AMARCORD

di Corrado Fois - Liberacittadinanza - 04/12/2019
“Sento ovunque il suono della marcia , piedi pesanti , perché l'estate è qui ed è il tempo giusto per combattere per strada, ragazzo” ( Rolling Stones ) - “ eeeh sono ancora qua..e già! “ ( Vasco Rossi )

Sono i giorni della memoria. Cinquant’anni da piazza Fontana, quella prima strage politica che, con tutto il suo dirompente orrore, chiuse un tempo per aprire una nuova epoca.

Non voglio entrare nel fatto in sé , nella sua dinamica, nei mille angoli bui che contenne e contiene. E’ ormai consegnato alla storia Repubblicana ed altri, più autorevoli, ne parleranno compiutamente a tempo debito. Vorrei invece riflettere partendo dal mio angolo di visuale ed attraverso le esperienze personali e collettive vissute , guardare cosa e come ci cambiò quel preciso momento. Quanto modificò la percezione ed il modo di essere di un intero Paese, cresciuto nel mito della sua bontà (gli Italiani?  brava gente) che credeva di aver ormai trovato il benessere,  di essere lontano da ogni guerra. Che si credeva libero e talvolta anche felice.

Piazza Fontana non fu, come dicono molti,  solo la fine del ’68, inteso come movimento creativo e spontaneo,  o dell’autunno caldo, con i suoi espliciti conflitti di classe orientati dal Sindacato. Essa fu soprattutto l’inizio di un nuovo confronto, nazionale ed internazionale, che negli anni a seguire ed in un crescendo ininterrotto di eventi, segnò  l’esperienza di vita di una intera generazione. La mia.

Voglio ricordare quegli anni, che non furono solo cupezza e terrorismo, ma anche gioia e rivoluzione, illusione e crescita. Che cambiarono le nostre menti, forgiarono il carattere, aprirono le porte della coscienza. Anni in cui milioni di giovani Persone persero l’innocenza e diventarono adulti.

In un qualche modo di quella bomba tutti noi siamo figli.

Ora che l’urgenza dei temi e dei tempi che viviamo ci insegna che non possiamo più dimenticare, voglio rileggere quei momenti. Quanto abbiamo scelto e fatto, dopo il lungo decennio degli anni 70,  ci ha separato e tenuti lontano ed  anche se la vita ha risucchiato la nostra mente ed il nostro cuore disperdendoci nelle mille cose che ci parevano importanti, noi siamo dentro, ancora oggi,  quello che siamo stati un tempo fuori.

Ed è solo per chi c’era  e c’è ..siamo ancora qua eh già!..  che apro la scatola dei ricordi e li spargo  sul tappeto, come quando si guardano le vecchie fotografie tenute disordinatamente in un cassetto. E’ un modo per non dimenticare  che sento più mio. Un modo per rivivere fatti, persone, storie che non appartengono solo al mio particolare, ma sono , in fondo, frammenti di una storia epica da cui dobbiamo, devo, trarre una morale per guardare in avanti, verso il prossimo futuro che può non essere diverso. Chiedo scusa se qui e là scapperà fuori un po’ di spicciola retorica. Sono un mediterraneo, ci sta.

Prendo la prima foto. E’ della tarda primavera 1969.  Si intitola “ quando la cultura rende liberi”.

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Siamo in un’aula di tribunale per un processo che farà scalpore, nella nostra paciosa provincia.

Reduci da una giornata campale, manifestazione per il diritto allo studio e la libertà didattica,  alcuni compagni vengono arrestati. Grandi titoloni nel giornale della mia città. Polemiche tra le parti  politiche che dura più di qualche settimana. Infine il giorno del processo. Quando la giustizia vuol colpire, si sa, diventa rapida. Siamo qui dalle otto, presidiamo e presenziamo, con quell’emozione intensa che hanno i ragazzi quando capiscono di vivere un momento del tutto nuovo. Fino a tarda mattina il processo si stiracchia con testimonianze varie. Il giornalaio, il passante, il poliziotto. Il ritmo è blando, ma il rito è serio. La democrazia celebra la sua liturgia legale. Giudice annoiato, giovani avvocati in giacca di velluto difendono i congiurati con alchimie legali ben argomentate. Poi arriva il momento degli arrestati. Saranno interrogati e dovranno difendersi dall’accusa di manifestazione non autorizzata, adunata sediziosa ed altre diavolerie.

Prima tocca a Massimo. Bel tipo di proletario, petto in fuori , mani dietro la schiena, capello lungo e corvino. E’ del Partito Comunista d’Italia Marxista-Leninista linea nera ( risparmio il che diamine fosse, chi c’era in quegli anni se lo ricorda ). Vincenzo il siciliano,  che ho appena conosciuto è diventerà nel tempo il mio alter ego, sta affianco a me in fondo all’aula. Lo indica e mormora “ Minchia, sembra uno dei martiri di Belfiore” ( studi da liceo classico ). Per noi del Movimento i picidini , con i loro rituali e le  eterne spaccature, erano cosa aliena ( divisioni della sinistra,  storico vezzo ). Massimo alla seconda risposta ha già stressato il giudice con una supercazzola  in pieno stile leninista. La logica del potere capitalista, l’irrompere della protesta popolare, il confronto tra la giustizia di classe e quella proletaria. Roba che schianterebbe un bue. Viene liquidato frettolosamente. Ed è allora, ormai quasi all’una, che nell’aula affollata e calda, nel proscenio, davanti alla sacralità della Magistratura , arriva lui. Pierfranco.

