Quei pm in ginocchio da Palermo a Napoli

di Antonio Ingroia - 02/08/2017

Diceva bene Piercamillo Davigo qualche giorno fa in un’intervista su questo giornale, la magistratura, tranne poche eccezioni, non sfugge all’omologazione imperante. A 25 anni dal 92 dell’inizio di Mani Pulite e delle stragi di mafia, Davigo vede oggi una magistratura “molto più genuflessa e intimidita” sotto la pressione di una classe politica che ha avuto “l’effetto di spaventare e piegare molti magistrati” creando “un ordine giudiziario sempre meno forte, sereno e indipendente e sempre più affetto dal carrierismo e dalla tentazione di cercare santi protettori. Cioè sempre più conformista verso chi comanda”.

Parole dirompenti che tuttavia hanno avuto l’effetto dell’acqua sul marmo. Qualche reazione di maniera ed avanti come prima, come se niente fosse. Sminuendo la portata della denuncia di un protagonista di una stagione giudiziaria in cui la magistratura ha espresso, a Milano come a Palermo, il massimo dell’autonomia e indipendenza applicate alle indagini, che per la prima volta osarono colpire gli “intoccabili”.

Da allora ad oggi un assedio continuo al principio della separazione dei poteri, per ricondurre la magistratura entro gli argini, asservita o quanto meno addomesticata. Anni di lunga resistenza, ma alla fine l’assedio ha fatto breccia e si è entrati nella cittadella giudiziaria, seppur in modo meno eclatante di come avrebbero voluto i pasdaran dell’impunità, Berlusconi in testa. Senza razzie e saccheggi, ma ottenendo una diffusa omologazione, specie nei capi degli uffici giudiziari, verso il modello di magistrato preferito dalla politica. Ed è perciò prevalso un inquietante conformismo giudiziario, ossequioso nei confronti del potere, e caratterizzato dal doppiopesismo valutativo, forte coi deboli ed indulgente coi potenti.

Il modello vincente, che ottiene facilmente titoli di prima pagina e consensi istituzionali che svolgono tappeti rossi in favore di luminose carriere, usa la mano pesante con l’imputato corrispondente al cliché del colpevole, da Riina a Carminati, ed invece la prudente mano di velluto quando si toccano i “potenti dell’impunità”, vale a dire politici e colletti bianchi esponenti di quella classe dirigente criminale che tiene in pugno da decenni la cosa pubblica nel nostro Paese. Una classe dirigente che non si è fatta scrupolo di ricorrere a omicidi, depistaggi e stragi per mantenere lo status quo, servendosi all’occorrenza di mafia e di apparati istituzionali deviati per attuare svariate forme di neutralizzazione dei “disobbedienti”.

Chi non si piega e non si allinea, una volta eliminato fisicamente, oggi viene isolato e denigrato. È successo in passato a Palermo ai magistrati che non si allinearono ed osarono processare e far dichiarare colpevoli personaggi del calibro di Dell’Utri, Andreotti e Contrada, e poi ad avviare indagini sui “Sistemi Criminali” e sulla trattativa Stato-mafia. Succede oggi a Nino Di Matteo, finalmente nominato alla DNA ove si spera gli venga consentito di occuparsi delle vicende che il partito dell’impunità non vorrebbe si occupasse. Ed è successo a Federico Cafiero de Raho, cui il Csm ha negato la guida della procura di Napoli, nonostante i titoli e la maggiore esperienza sul campo rispetto al suo concorrente, Giovanni Melillo, evidentemente considerato più affidabile dal mondo politico, avendo per anni prestato i suoi servigi prima presso gli uffici del Quirinale e poi presso il Gabinetto del ministro della Giustizia. Non è un caso che tutti i membri del Csm di nomina politica, fatta eccezione per quello scelto dal M5S, hanno votato contro Cafiero de Raho, ovviamente considerato magistrato non in linea con il “nuovo corso”, dal momento che è lo stesso capufficio che a Reggio Calabria ha consentito indagini come quella sulla ’ndrangheta stragista e sul sistema criminale integrato di mafie, servizi deviati, massoneria e destra eversiva che nei primi anni 90 provò ad organizzare un golpe salvo poi accordarsi con Berlusconi, futuro padre della Patria nel governo Renzusconi.

Figuriamoci cosa un Procuratore Capo come lui potrebbe consentire a Woodcock nell’indagine Consip, avranno pensato al Csm. Ed alla procura di Roma intanto, da una parte, si indaga con infaticabile solerzia lo stesso Woodcock per una presunta fuga di notizie in danno dell’ex premier Renzi, dall’altra ci si duole della timidezza dei giudici romani su Mafia Capitale, ma poi si torna ad essere estremamente prudenti quando si tratta di indagare sui misteri della latitanza di Provenzano e i legami con la trattativa Stato-mafia, preferendo archiviare l’omicidio di Attilio Manca col rischio di mettere una pietra tombale su una vicenda che chiede verità e grida giustizia.

Già, sono trascorsi 25 anni da quel 1992. Ma l’oggi della magistratura non è purtroppo all’altezza di quella stagione.

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