Ritorna l’idea, deprimente e inaccettabile, propagandata dal centrodestra, dalla Confindustria e da qualche intellettuale “bocconiano”, che le imprese italiane abbiano necessità, particolarmente oggi, di molta (cattiva) flessibilità. In particolare, di lavoro precario e principalmente di contratti di lavoro a termine “acausali”, non giustificati, cioè, da un’esigenza produttiva effettivamente temporanea.
Per chiarire le ragioni dell’irricevibilità di questa pretesa di “liberalizzazione” è un utile avere un quadro storico-sistematico dell’evoluzione della disciplina. Il punto di partenza è che nella realtà socio-economica le occasioni di lavoro effettivamente temporanee sono circa il 15% di quelle totali. Eppure le imprese assumono, per oltre l’80%, con contratto a termine, e dunque anche quando si tratta di esigenze lavorative permanenti, che renderebbero naturali assunzioni a tempo indeterminato. E visto che a queste ultime potrebbe essere sempre legittimamente apposto un patto di prova, non si può neanche dire che sia il desiderio di “provare” il dipendente la spiegazione della “illogica” preferenza per il tempo determinato.
La ragione, purtroppo, può essere solo un’altra e sta nel fatto che il contratto a termine è, per così dire, “un contratto con ricatto incorporato”: se il lavoratore non si dimostrerà più che docile e disposto a sopportare torti piccoli e meno piccoli, alla scadenza del termine non sarà confermato, con ricaduta nella disoccupazione e nell’indigenza.
Nessun consulente aziendale o esperto accademico è mai riuscito a dare una diversa risposta “eticamente decente” al ricordato paradosso. Ma quel che preme qui sottolineare è che il legislatore italiano, invece, fin dall’esordio del centrosinistra nei primi anni 60, aveva ben compreso il forte pericolo di abusi. Ha quindi introdotto una triplice tipologia di limiti all’utilizzo del contratto a termine che occorre avere ben presente per orientarsi nella materia.
A) Il limite della necessaria esistenza di “causali”, ossia di esigenze lavorative temporanee (es.: malattia di altro lavoratore; carattere stagionale dell’attività ecc.), la mancanza delle quali, in concreto, comporta la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato.
B) Il limite di durata massima (es. 36 o 24 mesi) del lavoro a termine presso lo stesso datore, con la previsione che, una volta giunti al limite della necessaria assunzione a tempo indeterminato, il datore, se vuole continuare a utilizzare il lavoratore, debba assumerlo a tempo indeterminato.
C) Il limite di una percentuale massima di lavoratori a termine nell’organico complessivo di un’impresa (es.: non più del 20%) oltre la quale si può assumere solo a tempo indeterminato.
Vediamo ora l’evoluzione normativa su questi limiti fino a oggi. Il limite più importante, e il più razionale, è quello delle “causali”, e all’inizio, con la legge 230 del 1962 furono stabilite delle causali “tipiche”, ossia ipotesi ben definite (es.: sostituzione del lavoratore assente per malattia), al di fuori delle quali il rapporto di lavoro sarebbe stato considerato a tempo indeterminato. Fu poi concesso, con modifiche normative degli anni 80, che la contrattazione collettiva potesse aggiungere altre causali tipiche, che così, in pratica, si moltiplicarono, finché, con il D. Lgs. n. 368/2001, si è arrivati alle causali “atipiche”.
In altre parole, con la nuova disciplina, qualsiasi esigenza lavorativa poteva giustificare un contratto a termine, purché fosse effettivamente temporanea e venisse dichiarata in calce al contratto individuale di lavoro. Il controllo era così facile e la nuova disciplina ha funzionato bene per circa 15 anni, con puntuali trasformazioni a tempo indeterminato in caso di abusi. La rottura vera è avvenuta nel 2014-2015 con il Jobs Act (anticipato dal decreto Poletti): si è avuta l’abolizione delle causali, il dilagare del precariato, del lavoro “usa e getta” e dell’assenza di tutele. Cessato il governo Renzi, si è tornati, con governo Lega-M5S e con il decreto Dignità al sistema delle causali “tipiche” (allargabili dalla contrattazione collettiva) ma solo parzialmente, perché la Lega ha imposto che per i primi 12 mesi il lavoro a termine possa ancora essere “acausale”. Neanche questa soluzione di compromesso (e non molto tutelante per i lavoratori) basta oggi alla destra che, come sempre, vorrebbe solo avere “mano libera”, e invoca una nuova “liberalizzazione”.
Quanto agli altri due limiti, si è avuto, ancora in pieno “Jobs Act”, il tentativo della sinistra del Pd di “scambiare” l’abolizione delle causali con la precisa determinazione del secondo limite, quello della durata massima, a 36 mesi (o a cinque rinnovi del contratto a termine). Ma si è trattato e si tratta di una tutela illusoria perché, anche una volta giunti alla soglia dei 36 mesi (o 24 mesi dopo il decreto Dignità) il datore conserva il potere decisionale. Se vuole utilizzare ancora quel lavoratore deve ora assumerlo a tempo indeterminato, ma può anche lasciarlo a casa” e assumere ex novo e a termine un altro lavoratore.
Sul terzo limite, poi, si è andati indietro col Jobs Act, rispetto a quanto già affermato dalla giurisprudenza, secondo cui i lavoratori assunti a termine ma oltre la percentuale massima, dovevano intendersi a tempo indeterminato: oggi, invece, c’è solo una multa per il datore di lavoro.
Che fare, allora, per tutelare i lavoratori dal precariato senza penalizzare ingiustamente le imprese? La prima cosa è tornare a un fondamento razionale e stabilire che, per stipulare un contratto a termine, occorre sempre che esista un’esigenza lavorativa temporanea che lo giustifichi, una causale, anche “atipica”, purché dichiarata e controllabile. La sanzione per l’abuso non può che essere la trasformazione a tempo indeterminato, da applicare, come si era sempre fatto, fino al Jobs Act, anche in caso di superamento del terzo limite, quello della percentuale massima di lavoratori a termine sull’organico aziendale.
Ma la partita decisiva si gioca adesso sul secondo limite, quello della durata massima (e/o del numero massimo di rinnovi) del lavoro a termine. Serve una nuova previsione legislativa che preveda il diritto del lavoratore a termine di essere assunto prima di altri aspiranti al posto di lavoro, in caso di nuove assunzioni da parte dell’impresa, sia che si tratti di assunzioni a termine che di assunzioni a tempo indeterminato. Perché così si creerebbe una sorta di tapis roulant che, in un periodo non troppo lungo, porterebbe il precario (un contratto a termine dopo l’altro) sulla soglia – limite temporale (oggi 24 mesi) – dell’assunzione definitiva. A quel punto l’impresa, a meno di non assumere più nessuno in assoluto in quella qualifica, dovrà rivolgersi esclusivamente a quel precario, assumendolo a tempo indeterminato. In questo modo si avrebbe un progressivo “prosciugamento” della palude del precariato che tanti osservatori invece vorrebbero addirittura espandere con tutto il suo carico di malessere e di ingiustizia.