Alto, faccia pallida e bella, capello lungo, sorriso smagliante.  Magro come uno spettro e vestito di nero sembra una liquirizia.  Pier incarna perfettamente quel tempo. E’ colto, ironico, creativo. Si confronta con il potere a modo suo, stando fuori da partiti e sette,  dentro il cuore più libero del Movimento giovanile. “Allora” gli domandano “ cosa faceva in piazza, come giustifica l’occupazione del piazzale del tribunale” (etc etc ) . Lui guarda il giudice e dopo un lungo istante di studiato silenzio snocciola con la sua bella voce impostata  la risposta. “ Studiavo teatro..la dinamica della folla” . Il giudice che ormai quasi dormiva si drizza e strabuzzando gli occhi lo squadra.  Pierfranco prosegue con ampi gesti e toni suadenti , parole scandite, sorriso ironico “ Il nuovo teatro si vive nelle strade e nelle manifestazioni come avrà visto si fa oggi in America.. lei ha presente il Living Theatre suppongo.. veda signor Giudice ..è  proprio lì, nelle piazze, che persone studiose come me comprendono i nuovi suoni, le nuove voci.. che sono indispensabili per creare emozione  nello spettacolo come ci insegna il teatro di Polonia … Jerzi Grotowskj ..lei conosce Grotowskj indubitabilmente” . Non si può spiegare la faccia di giudice ed avvocati né il proseguire dotto e strafottente del Pier che tiene banco e provoca uno sganasciamento collettivo di risate. Inutile dire che quella mattina finì in bubbola e tutti furono prosciolti e mandati a casa.  Anche così si confrontava il potere in quell’appendice del sessantotto. Con l’immaginazione, con la contraddizione.  Con lo scherno.

Pierfranco anni dopo fu davvero attore e regista, animatore culturale, creatore ed inventore del Tetro Studio. Assistente di Eugenio Barba all’ Odin Teatret danese, regista cinematografico ed autore di straordinari spettacoli che scossero la placida forma borghese del teatro contemporaneo.  Pierfranco Zappareddu è morto anni fa. Era un  esempio di quegli anni ancora illuminati.  Era un sognatore, era un artista. Era un amico.

Dietro quella foto, quasi incollata, quasi il suo rovescio, un’altra. E’ del gennaio 1970 e si chiama “la perdita dell’innocenza “.

Ettore, come me, ha 17 anni. Per mesi in tutte le varie assemblee del nostro Liceo si è presentato come rappresentate della FAI ( federazione anarchica italiana ). Intervenendo spesso, faceva costante riferimento ad una fantomatica questione francese di cui sapeva tutto e di cui, almeno per me, non c’era contezza.  Vestiva sempre un maglione nero e portava appeso al  collo, con un cordino di cuoio, un ciondolo rotondo in legno su cui spiccava una grande A rossa. Lo ritrovo in autobus, dopo quelle tristi e cupe giornate di Natale, alla ripresa della scuola. Ha sempre il maglione nero sotto il giubbotto, ma il ciondolo è sparito. Lo guardo , mi guarda. Non abbiamo niente da dirci. E’ così. Nessuno è lo stesso ora. Nessuno può sentirsi sicuro, e forse non lo sarà mai più. Se una bomba viene fatta esplodere, se un uomo può morire in un commissariato, se la polizia non ha lo stesso sguardo, tutto può accadere. Parlo spesso di quegli accadimenti con mio Padre che è stato partigiano in Piemonte, con mia Madre che è stata con lui in quegli anni di guerra civile. Mi dice  da subito “ gli Anarchici non c’entrano, non è cosa loro. Qui si deve guardare oltre e non sono cose semplici da capire, ci vorrà tempo”. Camilla Cederna, Mario Capanna, Giuliano Spazzali parlano apertamente di strage di stato  . Dario Fo scrive e recita Morte accidentale di un anarchico. La coscienza  di un’ epoca nuova si forma in noi ragazzi, mentre guardiamo il Paese in cui siamo cresciuti con occhi diversi e smarriti. Verranno anni difficili, lo sappiamo con certezza.

Pesco un’altra foto... Si intitola  “ Facoltà di Lettere “. 1971

Siamo schierati sulle scale che portano all’atrio della facoltà di lettere, il  covo dei rossi. Davanti a noi, sulle altre scale che scendono dal campus, ci sono un centinaio di fascisti armati di catene e bastoni.

Abbiamo appena avuto un primo scontro con loro. Ci hanno attaccati mentre arrivavamo. Quella pazza scatenata di mia sorella Barbara, allora un fuscello biondo tendente all’eleganza borghese , militante del PSI. Durante il match ha schiantato una di quelle mostruose collane pop anni 70, grandi come una catena di bici, sulla faccia di un fascio che si accaniva su Luigi, militante del PCI, mandato a terra da una pietrata in testa. Ma ora c’è un attimo di quiete. Cosa succederà, mi domando. Ho paura. Quella seria che secca la bocca e chiude lo stomaco, ma sono anche carico di rabbia. E poi sono vicino a Vincenzo, Maurizio, Sergio, siamo dello stesso collettivo. Poco più in là Stefano. Siamo cresciuti insieme, negli stessi cortili assolati e lungo le stesse scale. E’ il mio gruppo. Ci guarderemo le spalle.

Pietro, giovane assistente universitario, ha in mano il megafono. Dice solo una semplice frase “ Ora Compagni abbiamo due strade, o stiamo qui e facciamo la nostra assemblea davanti a questi fascisti, o andiamo su per le scale e gli rompiamo il culo”. Alla faccia dei grandi discorsi!  Si parte di corsa, tutti. E’ uno sfondamento fatto ad occhi chiusi e stomaco serrato, senza confronto con le botte tra bande rivali che sono nella memoria della nostra infanzia . Siamo uguali di numero, ma noi siamo davvero incazzati. Botte da competizione . I fascisti un po’ resistono , ma poi crollano. Non ci può fermare nessuno . Sento le forze moltiplicarsi, non so come. E’ l’adrenalina. Vedo Alberto con in mano una tavola di legno inseguire un tipo mai visto ( sapremo poi che molti erano sottoproletari assoldati e senza motivazione ) Stefano sta afferrando per i capelli un altro e lo scaraventa giù dalle scale. Passiamo e colpiamo duro, prendiamo sassate. E’ finita in pochi minuti. Fuggono fuori dai cancelli del campus. Un urlo comune ci esce dalle gole. Non è uno slogan, non ha parole. E’ solo un grido di gioia, come allo stadio quando segna Riva. Ci sarà poi una grande manifestazione, bandiere , canzoni. Vincenzo si accende un toscanello e mi guarda sornione. “ Meglio non farci l’abitudine, una volta o l’altre le prendiamo noi” ma  ho troppa adrenalina per dargli retta. Scende la sera con un tramonto rosso fuoco mentre attraversiamo la città.

