"IMPARARE DALLA GRECIA"

di Guido Viale - 16/07/2015

I negoziatori del 12 luglio sono entrati nella sala della riunione in grisaglie e ne sono usciti con il volto di Dracula. Un volto che ossessionerà tutti i cittadini europei, mano a mano che si renderanno conto di quel che è accaduto; ma che da oggi ossessionerà anche i loro governanti: perché non aver difeso la Grecia di Tsipras oggi, ed essersi anzi uniti al drappello sempre più folto di coloro che ne hanno diretto il waterboarding, li espone, domani, alla prospettiva di trattamento analogo. Non solo non potranno più permettersi di proporre un cambio di rotta, ma dovranno sottostare alle pretese ogni giorno più esose di chi guida la danza dell’austerity. Con il 2016 entra in vigore il fiscal compact, cioè l’obbligo di cominciare a rientrare dal proprio debito. Nessuno ci pensava o ne parlava più; ma ora quel patto potrà essere richiamato in sevizio e scombussolare piani e bilanci di tutti gli Stati: non solo quelli già a rischio, come Italia, Spagna e Portogallo; ma anche Francia, Olanda o Finlandia, che non stanno molto meglio. I birilli di questo bowling rischiano di cadere uno dopo l’altro, e di coinvolgere, prima di quanto si possa pensare, anche la Germania.

Attaccare oggi Tsipras dopo averlo sostenuto ed esaltato fino a ieri è un po’ gaglioffo; specie se a farlo sono dei politici italiani. Innanzitutto perché da qui è difficile avere un quadro esauriente della situazione greca. Poi, perché, dopo averne condiviso l’operato, bisognerebbe mettersi “nei panni” di Tsipras, cioè di fronte alle alternative tra cui ha dovuto fare le sue scelte. Ma soprattutto perché, subito dopo, bisognerebbe ritornare nei nostri, di panni: di chi cioè ha dissipato il patrimonio della sinistra più forte d’Europa (non che non fosse da liquidare) senza aver saputo sostituirvi niente che non sia  l’eterna riproposizione della propria inconsistenza. Ma se è sbagliato voltare le spalle a Tsipras in questo difficile passaggio, non per questo diventa necessario appiattirsi sulle sue posizioni. Si dovrebbe guardare la vicenda greca con quel tanto di distacco che ci è possibile per ricavarne fin da ora degli insegnamenti.

Innanzitutto l’inconsistenza intellettuale e la malafede dei negoziatori sia dell’eurogruppo che del Consiglio, già evidenziate più volte da Varoufakis, si proiettano su tutto l’establishment europeo di cui sono espressione. Una classe dirigente che manda a fondo la Grecia pensando di ricavare 50 miliardi da asset che possono essere svenduti al massimo a 7 (la favola delle privatizzazioni per pagare i debiti…), di normare l’orario di apertura delle farmacie, o di riscrivere la procedura civile in una settimana, non ha futuro. Persino il FMI giudica quelle proposte irrealizzabili. Il che lascia aperta la partita. E non dimentichiamo che si tratta degli stessi governi che hanno rifiutato di farsi carico di alcune decine di migliaia di profughi. Un’alternativa - sociale, politica e culturale - a questi esiti mostruosi deve tenerne conto: l’Unione europea potrebbe dissolversi in pochi anni.

In secondo luogo è apparsa in tutta la sua inconsistenza l’opzione di un’uscita dall’euro come alternativa alle politiche germanocentriche dell’austerity. Le scelte di Tsipras, e gli stessi rilievi critici di Varoufakis nei suoi confronti, hanno messo in luce la drammaticità, per l’intera popolazione, ma anche le difficoltà tecniche, mai prese in considerazione, di quell’opzione: soprattutto se fatta in maniera non concordata. Ma andrebbe presa in  considerazione anche l’impossibilità di recuperare competitività con la svalutazione se una scelta del genere dovesse coinvolgere, anche in tempi diversi, un numero elevato di Stati membri. Ancora più insensata e grottesca appare quindi la proposta di un referendum sull’uscita dall’euro: nel tempo che separa il suo lancio dalla sua eventuale realizzazione le banche verrebbero svuotate, paralizzando per mesi l’intero paese. Eppure la politica, oggi, si nutre in buona parte di queste due cose: di “ce lo chiede l’Europa” e di promesse di un ritorno a “come si era prima” dell’euro.

In terzo luogo l’esito pesantissimo del negoziato che ha tenuto impegnato il Governo greco è dovuto anche alla mancanza di un “piano B” che contemplasse, in qualche forma, l’introduzione di una moneta parallela all’euro. Su questo punto ha ragione Varoufakis (che d’altronde l’aveva prospettato in alcuni suoi scritti). Ma anche questa non è cosa realizzabile in una settimana: avrebbe dovuto essere predisposta fin dal giorno della vittoria elettorale, e studiato prima ancora. Syriza non ha avuto né tempo né modo per farlo. Ma una discussione sulle diverse versioni correnti di questa proposta e sulle forme di un suo eventuale utilizzo andrebbe sviluppata con maggiore impegno. Anche perché è parte integrante non solo di un programma di politiche alternative alla subalternità all’ attuale  governance europea, ma anche di una strategia generale di riduzione del potere dell’alta finanza sulle vite di tutti.

Quarto: il vero regista di questa resa dei conti con Syriza e con la Grecia non è stato Schaeuble ma Draghi, come peraltro conferma il FMI. Sua è la lettera scritta con Trichet per varare il governo Monti, le cui misure i memoranda della Trojka ricalcano fedelmente e che oggi vengono riproposte in forma aggravata; sua è la scelta di escludere la Grecia dal quantitative easing e dalle altre misure di sostegno alle banche; sua la decisione di bloccare i fondi Ela (cioè di costringere le banche greche a chiudere) mettendo Tsipras con le spalle al muro. Il suo è stato il comportamento di chi tiene ferma la vittima per permettere agli altri di colpirla meglio. Schaeuble non avrebbe avuto un potere incontrastato nel negoziato se Draghi non avesse tenuto “bloccato” l’avversario. Una strategia alternativa deve quindi prospettare una diversa governance della BCE. Chiedere la fine della sua indipendenza non basta: significa consegnarla nelle mani del Consiglio, o dei singoli governi. Meglio allora, in attesa di un “governo europeo”, espressione di quell’unità politica da cui ci si sta in realtà allontanando a passi da gigante, che Banca centrale e politica monetaria vengano sottoposti al Parlamento europeo: che comunque potrebbe esercitare – adeguatamente attrezzato, e in regime di trasparenza che oggi non c’è - solo funzioni di indirizzo e di controllo. E’ una prospettiva – che può tradursi in una campagna, lanciata per ora in termini non sufficientemente chiari - che richiede anch’essa di essere discussa per tempo. Comunque sia, l’obiettivo della ristrutturazione o del taglio del debito è imprescindibile.

Infine, sarebbe sbagliato promuovere, come in parte si fa, un risentimento antitedesco da contrapporre al nazionalismo che ha guidato il negoziato con Tsipras e Varoufakis, condotto fin dall’inizio all’insegna di una menzogna (“non permetteremo ai greci di spassarsela a nostre spese”…); ma condizionato soprattutto dalla volontà di molcire e aizzare l’elettorato delle maggioranze in carica. La Germania non è un monolite, anche se i vantaggi usurari che ha ricavato dall’euro (un tema su cui la pubblicistica mainstream tace) sono in parte ricaduti su tutta la sua popolazione. E’ anch’essa un paese diviso in classi, su cui le politiche europee hanno inciso e incideranno sempre più in modo differente. A guadagnarci, da un’Europa e da un euro germanocentrici, non è stata tanto “la Germania”, quanto la finanza internazionale e le multinazionali al cui servizio si è posto il suo governo. La possibilità di far saltare quelle politiche riposa anche sulla possibilità che anche lì si apra una frattura lungo frontiere sociali e di classe. Che non ha bisogno, però, della demonizzazione del popolo tedesco (e meno che mai di richiami al suo passato nazista), ma di una sempre più chiara identificazione degli interessi in gioco: che sono gli stessi in Germania, in Italia, e in tutto il resto dell’Europa.

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