quagliariello- Franceschini, poiché la forma dello Stato e del governo furono immaginate dalla Costituente «nella temperie della guerra fredda». Questo affondo storiografico è un’impronta digitale, rivela da dove vengono le certezze di chi ci governa: dalla party line, diffusa nell’attardato thatcherismo di ambienti finanziari e imprenditoriali, secondo cui la crisi economica nasce dalle troppe concessioni alle classi meno abbienti. Come ha ricordato Barbara Spinelli in queste pagine (26 giugno), chi ha divulgato questa linea in Italia è Berlusconi, secondo cui la nostra Costituzione «fu scritta sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate», è una “Costituzione sovietica”.

Ancor più chiaro è il rapporto sull’area euro della società finanziaria J.P. Morgan (28 maggio), secondo cui «all’inizio della crisi, si pensava che i problemi nazionali fossero di natura economica, ma si è poi capito che ci sono anche problemi di natura politica. Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, sorti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica, (...) e sono ancora determinati dalla reazione alla caduta delle dittature. Queste Costituzioni mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Perciò questi sistemi politici periferici hanno, tipicamente, caratteristiche come: governi deboli rispetto ai parlamenti, stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale del diritto al lavoro, consenso basato sul clientelismo politico, diritto di protestare contro ogni cambiamento. La crisi è la conseguenza di queste caratteristiche. (...) Ma qualcosa sta cambiando: test essenziale sarà l’Italia, dove il nuovo governo può chiaramente impegnarsi in importanti riforme politiche ».

La finanza internazionale comanda, il governo italiano esegue, come usa alla periferia del mondo. Leggendo il ddl 813 in filigrana sul documento di JP Morgan (un ordine di servizio che viene da lontano), dobbiamo aspettarci un governo più forte e centralizzato, un parlamento più debole, la compressione dei diritti dei lavoratori e di ogni protesta, l’archiviazione dell’antifascismo. Se ciò è contrario alla Costituzione basta cambiarla, e in fretta: perciò, capovolgendo il responso delle urne e le priorità dichiarate, la riforma del Porcellum è stata messa in soffitta, la riforma della Costituzione in corsia preferenziale.

«Ci sarà pure un giudice a Berlino», diceva il mugnaio di Potsdam che arrivò fino al Re di Prussia per avere giustizia. Ci sarà pure a Roma un custode della Costituzione, dicono oggi i cittadini. A chi chiederemo se davvero la crisi economica è un frutto dell’antifascismo? Se per risolverla occorre stravolgere la Costituzione modificando «la forma di Stato e di governo» generata dalla Resistenza? Se dobbiamo rassegnarci a quel che Barbara Spinelli ha chiamato il «giudizio universale» di JP Morgan, a «demolire la Costituzione in nome della cosmica giustizia dei mercati»?

 

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