Tra i fascisti c’era Tani. L’ho visto e mi ha visto. Da bambini giocavamo insieme nel giardino della sua casa al mare, i nostri genitori erano amici, ci sentivamo indivisibili. C’è un solco ora tra noi. C’è un muro nuovo che nessuno butterà più a terra. Non sarà sorprendente incontrarlo a Roma molti anni dopo, ingrassato parlamentare di Forza Italia. E’ nel Consiglio di Amministrazione della Banca dove io sono Direttore Centrale. Saremo sempre assai cortesi. Così è la vita.

E sempre sui fascisti, ma in altro modo , questa istantanea che si chiama “ vie di fuga “.

Siamo nel 1972,  marzo, piena campagna elettorale. In un teatro della mia città arriva Giorgio Almirante. Bisogna ricordare che il nostro a quel tempo non godeva di grande popolarità e quindi si circondava prudentemente di un servizio d’ordine  serio e ben addestrato.

Infatti davanti all’ingresso, schierato a cordone, il servizio presidia. Dall’altra parte della strada il nostro folto picchetto antifascista milita. Ci guardiamo in cagnesco, lanciamo insulti di qui e di là dai marciapiedi, ma non succede nulla. E’ una di quelle giornate di scirocco che ti rifila il Mediterraneo, cielo limpido, aria umida e  calda ed è quasi ora di pranzo. Commentiamo tra noi il da farsi mentre  valutiamo i fascisti per capire quanto pesano. “ Proprio belli e decorativi” mi dice Sergio. Sghignazza.  In effetti sono ammirevoli. Vestiti di nero, anfibi a caviglia, caschi  in testa. Monocromatici ma eleganti. Noi invece sembriamo un gruppo di scappati di casa. Ma neanche i nibelunghi sono molto combattivi. Molti vengono da Milano o dal Veneto e non sono abituati al caldo di fine inverno. Coperti di lana, coi giubbotti di pelle sudano come orsi. Qualcuno si leva il casco. Parlottano e fumano. Anche a noi abbiamo caldo, fumiamo e sudiamo. C’è nell’aria un bell’odore misto di Gauloises blu e di ascella pezzata. Ogni tanto qualcuno grida. “ Fascisti carogne, tornate nelle fogne “. Truce , ma icastico. E loro scandiscono “ Europa , Fascismo, Rivoluzione”.  Insomma si andrebbe avanti così , ognuno fa la sua parte e passi. Ma il Questore non è d’accordo. Manda un reparto della Celere proprio quando tutto sta finendo, con chiari intenti. Lo sappiamo che i ragazzi in divisa non lo fanno per amore, lo fanno per mestiere. Quindi obbedendo agli ordini caricano senza esitazioni.

Ora: chi si aspetta che la Celere faccia i fatidici tre squilli e che il capo, in fascia tricolore, dichiari al megafono prima di caricare “ Disperdetevi od interverremo “ è meglio che non vada a manifestare.  Tre secondi dopo lo schieramento che chiude la via si sente “PumPuff” il suono dei lacrimogeni. Una folta nuvola ci avviluppa e nello smog si sente l’urlo dei poliziotti in carica che battono i manganelli sugli scudoni di plexiglas. Presi in contropiede, mentalmente non pronti, ci squagliamo senza consulto  e velocissimi in pieno stile Speedy Gonzales ce la diamo alla viva il parroco. Non solo noi. Nel fumo intossicante mi trovo affiancato da un nibelungo che, casco in mano, se la fila a tutta velocità modello Mennea. Mi guarda e dice in perfetto romanesco “ Ahò ’ndo posso annà ??” gli rispondo col fiatone , “prendi quella strada .. corri per di là e vai verso il porto, non andare dritto finisci in via Dante e sei chiuso”. Si dilegua per la traversa pistonando sulle gambe. Qualche volta era così, quando ci ricordavamo di essere tutti ragazzi . Non era sempre sangue. Chi dice il contrario non c’era.

Foto di gruppo, si intitola , a proposito “ a quel tempo andavo dappertutto e ..chi c’era, c’era!”

A Milano li ho conosciuti. Gino Liverani, Michelangelo Spada. I Katanga. Lo spezzone militare del Movimento Studentesco. Siamo davanti a Strippoli, nella piazzetta vicina alla Statale, quasi via Larga. Guardo la doppia fila di pezzi da novanta. Io sono alto, ma quei ragazzi sono armadi a due ante! Caschi gialli da minatore e manici di piccone con in cima, appena attaccate, piccole bandiere rosse.  Cantano a piena voce “ tanti hanno paura e scappan via, rimangono a combattere i Katanga “.  Sono pieni di orgoglio e di passione. Malcapitato chi li deve affrontare.

Siamo al presidio antifascista. C’è Mario Capanna, poco più in la mi pare di vedere un magrissimo capelluto. Credo sia Jacopo Fo, il figlio di Dario. Collettivo Gramsci mi pare, vado a memoria. Vicino al parcheggio multipiano  ci sono loro. I fasci. Sandro, un superstalinista figlio di operai, mi indica uno grosso, ricciolino e panciuto. “ Guardalo , sardegnolo, quello è una bestia…è pericoloso “.  Vedrò proprio  lui, il  ricciolino-bestia, correre come un leprotto di li a poco. Davanti al gruppo passeggia nervosamente un ragazzo piccolo e magro . Porta stivali alti, maglione militare. Ha i capelli lunghi. E’ uno dei leader dei giovani missini, si chiama Ignazio Larussa. Coraggioso, eretico, sarcastico.

Siamo alla Palazzina Liberty, occupata. Una sbiadita casona grigio bianca in un parco. Vedo Franca Rame. Com’è bella. Bionda ha i capelli raccolti ed un viso perfetto. Vivrà di li a poco un’esperienza atroce che angoscerà tutta Milano. Non ne voglio parlare ora che Franca è andata. Vicino a lei Piero Sciotto siciliano, maoista di Servire il Popolo e musicista.  Dario in sala recita in ginocchio il Fanfani Rapito  e ti uccide di risate. Li rivedrò nella mia città per la rappresentazione di Mistero Buffo alla Facoltà di lettere. Ci abbracceremo. Qualche volta c’è Franco Trincale il Cantastorie col suo barbone che recita il socialismo in siciliano. Altre volte c’è un giovane bolognese sulla sedia a rotelle, viso bellissimo torace largo, gambe piccole . Cuore e testa.  E’ della Lega del Vento Rosso , si chiama Pierangelo Bertoli. Anche lui è andato, ma non da necrologio, è andato a muso duro ed il suo vento soffia ancora.

