Climate strike

di Guido Viale - Agenzia Pressenza - 26/05/2019
Tutto concorre a far credere che, tutto sommato, i governi se la possano cavare con poco: un po’ più di raccolta differenziata, una dieta con meno carne, un po’ più di bicicletta, un po’ di pannelli solari sui tetti, qualche viaggio aereo in meno, il vetro al posto della plastica – tutte cose sacrosante – e la vita può continuare come prima… Non è così.

La seconda giornata mondiale di sciopero per il clima si è conclusa positivamente. In Italia, e in particolare a Milano, ha registrato una partecipazione più ridotta, ma sicuramente più consapevole e convinta, di quella del 15 marzo, come è nella natura di un movimento che sta crescendo. Era prevedibile: non c’era più la novità del primo colpo, del primo strike; i media erano concentrati sulle elezioni europee (d’altronde, il modo in cui hanno trattato le manifestazioni il giorno dopo evidenzia la volontà di “chiudere la partita” con Greta al più presto: hanno cose più importanti di cui occuparsi…); l’anno scolastico volge al termine ed è tempo di verifiche; infine minacciava maltempo, anche se poi la giornata è stata bellissima: piena di sole e di slogan, canzoni, cartelli, striscioni autoprodotti. E senza quella selva di bandiere di partito e di simboli di associazioni che trasformano le manifestazioni – anche le più belle, come quella del 23 marzo a Roma per la Terra – in una specie di supermercato dove la merce in vendita viene esposta, nella speranza che qualcuno la compri…

Inutile parlare di numeri: eravamo, sia al mattino (lo sciopero degli studenti) che al pomeriggio (il corteo per chi al mattino non poteva esserci), più di quanti ne abbiano riuniti Salvini e Zorro in Piazza Duomo, pur tenendo per buono il falso pallottoliere pro-partiti di maggioranza in dotazione a tutte le Questure d’Italia; d’altronde nelle piazze di Salvini una buona metà è lì per fischiarlo e solo metà per ascoltarlo.

Lo strike di Milano si è concluso con un forse inutile dibattito nei giardini della Triennale; con una prima parte, impostata sulla contrapposizione tra buonisti (chi si batte per il clima) e ingenui (chi non se ne cura), denunciata sì come falsa, ma senza opporvi alcuna alternativa valida: per esempio quella tra responsabili (chi ascolta gli allarmi degli scienziati) e impostori (chi volutamente li ignora per non colpire interessi dominanti). Tutto sembrava invece risolversi in una serie di buoni comportamenti – tracimati anche nella seconda parte del dibattito, con l’insistenza sulla raccolta differenziata – a cui affidare l’uscita dall’emergenza, ignorando completamente l’esistenza di imprese, enti, media e interessi che lavorano ogni giorno per imporci uno stile di vita insostenibile.

Quando poi si è passati agli enti – Comune, media, imprese – lo spettacolo è stato devastante: tutti sono all’avanguardia nella lotta per l’ambiente; tutti hanno fatto tutto quello che andava fatto. Resta da spiegare però come mai siamo arrivati lo stesso a questo punto. L’architetto Boeri ha proposto di mettere a dimora tre milioni di alberi, senza spiegare se per piantarli basta il suolo (per esempio quello degli scali ferroviari o dell’ippodromo in via di cementificazione), o se per ogni ciuffo di piante bisogna costruire un apposito grattacielo come quello che lo ha qualificato come archistar, con i suoi inevitabili consumi energetici. Mentre il direttore del Corriere della Sera ha vantato il lungo impegno del suo giornale sul tema dei cambiamenti climatici, senza ricordare che per anni il suo giornale (lui però non ne era ancora il direttore) dava voce solo all’unico – insieme a Rubbia – scienziato negazionista italiano, Guido Visconti, recentemente pentitosi e passato dalla nostra parte senza mai riconoscerlo.

