Non sarà, nel nostro Paese, un bel primo maggio. E non solo perché la pandemia impedirà festa e cortei. Non sarà un bel primo maggio perché la crisi del lavoro è sempre più grave e le condizioni dei lavoratori peggiorano. Il numero dei disoccupati non è mai stato così elevato e il potere d’acquisto reale di salari e stipendi continua a diminuire. Da anni si è affacciata sulla scena la categoria dei working poor, i lavoratori poveri, cioè coloro che, pur lavorando, sono al di sotto della soglia di povertà o a rischio di precipitarvi. Non solo, chi il lavoro ce l’ha e ha un salario dignitoso versa comunque, sempre di più, in situazione di precarietà, di incertezza sul futuro, di mancanza di garanzie. E il 30 giugno scadrà, per molte categorie di lavoratori, il divieto di licenziamenti introdotto per limitare le ricadute della pandemia. In questo contesto, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, approvato trionfalmente e in modo quasi unanime dalle Camere, pur disponendo di soldi come non mai, propone, per uscire dalla crisi, le ricette di sempre (https://volerelaluna.it/commenti/2021/04/28/piano-di-ripresa-e-resilienza-una-nuova-fregatura/) e parla di “competizione”, “concorrenza” e “impresa” (citate 257 volte) assai più che di lavoro, usa solo 7 volte il termine “disuguaglianze” e, soprattutto, destina 50 miliardi di euro alle imprese e solo 6,6 miliardi al lavoro (https://sbilanciamoci.info/manca-il-coraggio-di-cambiare/). Con la conseguenza che, anche secondo le stime più ottimistiche, le sue ricadute sull’occupazione saranno assai limitate e «serviranno quattro anni per tornare alla casella di partenza, a un’Italia comunque fanalino di coda ‒ nel 2019 come oggi ‒ per l’occupazione di giovani e donne, al top delle classifiche dell’Unione europea per Neet, ragazzi che non studiano, non si formano e non lavorano» (così, il 25 aprile, un giornale pur in prima fila nel sostegno al Governo Draghi come la Repubblica).
Il primo maggio, dunque, non sarà un giorno di festa. E tuttavia non può, non deve essere un giorno di rassegnazione. Al contrario, deve essere l’occasione per ripartire confrontandosi nel profondo sulle ragioni per cui tutto questo è accaduto e accade. Il punto di partenza è che, negli ultimi decenni, prima ancora della politica del lavoro è stata indebolita e marginalizzata la cultura del lavoro. I lavoratori, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso attori sociali di primo piano anche nell’immaginario collettivo, sono oggi soli, talora abbandonati dal loro stesso sindacato. Il termine “lavoro” è diventato obsoleto e persino fastidioso, sostituito, nella top ten delle parole e dei valori, da “mercato”, “profitto”, “competizione”, “merito”. E la solitudine e la marginalizzazione hanno portato con sé divisioni profonde tra gli stessi lavoratori (oltre che tra i lavoratori e le loro espressioni politiche e sindacali tradizionali). Per avviare una diversa politica del lavoro occorre dunque ricostruire una cultura, ricomporre le divisioni strumentali, ridefinire un’analisi unitaria: nella prassi e, prima ancora, nelle idee.
Ci sono alcuni punti fermi da cui partire.
Primo. La messa in sicurezza di chi il lavoro ce l’ha non è difesa dei privilegi di pochi a scapito di chi è disoccupato o precario. È vero il contrario. Solo difendendo e affermando i diritti e la dignità del lavoro si pongono le basi di un trattamento dignitoso per tutti e tutte. I fatti hanno la testa dura: la precarizzazione e la liberalizzazione di questi anni non hanno aumentato in maniera stabile l’occupazione e l’abbattimento delle garanzie e delle tutele ha contribuito a trasformare il lavoro da status delle persone a merce di scambio (con monetizzazione finanche dell’illegalità, come nel caso del licenziamento illegittimo nella disciplina prevista dal rinnovato articolo 18 dello statuto). Occorre, dunque, ripartire da alcuni punti fermi: la stabilità del posto di lavoro e la corrispondenza contrattuale con le mansioni effettivamente svolte (a cominciare dai settori della logistica e dell’agricoltura), il diritto a un salario minimo determinato per legge (incomprensibilmente osteggiato anche dalle organizzazioni sindacali), il controllo contrattuale sulle condizione di lavoro, sulla tutela della salute, sugli orari.
Secondo. Confermare le tutele del lavoro, peraltro, non basta. La globalizzazione, l’informatizzazione, le nuove tecnologie hanno abbattuto i posti di lavoro e la piena occupazione ‒ come avvertiva lucidamente, all’inizio di questa fase, Luciano Gallino ‒ è diventata un miraggio (o quasi). Bisogna correre ai ripari con una pluralità di interventi. Anzitutto con il rientro massiccio dello Stato nel settore dell’economia e del lavoro. Da decenni destra e sinistra indicano come protagonista principale dell’economia il mitico mercato. Con effetti devastanti. C’è un’alternativa e sta, appunto, in un rinnovato protagonismo dello Stato con assunzioni massicce nella pubblica amministrazione (a dispetto di quanto si va dicendo, tra le più sguarnite d’Europa). Non è un’utopia ma una via praticabile e densa di effetti positivi anche indiretti come dimostra la documentata proposta, formulata da autorevoli economisti, di assumere un milione di pubblici dipendenti finanziando l’operazione con una modesta (e temporanea) tassa sulla ricchezza dei più ricchi (https://volerelaluna.it/economie/2021/04/09/come-uscire-dalla-crisi-assumere-nella-pubblica-amministrazione/).
Terzo. Lavorare meno per lavorare tutti (o quasi) non è uno slogan ingiallito di alcuni decenni fa ma l’orizzonte indispensabile per una riorganizzazione del lavoro e il suo rapporto con la società. Anche qui, nulla di utopico, se è vero che in Germania e nel Regno Unito la riduzione dell’orario di lavoro a 32 (o addirittura 28) ore per quattro giorni alla settimana e for all (per tutti) è da anni all’ordine del giorno. Sarebbe una rivoluzione benefica anche ai fini di un nuovo equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, proprio nel momento in cui i confini tra queste due sfere della vita sociale si fanno più labili e confusi.
Quarto. Occorre, infine, generalizzare e stabilizzare il reddito di cittadinanza o reddito di base. Non è un parlar d’altro e, soprattutto, non c’è contraddizione tra questa prospettiva e la predisposizione di interventi tesi a favorire e aumentare i posti di lavoro. Se la piena occupazione non tornerà più e se, comunque, il lavoro avrà un andamento altalenante, affiancare o sostituire al salario (temporaneamente o in modo prolungato) altre forme di reddito è una strada obbligata per assicurare a tutti e tutte condizioni di vita dignitosa e per consentire ricerca e invenzione di nuovi lavori.
Conosco l’obiezione, fondata sul presunto scarso realismo di queste proposte. Ma è un’obiezione sbagliata e funzionale al lasciare le cose come stanno. Certo non è facile pensare a cambiamenti immediati o prossimi. Ma se gli antenati dei lavoratori attuali o dei loro rappresentanti sindacali e politici avessero ragionato in questo modo la stessa giornata lavorativa di otto ore sarebbe oggi un miraggio e saremmo ancora alle 62 ore settimanali degli albori della società industriale