Siamo a Rimini per il secondo convegno nazionale di Lotta Continua. Il movimento ha un suo quotidiano bellissimo e sempre originale. Lo ha diretto Pio Baldelli , ma anche Giampiero Mughini. LC è fatta così , è una cosa nuova e sofisticata, talvolta sgangherata. Quel movimento ha dentro di tutto dai sottoproletari agli intellettuali più raffinati. Dai trotkisti ex PSIUP ai filo anarchici, ai movimentisti. LC ha un servizio d’ordine militante, lo coordina Erri De Luca. E’ un uomo cosmopolita, sottile e leggero, ma coraggioso e determinato. Adriano Sofri è luminoso. Lo ammiro. Contiene in sé  tutte le contraddizioni di quegli anni. Lucido , qualche volta gelido, sottile politico e serenamente  umano. Onesto. Che uno come lui c’entri qualcosa con l’omicidio di Calabresi è credibile come Babbo Natale e le sue renne. Parla con un italiano fluido ed avvincente ed anche se piccolo sa riempire la scena. In piedi con in mano il microfono scandisce quella che sarà la fine del movimento. Qualcuno piange. Abbiamo appena preso una batosta alle elezioni. Il progetto unitario è morto. Mi dicono che  Erri lascerà . Lo faranno in molti. Lo farò anche io, nel mio piccolo coloniale.

Siamo a Roma in piazza. Il tappo è saltato. Forattini disegna una bottiglia di champagne che spara Fanfani nel cielo. Abbiamo vinto il referendum che non è solo sul divorzio, ma rappresenta il progetto di un’Italia nuova e più laica. C’è la piccola Emma Bonino che corre qui e là in tutti i capannelli di gente a piazza Navona. C’è Marcella De Liberis e suo marito Pasquale Chessa dell’Espresso. Chiacchieriamo. Vincenzo mi tira di lato “ Andiamo da Marco “ . Pannella magro e bello come una statua fuma le sue senza filtro . Vicino a lui Massimo Bordin, un’altra ciminiera. Io lavoro per la Rai e discutiamo un progetto che si potrebbe fare insieme esplorando tutte le identità sociali in giro per l’Italia, utilizzando le sedi locali dell’emittente di Stato appena riformata. Siamo entusiasti. Marco stira quel suo eterno sorriso nervoso e ci dice “ Cazzoni l’ha già fatto Mario Soldati, si vede che siete giovani! “. Rimango ammutolito non se ne farà niente. Marco è così, quello che non è suo non è. Ma tutti ancora oggi gli dobbiamo molto. 

Questa foto è personale, si chiama “ Emanuela “ ed è datata 1974,  mi ricorda come ho capito tutti i limiti dell’essere maschio.

Il Padre di Emanuela era uno psichiatra e questo già doveva insospettirmi. Allora  ventenne era convintamente e concretamente femminista. Lo capii perché ad una mia avance modello Weinstein rispose con un pugno nello stomaco. Piegato in due le domandai “ non era meglio una sberla?” . Ci mettemmo insieme, come si diceva allora. Si narra che tutte le coppie abbiano una loro canzone, magari romantica e straccia mutande  tipo Baglioni. Quella preferita da Manu era “Manhole” di Grace Slick.  Anche questo doveva insospettirmi. Ma io ero tanto cotto, e lei era tanto bella! Così anche se  avrei preferito di gran lunga spendere soldi per i Led Zeppelin ( che lei trovava maschilisti per via di una certa canzone ) le comprai il 33 giri.  Facemmo un viaggio a Roma, per una manifestazione pro divorzio, volevo prendere le poltrone ( allora s’andava via mare ) mi disse di no, si dorme con gli altri sulla coperta, dentro o sul ponte. Era aprile, ma faceva un freddo becco. Presi un raffreddore da competizione, lei non fece una piega. Le donne sono veramente bioniche. Accettai più o meno tutto da Manu, anche di aumentare le docce ( in quei tempi non c’era un largo consumo di bagnoschiuma tra i maschi militanti ) ma quando mi portò in un gruppo di autocoscienza, e beh! allora crollai. Fui sottoposto ad una sorta di processo, senza scherzi! Io che non accettavo giudizi o diktat da parte di nessuno mi alzai  e, come avevo letto fece Bogart davanti al  tribunale maccartista, dichiarai sdegnato “ non riconosco a questa commissione il diritto di farmi domande “. Era una vita che sognavo di dirlo! Così tutto finì tra noi.  Lei si è poi felicemente sposata, madre di tre figli  ora fa pure la nonna. Ci siamo rivisti per caso, tempo fa. E’ sempre bellissima, forse più bella con le rughe ed i capelli corti e grigi. Abbiamo parlato con un po’ di nostalgia di come eravamo duri e puri, di come era bello quel sogno rivoluzionario,  guardando a quei noi due del passato con grande tenerezza. Ne abbiamo anche riso. Ma lei , avvocato come suo marito, difende ancora tenacemente i diritti delle donne e se è vero che cura i nipotini,  non ha mollato neanche un istante la più giusta delle battaglie,  a dispetto della sua età e di un cancro battuto. Come dicevo? Le donne sono bioniche.

Sul tappeto c’è una foto che fa male, si chiama “Maurizio” . Non ha una data perché resta aperta ed irrisolta nel mio cuore, insieme alla domanda “potevo fare qualcosa? “.

Era un fratello, era il mio opposto. Figlio di un ferroviere comunista, incarnava il senso rivoluzionario con una naturalezza ed una profondità che io  borghese non avevo. Militava in un partito chiesa , Unione Dei Comunisti Italiani , Servire il Popolo. Mi ci portò. Eravamo compagni di scuola. Ci restai tre mesi, fin quando mi dissero che un vero proletario non porta i capelli lunghi e non si fa le canne. Risposi che se avessi voluto fare il boy scout sarei andato in parrocchia e li mandai a educatamente a cagare. Ma con Maurizio restammo amici. Venne a casa e mi disse serio sgranando i suoi occhi chiari ( sua madre era del nord ) “ sei contro la linea del Partito, ma ti voglio bene “. Era così in quegli anni, il settarismo si superava tra amici. Dividevamo tutto. Classe al liceo, militanza politica, passioni.  Praticamente viveva a casa mia. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia laica e tollerante, i miei genitori lo guardavano con simpatia e mia sorella era anche la sua sorella maggiore. Nonostante il rigorismo stalinista di quei suoi vent’anni, da ragazzino  Maurizio era stato un maestro del cazzeggio. In aula al ginnasio ( allora erano piene, noi eravamo 35! ) io e lui rubammo la sedia ad un compagno , Mocci l’unico baffuto della classe, che era alla cattedra per una orrenda figura in greco ( chi diamine si ricordava mai l’aoristo?! ). Tornato al posto rimase in piedi, mani in tasca ed in silenzio con la sua flemma inglese. Gli chiesero “ Che fa, perché non si siede?” ( allora al ginnasio ci si dava del lei..quel fatto è datato  1967 ) “ Non posso mi hanno rubato la sedia Professore” rispose. Fu sospeso, ma non fece la spia.  Gli offrimmo una birra e cantammo insieme Penny Lane facendo anche il controcanto. Qualche anno dopo occupammo il liceo. Maurizio era uno dei leader di quell’occupazione, carico, convinto, rigoroso. Non dormì per giorni. Insieme a tanti amici del nostro collettivo rintuzzammo un attacco fascista.  Era uno che ti dava fiducia negli scontri perché era cresciuto nei quartieri proletari e si batteva duro. Ci perdemmo di vista all’Università, che lui mollò. Quando lo ritrovai era un’altra persona. Lui come altri , come Patrizia, Roberto, Antonio. Tanti. Cosa li portò a mettersi quella merda nelle vene? Ognuno aveva i suoi intimi perché. Era il sogno spezzato od era un buco nel cuore così grande che nemmeno quel sogno poteva colmare. Ma  non erano solo fatti personali. Quella roba viaggiava troppo rapida e senza ostacoli.  Lo spruzzo fu un anti incendio, quasi autorizzato. Una generazione  venne intossicata.  Jacopo Fo. Il figlio di Paolo Villaggio. Eugenio Finardi e migliaia di nomi sconosciuti.  Morirono in molti. Un ecatombe di cui qualcuno un giorno dovrà rispondere, perché mai crederò che una cosa così arrivi e germogli  da sola, contemporaneamente dappertutto. Non in quegli anni, non con quelle poste in gioco. Io ne fui immune, ma non perché fossi più intelligente o più ideologico. Ho sempre avuto paura delle iniezioni. Maurizio è morto tre anni fa, dopo vent’anni di eroina e venti di AIDS.  L’ho rivisto pochi giorni prima che andasse e quello che sto per dire, che sembra un film, è invece vita vissuta. Mia sorella Barbara era la. Eravamo insieme ad un convegno che ricordava mio Padre. Centinaia di persone. Scendo dal palco, abbraccio qualcuno, stringo mani. Mi ferma un uomo piccolo, minuto e grigio. “ Non mi riconosci? “ “ No scusa ..” “ Sono Maurizio”.  Incredulo lo abbraccio, lo bacio. Lo sento così sottile, così evanescente, come una foto che sbiadisce. Sono sopraffatto, non so che dire. Il silenzio è troppo profondo. Sparisce nella folla. Incontrerà uscendo mia nipote Marzia “ Di a tua madre che le ho voluto bene”.  Lo voglio ricordare com’è  nella mia memoria, biondo e dritto, in piedi fuori dal portone di scuola con in mano quella bandiera rossa che è stata il colore della sua vita, quando era vita. Amico mio.

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C’è una foto che mi piace riguardare. Si chiama “ radio Alter”. Sta tra il 75 ed il 76.

“Amo la radio/ perché arriva dalla gente / entra nelle case e ti parla direttamente..” Eugenio Finardi la cantava in tutte le stazioni.  Di giorno lavoravo per la Rai. Sulla scia della riforma aveva aperto le porte a “Noi Gggiovani” ( come scandiva Moretti in “Sogni d’oro” ) ed ero stato scelto. Bontà loro perché guadagnavo bene mentre studiavo, mi facevo conoscere e cuccavo. La notte invece stavo a Radio Alter, l’emittente movimentista della mia città. L’avevano fondata Elvio, Sergio, Giovanni detto Edison.

Ecco sono di nuovo li, tra libri impilati e poster incollati alle pareti. Faccio quei bei notturni, microfono aperto e chiacchiere filosofiche che mi fanno sentire tanto maturo.  Passo la musica di quei giorni. Soft Machine, Tom Waits, Cat Stevens. Bob Marley. Dopo qualche mese organizziamo una grande festa al Palasport. Migliaia di persone. Mi spediscono  sul palco e coordino . L’unità , sfottendo  mi citerà come “il disinvolto presentatore dalle battute idiote” solo perché dico, con in mano un quaderno “ Compagni è stata smarrita un’agenda..vediamo di chi è..Enrico Berlinguer..aspè che la sfoglio ..A..Andreotti giovedì a cena..B ..Benigno Zaccagnini , telefonare …C...Compromesso.. prima o poi” . Era idiota in effetti, a ripensarci. Ma quest’è. Salirono sul palco e suonarono molti gruppi di giovani della città, eravamo a porte aperte. Rock a manetta. Mi ricordo che anche Massimo, Paolo e io suonavamo insieme. Mai visto nessuno bravo al basso come Max, oggi fa il bibliotecario.

Le radio libere della sinistra erano una fucina di idee creative, di lunghi dibattiti a microfoni aperti . Femministe, proletari in divisa, radio carcere ma anche psicologia, sessuologia  e come usare bene gli  anticoncezionali. Altre radio erano miniere di nuovi talenti. A Bologna Vasco Rossi si faceva le ossa come dj. C’erano a Milano e Roma giovani che poi avrebbero preso in mano le future reti Fininvest facendole arricchire.  Ma soprattutto e tutte, qualunque cosa facessero, qualunque cosa fossero, garantivano uno spazio di libertà imprevedibile.  Una notte, qualche anno dopo accadde una cose che nessuno poteva nemmeno immaginare.