Tra inevitabili alti e bassi il movimento Fridays for future ha comunque confermato non solo la sua permanenza, ma anche la sua forza, che poggia, per ora, su due pilastri fondamentali. Innanzitutto è un movimento mondiale: a uno a uno, chi prima e chi dopo, tutti i governi dovranno cominciare a tenerne conto, con i fatti e non a parole. Poi si confronta con un peggioramento del clima di cui tutti – anche i negazionisti – sono ormai costretti a prendere atto e che con i suoi eventi estremi sempre più gravi e frequenti impedirà a tutti di metterlo nel dimenticatoio (o di continuare a sfotterlo, come fanno tutti coloro che si fanno un vanto della loro ignoranza e cattiva fede).

Il movimento continuerà con la moltiplicazione di azioni sparse, come l’occupazione della sede dell’Enel a Milano o a Napoli, che non fanno capo direttamente a Fridays for future, o quelle messe in atto da Extinction Rebellion, che sono indispensabili per tener alta l’attenzione sul tema. E crescerà mano a mano che, dopo Milano e Napoli, altri Comuni – e, si spera, Regioni – saranno spinti a dichiarare l’emergenza climatica: per ora solo a parole, ma legittimando con ciò le rivendicazioni sempre più radicali che il movimento presenterà loro.

Intanto, dopo il 24, e in vista del prossimo strike mondiale del 20 settembre, c’è l’urgenza dimettere a fuoco i prossimi impegni.

Il primo l’ha esplicitato Greta: il prossimo sciopero deve coinvolgere anche gli adulti, quelli che non sono studenti o studentesse. Non che finora siano mancati, ma sono arrivati in ordine sparso; sempre, peraltro, bene accetti. D’ora in poi bisogna lavorare perché “gli adulti” e soprattutto i lavoratori si convincano a partecipare in massa al movimento perché siamo tutti esposti allo stesso rischio mortale. E quindi occorre agire innanzitutto sulle famiglie – e sui condominii, sui Municipi e le associazioni di quartiere – degli studenti impegnati nel movimento. Poi sul personale di aziende, stabilimenti, enti – e non solo attraverso i sindacati, oggi riluttanti se non contrari a impegnarsi in questo campo, o pronti a farlo solo a parole – promuovendo volantinaggi, riunioni, assemblee, dibattiti sul tema, fuori e dentro i luoghi di lavoro e presentandosi in massa all’ingresso e all’uscita dal lavoro, come avevano fatto davanti alle fabbriche gli studenti di cinquant’anni fa.

Ma per farlo bisogna prima rafforzare sul piano organizzativo la presenza del movimento nelle scuole e nei dipartimenti, mettendo all’ordine del giorno, prima dell’inizio del prossimo anno scolastico, la revisione dei programmi, dei corsi di studio e degli orari scolastici per far posto ai temi dell’emergenza climatica e ambientale, unitamente alla richiesta di interventi per rendere ambientalmente sostenibili gli edifici in cui si impartisce l’istruzione…

In terzo luogo occorre mettere a punto, non nel chiuso di un’assemblea, per quanto affollata, ma nel confronto aperto con il corpo studentesco e con le associazioni e i comitati che si riescono a raggiungere, quali sono gli interventi più urgenti per tradurre in fatti le dichiarazioni di emergenza approvate: sia le cose da fare al più presto, sia quelle da bloccare subito. E qui casca l’asino. Perché convincere un’amministrazione che la strada che sta percorrendo è sbagliata e che occorre cambiare rotta è come chiedere ai suoi esponenti di cambiare mestiere…

Tutto concorre a far credere che, tutto sommato, ce la si può cavare con poco: un po’ più di raccolta differenziata, una dieta con meno carne, un po’ più di bicicletta, un po’ di pannelli solari sui tetti, qualche viaggio aereo in meno, il vetro al posto della plastica – tutte cose sacrosante – e la vita può continuare come prima…

Non è così. Bisogna sì partire dai problemi della vita quotidiana di tutti, però entrando nell’ottica che i cambiamenti a cui andremo incontro saranno radicali: sia se si lascia che le cose continuino per il verso attuale, sia se si cercherà di riprendere in mano il nostro destino, e quello di tutte le future generazioni. Insomma, comunque vada, niente, ma proprio niente, sarà più come prima. Occorre disporci e disporre chi incontriamo, a entrare in un mondo completamente diverso.

Questo articolo parla di:

archiviato sotto: