Il drago jihadista e la crisi sociale tunisina

di Annamaria Rivera - Il Manifesto - 20/03/2015

Dopo l’attentato cruento al Museo del Bardo, a Tunisi, di rassicurante c’è che anche questa volta la parte più consapevole della popolazione tunisina sia scesa in piazza immediatamente. E’ questa la ricchezza della Tunisia post-rivoluzione: la reattività democratica, il senso di partecipazione civile, l’attivismo sociale e politico. Altrettanto encomiabile è che il comitato organizzatore del Forum sociale mondiale abbia confermato che esso si svolgerà a Tunisi, come stabilito, dal 24 al 28 marzo.

E’ indubbio, però, che il sanguinoso attacco terroristico rappresenti un allarmante salto di qualità nell’escalation della violenza integralista; e che esso sia parte di un piano mirante a colpire a morte l’unico paese in cui la ‘primavera araba’ non è divenuta cupo inverno.

Questo attacco non è un fulmine a ciel sereno. Il salafismo non è una novità per la Tunisia, se è vero che anche durante la dittatura benalista era rifugio per fasce di giovani frustrati dalla mancanza di lavoro, futuro, dignità. E, dopo la fuga di Ben Ali, l’effervescenza partecipativa, la presa di parola pubblica, il fervore delle iniziative politiche e culturali avevano subito visto come contraltare le provocazioni della galassia salafita-takfirista, a cominciare da Ansar al-Sharia: dagli atti di vandalismo contro luoghi e protagonisti della vita culturale all’attacco contro l’ambasciata degli Stati Uniti, il 14 settembre 2012; dagli assalti a sedi di partiti politici e dell’Ugtt alle aggressioni contro docenti, politici, intellettuali, sindacalisti, giornalisti, femministe, artisti, blogger.

Su questo versante, il 2013 è stato anno cruciale: marcato dalla sequela di attacchi terroristici di stampo alqaedista sul Monte Chaambi, alla frontiera algerina; dalla scoperta quasi quotidiana di depositi d’armi o campi d’addestramento jihadista; soprattutto dagli omicidi politici, nella forma dell’esecuzione premeditata e attuata da sicari, di Chokri Belaïd (6 febbraio) e di Mohamed Brahmi (25 luglio), entrambi figure di grande rilievo del Fronte popolare.

Non è irrilevante il contributo che la stessa Ennahdha, il partito islamista detto moderato (oggi parte della coalizione che regge il governo di Habib Essid), ha offerto, deliberatamente o meno, all’incremento delle acque ove nuota il drago jihadista. Spesso i suoi leader ‘moderati’ hanno accarezzato il pelo della corrente interna filo-salafita. Non poche volte hanno aperto le porte o perfino accolto in pompa magna predicatori rigoristi provenienti dal Marocco, dall’Algeria, dall’Egitto, dalla Penisola arabica. Per non dire della comprensione manifestata a suo tempo da alcuni, a cominciare da Ghannouchi, verso i salafiti: per esempio, dopo l’attacco del 2012 a un’esposizione d’arte nel Palazzo El Ebdellia, decretata blasfema da loro stessi e perfino dal laico ministro della Cultura di allora.

Certo, il terrorismo jihadista si è più che mai globalizzato e la Libia confinante è la base di molti gruppi che ne fanno parte. Ma v’è anche un fattore interno che contribuisce a irrobustire il drago jihadista. I problemi sociali –disoccupazione, precarietà, disparità regionali– che avevano favorito l’insurrezione popolare si sono ancor più acuiti, riproducendo la spirale di rivolte spontanee e dura repressione, tipica della storia della Tunisia indipendente. In più il semi- o sottoproletariato giovanile dei quartieri urbani e delle regioni più diseredate, che era stato l’autentico primo attore dell’insurrezione, oggi è ancor più emarginato, di nuovo espropriato della dignità che aveva rivendicato e della stessa rivoluzione di cui era stato protagonista. Non per caso la figura di Mohamed Bouazizi è stata ormai abbandonata in qualche cassetto della storia.

E’ tra questi giovani che pesca la galassia salafita. La quale in non pochi casi è radicata negli ambienti diseredati più di quanto non sia la sinistra politica. Soprattutto Ansar al-Sharia in qualche misura ha ridato loro dignità, sia pur illusoriamente, rendendoli protagonisti, per esempio, di azioni di ‘vigilanza sui costumi’: minacce e attacchi contro venditori d’alcol; chiusura violenta di esercizi commerciali durante il mese di Ramadan; profanazione e distruzione di mausolei sufi, imposizione del loro comando in certe moschee. Come nelle migliaia di casi di giovani che vanno a combattere in Iraq e in Siria, sono atti di tipo compensatorio, che permettono loro di sfogare l’aggressività, sublimare la frustrazione sociale, sfuggire alla disperazione.

Tutto questo è destinato ad aggravarsi per ragioni molteplici: gli effetti della crisi economica mondiale, il crollo del turismo, la fuga d’investitori e imprenditori stranieri, favorita dal clima di violenza. Questi fattori, a loro volta, s’inseriscono nella cornice di governi, in particolare l’attuale, che, sottomessi come sono agli ordini del FMI e d’altri poteri forti, sembrano poco inclini ad affrontare la grande questione sociale cui abbiamo accennato.

Ma la Tunisia è un piccolo, grande paese capace di sorprendere. Non è assurdo sperare che un nuovo, potente movimento popolare, questa volta più organizzato, torni a riappropriarsi delle rivendicazioni della rivoluzione.
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