Sono a Milano a specializzarmi ( “in minchiologia applicata “ commenterà Vincenzo ). Stiamo stravaccati sui vecchi divani a casa di Miriam, si fuma e si chiacchiera. Vogliamo andare a Lisbona appena liberata, fare un viaggio antifascista nella nuova Spagna, nel Portogallo. Lo faremo in tanti quell’estate,  ancora in tempo per vedere sul lungo mare l’esercito che sfila coi garofani nelle canne dei fucili, come nei giorni della liberazione. Ma intanto siamo lì , seduti ed increduli . E’ Radio Popolare. Quell’indimenticabile notte comincia con una frase semplice, suona così: “ Senti … sono un fascista, vorrei parlare”. Un istante di silenzio poi il conduttore risponde “ti ascolto..”. Oggi sembra nulla, ma in quegli anni era tutto! Erano morti dei missini a Roma, quel ragazzo solo nella notte, pieno di dolore, voleva condividere. Si parlò di violenza, di uso strumentale della rivalità politica da parte del vero potere, ci si graffiò a parole, ma ci furono momenti toccanti “ Io non ti odio..non ti odio.” Ci furono molte telefonate ed  un sipario scuro, che divideva una generazione di ragazzi,  per un attimo si squarciò. Nei giorni seguenti, in onda si sollevò un grande dibattito : si devono lasciar parlare i fascisti?  Intenso e lacerante apriva uno spazio imprevisto nelle nostre menti fino a quel momento chiuse dietro muri di odio. Rividi le battaglie dei Pupi. Il prode Orlando ed il feroce Saladino. Eravamo  marionette? Chi muove i fili ? Perché non siamo tutti insieme, contro? Si aprivano varchi nei nostri sentimenti. Ma quasi ad orologeria ecco altri morti nelle strade. Claudio, Fausto e Jajo. Si chiuse uno spiraglio che forse poteva fare luce nella notte della Repubblica. Le bombe intanto scoppiavano, le Brigate Rosse uccidevano a Genova e Milano, il terrorismo nero usciva allo scoperto.  Si sparava per strada .Era quella la nostra quotidianità. Andando ad una manifestazione Sergio mi disse per telefono “.. se torniamo vivi andiamo a farci una pizza “. Scherzava. Esorcizzava.

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Un momento di  vera cultura in questa foto bianco e nero, si chiama “ quando canta Gaber”  ed è del 1976.

“ Si può/..fare i giovani a 60 anni…si può/ regalare i blues jeans ai nonni “ . Gaber dinoccolato, Gaber allampanato. Buffo e arcigno, bellissimo e bruttissimo si muove sul palco con le braccia da airone che svolazzano incessantemente. Ognuno ha bisogno di miti ed io nel cuore ne ho tanti : Trotskj,  Lelio Basso, Riccardo Lombardi, Adriano Sofri ..un bell’altarino contraddittorio!..ma nella testa in quei giorni ho Giorgio. Mi  ha detto  Miriam “ Vai a vederlo..resta ancora solo pochi giorni ..guarda che  ci prende in pieno “ . Lo dico a Vincenzo che un po’ mugugna , ma poi accetta. Lo spettacolo , Libertà Obbligatoria, è davvero bello.  Mi fa incazzare , mi fa pensare. E’ come uno di casa, per me. Più di Dario Fo, anche più di Keith Richards. A sentire Le Elezioni  si ride tutti. La solitudine , bellissimo pezzo, stringe la gola. Libertà Obbligatoria fa ridere e ti vedi in uno specchio deformato, come al luna park.

Ma è quando propone i Reduci che restiamo tutti basiti. Piegato su se stesso canta, mentre viene avanti verso di noi ..”E allora è venuta la voglia di rompere tutto /le nostre famiglie, gli armadi, le chiese, i notai / i banchi di scuola, i parenti, le "centoventotto" / trasformare in coraggio la rabbia che è dentro di noi.E tutto che saltava in aria /e c'era come un senso di vittoria , come se tenesse conto del coraggio la storia.”Nessuno l’ha detto così, semplice e diretto , vissuto . Nessuno l’ha detto così chiaro, fuori da ogni complicità. Lo ascolto e lo sento . Stringo il braccio a Vince “ Cazzo era così “  Giorgio va avanti e sembra ripercorrere la mia vita in quei tempi “  E allora è venuto il momento dei lunghi discorsi /ripartire da zero e occuparsi un momento di noi /affrontare la crisi, parlare, parlare e sfogarsi / e guardarsi di dentro per sapere chi sei.E c'era l'orgoglio di capiree poi la certezza di una svoltacome se capir la crisi voglia direche la crisi è risolta…E allora ti torna la voglia di fare un'azione /ma ti sfugge di mano e si invischia ogni gesto che fai / ..la sola certezza che resta è la tua confusione,/ il vantaggio di avere coscienza di quello che sei..ma il fatto di avere la coscienzache sei nella merda più totaleè l'unica sostanziale differenzada un borghese normale….E allora ci siamo sentiti insicuri e stravolti /come reduci laceri e stanchi, come inutili eroi /,con le bende perdute per strada e le fasce sui volti / ..già a vent'anni siam qui a raccontare ai nipoti che noi ..noi buttavamo tutto in ariae c'era un senso di vittoriacome se tenesse conto del coraggiola storia.”

Quando finisce c’è un istante di silenzio, nel teatro. Un tempo sospeso, che sembra infinito mentre lui ci guarda e capisce che ci ha centrato. Siamo attraversati da quel suo dolore, dal disincanto. Poi parte un lungo applauso, affettuoso, che diventa via via possente , amico, corale . Usciamo. Io ho un groppo alla gola  “  Mi ci sono visto ..e tu “  ma Vincenzo si gratta la testa e si ferma. “ Sentiii un pò..ma quanti anni ha Gaber?.. “ domanda accendendosi uno di quei suoi sigari puzzolenti. Sono perplesso “ Perché ?  Che c’entra?? Non lo so Vince..quaranta? “  fa un sospiro, poi  si gratta tra le gambe e mi dice con un mezzo sorriso “  Corrà ..allora che faccia pure il reduce..noi ancora no “ . 

Maledetto Vincenzo, mai che ci si possa commuovere.

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Una foto di battaglia. Si intitola “Bologna 1977 “

 

Io arrivo da Milano, dove aspetto di cominciare il lavoro per cui sono stato selezionato. Siamo in quel tempo quieto, in quei giorni che precedono l’insurrezione di Bologna.

