Pensioni: Renzi e il metodo Achille Lauro

di Alfonso Gianni - Huffington - 20/05/2015

E’ in corso un tentativo di stravolgere il senso della sentenza sulle pensioni della Corte costituzionale (70/2015) che viene soprattutto dall’area della maggioranza di governo. Qui prevalgono due giudizi apparentemente contradditori tra loro, ma  entrambi votati alla delegittimazione della sostanza giuridica del pronunciamento del massimo organo costituzionale.

Da un lato infatti ci si lamenta che la Corte sia entrata nel merito di questioni di politica economica che sarebbero di esclusiva pertinenza di organi politici; dall’altro si giustifica l’autosanatoria preelettorale dei 500 euro in media per 3milioni e 700mila pensionati, con la scusa che la Corte non avrebbe dato disposizioni precise  e vincolanti in merito ai rimborsi. Entrambe le affermazioni le potete ritrovare, nell’ordine cronologico qui esposto, nelle dichiarazioni rilasciate dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il quale prima non ha nascosto il fastidio per l’intervento della Corte nella sfera del bilancio, che lo costringerebbe a impiegare il presunto tesoretto per altri scopi; poi ha pensato bene di volgere la sentenza a proprio vantaggio con un’operazione demagogica che ricorda quella degli 80 euro, se non andando indietro nel tempo alla promessa delle due scarpe di Achille Lauro (una prima, l’altra dopo il voto) di oltre sessanta anni fa. Solo che qui la seconda scarpa non ci sarà, essendo i 500 euro un una tantum.

La prima obiezione appare non solo errata, ma addirittura ipocrita venendo da quel pulpito. Infatti anche le leggi di natura squisitamente economica ricadono nell’ambito di giudizio di costituzionalità, come dimostra una nutrita e robusta giurisprudenza, proprio in virtù della esistenza di numerosi articoli della nostra Costituzione, a partire dall’art.3, secondo comma (“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…che impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”) che tutelano il cittadino sotto anche sotto il profilo delle condizioni materiali di vita. Si pensi anche all’art.36 che riguarda il principio dell’equa retribuzione che deve, oltre che essere “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro” anche “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Lo scandalo consiste nel fatto che simile obiezione venga da quelle parti politiche che sono le responsabili di avere manipolato la Costituzione, introducendo nel 2012, il principio del pareggio di bilancio nell’articolo 81, contro cui è tuttora in corso una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare che riporti il testo costituzionale al rispetto dei diritti dei cittadini sulle esigenze della contabilità. Gli stessi che hanno “cancellato Keynes” dalla Costituzione, ovvero la possibilità e l’utilità della spesa sociale in deficit, si ergono a censori della Corte Costituzionale quando questa obietta su un intervento che concerne le pensioni di milioni di persone.

Non a caso, e giustamente, la sentenza della Corte non ricorre mai all’articolo 81, così pessimamente modificato, nelle sue argomentazioni. Anzi è chiaro per i giudici costituzionali che le esigenze e i diritti dei cittadini vengono prima delle questioni di contabilità del bilancio statale.

D’altro canto la sentenza della Corte, equilibratissima sotto questo profilo,  non dice affatto che in assoluto è impossibile per un governo intervenire sulle prestazioni sociali. Ma questo deve essere fatto con precise motivazioni, che in questo caso mancano clamorosamente; altrettanto puntuali finalità di tipo solidaristico, come avvenne nel 2008 per superare le conseguenze negative del famoso “scalone”; riguardare fasce effettivamente in condizioni di sopportare qualche sacrificio, nel 2008 il provvedimento riguardava chi percepiva assegni pensionistici di otto volte superiore al minimo, non tre volte come in questo caso; per una durata di tempo limitata, come fu appunto sempre nel 2008 per un solo anno. Qui invece siamo di fronte ad uno stravolgimento dei valori degli assegni pensionistici che si perpetua nel tempo. La legge Fornero è un vero disastro sotto molti profili. Non dimentichiamo infatti il dramma irrisolto degli esodati.

La seconda questione riguarda la giustificazione che Renzi ha espressamente portato per motivare la concessione di soli 500 euro in media: cioè che la Corte non avrebbe indicato misure e modalità del rimborso. Ma non è affatto compito della Corte farlo! In primo luogo perché questa si rivolge al legislatore collettivo, cioè al Parlamento, non al Governo. In secondo luogo perché non compete ad essa prendere il governo per mano come un bimbo per guidarlo in tutti i suoi passi. Ma da qui a pensare di cavarsela con un provvedimento preelettorale (il 31 maggio si vota in sette regioni) ce ne passa. Il decreto del governo non chiuderà affatto il contenzioso. Al contrario apre un’autostrada a infiniti ricorsi. Né Renzi può sperare di fermarli con promesse e annunci, poi regolarmente smentiti, come già ha fatto con la bugia sul nuovo sistema di calcolo delle rivalutazioni.

Sarà una continua guerriglia giudiziaria, quindi. La legge Fornero è un buco senza fondo. Quelle precedenti non sono da meno. Come dimostra l’annuale rapporto sullo stato sociale curato dal professor Pizzuti e che verrà presentato tra pochi giorni alla Sapienza di Roma, è il  sistema pensionistico pubblico a finanziare lo stato (nel 2013 con 21 miliardi) e non viceversa. Renzi ha poco da strillare che la sentenza della Corte lo costringe a togliere ai giovani per dare ai vecchi. Sono state le leggi Dini della metà degli anni novanta in poi, fino alla Fornero, che sostituendo il sistema retributivo con quello contributivo, hanno infranto il patto generazionale fra giovani e anziani, fra occupati e pensionati. La crisi non ha fatto che aggravare ulteriormente questa situazione.

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