Non sono andato lì  per fare politica , ma per trovare un amico, Piero che lavora per una compagnia aerea l’ Itavia ( quella di Ustica, si ) recentemente sposato.  Dovevo rimanere solo un paio di giorni, mi fermo quasi due settimane. Sto a casa sua, una di quelle vecchie, col corridoio lungo su cui si affacciano tante porte di stanze piccole, con un bagno solo, in fondo. Quelle case tipiche del centro. Dal viaggio di nozze ai Caraibi Piero ha portato un vaso pieno di ganja . Si attinge, come dire?,  liberamente,  tutti noi ospiti. Gente mai vista che incontro a cena o dopocena, che viene in visita o dorme lì.  Porte aperte in quelle nostre case. Ricordo uno riccioluto e misterioso ( Moreno, mi pare ) che  seduto affianco a me, nel tavolone grezzo in cucina, ingolla in silenzio le orrende pappe macrobiotiche cucinate dalla moglie di Piero, Emy. Mesto trend alimentare del momento, altro che i colorati cibi vegani di oggi. Una roba color topo che mangi senza masticare, tanto è colla!, e va giù, giù diretta, senza nemmeno una curva. Dal produttore al consumatore. Dopo un paio di cene non lo vedo comparire. “Si è suicidato dopo la seconda zuppa? “ domando a Piero. Immerso in una nuvola di fumo risponde serafico “ No..è ricercato..dorme un po’ qui un po’ là dai compagni”.  Così andava a quel tempo. Non faccio domande oziose ed esco a mangiare un panino alla salsiccia dal Pino, che ha l’ape Piaggio in fondo a via Zamboni e sfama gli studenti. 1000 lire, paninone e bicchiere di lambrusco al metanolo che ti asfalta l’intestino.  Qualche sera si va all’Osteria delle Dame a sentire musica  spontanea. C’è un palchetto, una batteria ed un  pianoforte. Una sera un ragazzo , credo americano, va al piano ed attacca un “ Per Elisa” da piccolo conservatorio. Giusto le prima battute perché al terzo passaggio tira la mano lungo tutta la tastiera ed attacca a martello  Jumping Jack Flash . Tutti in piedi e si grida e si canta.  Qualche volta ci trovi Guccini, magari pure Vecchioni di passaggio, oppure Claudio Lolli ( “ho visto anche degli zingari felici in piazza Maggiore..” ) . C’è Rosalino Cellamare ( non ancora Ron ) con Lucio Dalla, che allora scrive musica con i testi di Roberto Roversi, e che pochi, fuori porta San Vitale, conoscono. Ci trovi Sergio Degli Esposti ( fratello di Piera, oggi produttore di Montalbano ) che parla con tutti di cinema. C’è Bonvi che disegna Stumptruppen e fa le dediche sui tovaglioli di carta.  E poi c’è un tipo strano che suona la fisarmonica, ma conosce solo Bandiera rossa e Romagna mia. Nessuno di loro se la tira , nessuno fa il figo del bigoncio. Si chiacchiera seduti insieme ai lunghi tavoli  nelle sale di sotto. Fumo da tagliare a fette, salame, cotechino, zuppe e tanto vino.

E’ una mattina che esplode tutto. Una mattina di Marzo. C’è in programma una specie di congresso all’Università,  credo dei ciellini ( Comunione e Liberazione ). Un gruppo di Autonomia Operaia, va a trovarli  e fa un po’ di dissuasione, ma senza esagerare.  Il rettore si agita, chiama la polizia. Arriva la Celere. E di botto come dal nulla, il caos. Partono gli scontri. Radio Alice ne informa in diretta “ Sono le 11 siamo qui.. sappiamo che si sono dei compagni che le prendono male.. “. 

Arrivano centinaia di ragazzi da tutte le parti della Città.  Il caos dilaga . In una via del centro la polizia spara coi fucili a pompa dice la radio. E’ vero. Vengono sparati decine di colpi. Un gruppo di Autonomi allora attacca una colonna di carabinieri che viene su da una delle vie dritte di Bologna, forse via Irnerio, non ricordo.  Lanci di molotov.  Quando arriviamo nella zona, richiamati dai continui messaggi sui combattimenti che dà Radio Alice mi trovo in una bolgia infernale. Fumo degli incendi, nebbia dei lacrimogeni. Nei vapori giallastri urticanti, in fondo alla via vedo i lampi delle molotov accendere il grigiore , come le fiamme alte di una raffineria.  Si spara, almeno così sembra di sentire nella babele di urla, scoppi, sirene. Dappertutto ragazzi, in divisa e non.

Più tardi  sono in piazza Maggiore quando scopriamo che hanno ucciso Francesco Lorusso , un giovane studente di Lotta Continua. Ed allora che il caos diventa  un tifone. Da tutti i circoli operai delle periferie, da tutti i gruppi rionali, dalle comuni, dalle scuole arrivano ragazze e ragazzi sconvolti rabbiosi scatenati. Davanti all’Università si forma un corteo inaspettato. Vedo insieme Stella Rossa ed Avanguardia Operaia , gli Autonomi ed i militanti di base del PCI, Lotta Continua ed i collettivi femminili. Rivali e nemici della stessa area politica sono in piazza insieme . Migliaia.

Viene occupata la stazione , Piazza Maggiore è un presidio unico, i portici sono immersi nella nebbia dei lacrimogeni. La città adesso è in mano ai movimenti. La rabbia ed il dolore sono dappertutto. Radio Alice detta informazioni, la si sente con le radioline ..”in via Reno ci sono decine di poliziotti..girate a largo”. Tutto è  in subbuglio. Arrivano da Modena, arrivano da Reggio. Sembra che il mondo crolli.

Davanti al crescere degli scontri Cossiga ordina l’invio dei blindati. Qualcuno ha mai visto i carri armati avanzare in città? Io li ho visti venire su da Piazza della Montagnola, lungo Corso Indipendenza. Fanno paura, almeno a me. Ma soprattutto senti lo sconcerto. Non ti immagini nella Repubblica Italiana di vedere l’Esercito contro il Popolo. Non lo credi possibile. Ed invece sono li nel fumo, come grossi scarafaggi verde scuro. Avanzano con un rumore assordante.

Un vecchio del PCI piange vicino a dei ragazzi armati di bastoni. “Zangheri come puoi..come puoi” . Impreca contro il sindaco di Bologna, comunista, ma lui non c’entra. Non li ha chiamati lui.  I ragazzi  vanno in silenzio contro il cordone di polizia. Non corrono, non urlano hanno i bastoni sulle spalle, le catene in mano trascinate sul selciato, qualcuno ha un’ ascia antincendio. Nel fumo sembrano una massa di fantasmi. Non cancellerò mai  l’immagine di quei ragazzi che avanzano a passo lento. E’ il Collettivo Autonomo del Pilastro. Figli di proletari , immigrati. Ragazzi siciliani calabresi campani. Non hanno un briciolo di paura. Qualcuno di loro ride. 

Dappertutto ci si batte. Saccheggiano il Cantuzen un ricco ristorante del centro . I prosciutti volano tra la gente, il vino scorre a fiumi. Si ride e ci si bacia. Un grosso bolognese beve a garganella del cognac.  Per un momento sembra una festa di paese. Ma si urla, adesso. Arrivano dei gipponi  dei Carabinieri viaggiano a tutta velocità, per non restarci sotto si corre sotto i portici. 

Andrà avanti per giorni. Radio Alice racconta in diretta la sua chiusura . “ Ecco entrano , stanno buttando giù la porta “ una ragazza urla , si sentono voci concitate. Le ascolto seduto in via dell’Inferno, con alcune ragazze. Ascoltiamo increduli. Sembra di essere in un film, in una storia di golpe.  Sappiamo che anche Roma insorge. La notizia arriva  in un fulmine passata da Radio Onda Rossa e riaccende gli scontri. Scoppia la rivoluzione? Qualcuno ne è convinto.

Sembrava non dovesse finire mai. Sembrava davvero la rivoluzione. Sembrava che tutto crollasse. Finì. Il PCI serrò le fila, convocò una manifestazione da tutta l’Emilia. Operai, contadini. Centinaia di migliaia. Nessuno dei ragazzi di Bologna se la sentì di scontrarsi con la classe operaia. Neanche i più duri. Nel comizio in piazza davanti agli operai, il 16 marzo c’erano tutti, anche la DC. Ma non c’era il fratello di Francesco Lorusso . Non lo lasciarono nemmeno salire sul palco.

 

L’ultima, si chiama “finale di partita” Maggio 1978

 

Il corpo è lì. Nel cofano di una Renault. In una posizione raccolta, quasi fetale. Morto come se dovesse ancora nascere. Lo vedo in televisione, sono a Milano. Non ho niente da dire. Ci guardiamo.  E’ per tutti noi ragazzi del 69, ormai uomini , il segno di un tempo che ormai non ci appartiene più. Il terrore ha vinto. Lo sconcerto è entrato nel nostro cuore. Lo ritroveremo una mattina di Agosto, due anni dopo, guardando la stazione di Bologna. E’ il nostro finale.  Ma non è la nostra partita. Sono entrati da tutti i Paesi nel nostro Paese. Lo scontro tra Urss e Usa si gioca nelle strade del mondo e noi siamo un ponte troppo importante per poter essere davvero liberi.  Liberi anche di sbagliare. Le marionette  raccontano storie che nessuno vuole chiarire, approfondire . Come entrano 100 colpi di mitra in una sola auto, rimbalzando  sul metallo in ogni direzione , come vespe impazzite. Uccidono tutti e nemmeno feriscono il Rapito?  Domanda senza risposta. E ancora : chi vuole ottanta morti in una Stazione? A cosa serve questo orrendo sacrificio. Nessuno lo sa. Non sappiamo ancora nulla nemmeno di quella strage antica, di quella bomba esplosa in un dicembre nebbioso, dieci anni prima.

Una bomba  che ci ha proiettato tutti in un mondo che nessuno di noi voleva.  E che invece abbiamo vissuto, diamine,  crescendoci dentro. In quei dieci eterni anni ci siamo smarriti, talvolta, ma anche trovati.  In quel tempo lungo come una vita abbiamo amato qualcuno ed abbiamo creduto in qualcosa. Profondamente.  Quel mondo inatteso e quel tempo infinito ci hanno rivelato i nostri limiti di esseri umani frangibili e ci hanno permesso di scoprire il valore profondo dell’amicizia e della solidarietà. Il senso della diversità  da rispettare sempre e dell’esperienza che ti è prima nemica e poi maestra.  Quei momenti che ci hanno insegnato come nessun buco, neanche nelle vene, ti può nascondere alla vita e che dunque, sempre ringraziando di averla, devi giocare fino in fondo, con tutta la fiducia che riesci a darti. Quello scorcio di fine secolo, che ci ha mostrato quanto non sia vero che il bene vince sempre, ma anche che il male non dura fino in fondo. Quei nostri anni.

Molto tempo dopo in una cena da mia sorella abbiamo riparlato con vecchi amici, Walter , GianFelice, Massimo di come ognuno di noi avesse percorso strade diverse partendo dalle stesse radici di bravi ragazzi incontrati in un ginnasio di una città di provincia. Io sono stato in giro per l’Europa ho vissuto in molte città , mi sono sposato e risposato ,  ed ho imparato ad amare il lavoro intensamente. Altri non si sono mai mossi. Atri non sono più tornati. Abbiamo parlato di figli, di nuove generazioni di futuro con la quiete interiore che senti quando ti trovi in mezzo ai tuoi amici, alla tua generazione.

Con Walter siamo usciti sul grande terrazzo, davanti alle luci di una città più ricca e pacifica.

Ho preso due sigarette dal pacchetto e gliele ho date . Le ha accese lui, come si faceva una volta: tutte due insieme e poi si dividono. Siamo rimasti in silenzio a fumare annusando l’aria del nuovo millennio come vecchi cani da caccia.

Poi Walter ha detto pensoso  rompendo il silenzio “ Tutti questi ricordi .. bah! ..Senti.. ‘scolta me, speriamo che ai ragazzi in questo secolo non tocchi tutto quello che abbiamo visto noi”.

“Perché? “ gli ho chiesto sorridendo.

E’ rimasto un attimo in silenzio,  appoggiato alla ringhiera e poi ha riso di cuore

“Già.. perché?” .

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