Nel lanciare il più grande piano di interventi della sua storia, allo scopo di uscire dalla crisi socio economica provocata dalla pandemia da Covid19, la Commissione Europea ha ribadito che ‘Non tutto potrà tornare come prima’, e tutti abbiamo pensato che intendesse dire che doveva essere colta l’occasione per superare gli errori di un sistema economico fondato sullo sfruttamento ambientale e del lavoro, sulla concentrazione della ricchezza e del potere, sulla guerra per conquistare fonti di materie prime depredando i Paesi che le detengono.
La cronaca quotidiana sta dimostrando che ci eravamo sbagliati e che ci stiamo avviando a una situazione socio-economica ancora più ingiusta e pericolosa della precedente.
Se dal punto di vista ambientale, al di là delle enunciazioni verbali ben poco è cambiato (ne è testimonianza il tentativo di rilanciare il nucleare, più volte bocciato dalla opinione pubblica), nel mondo del lavoro il peggioramento della situazione è drammatico. All’esplosione di forme contrattuali sempre meno garantite (quando il contratto c’è) e al conseguente dilagare del precariato, si sommano nel nostro Paese due fenomeni drammatici: l’aumento degli infortuni e delle morti sul lavoro e la trasformazione delle relazioni industriali.
Nei primi sei mesi del 2021 in Italia sono stati denunciati oltre 267.000 infortuni sul lavoro, 538 dei quali mortali; solo alcuni ottengono l’attenzione della cronaca, ma sono cifre assolutamente inaccettabili. E dalle inchieste quasi sempre emergono il mancato rispetto delle norme di sicurezza o imprudenze dettate da ritmi di lavoro eccessivi o dall’impiego di personale non sufficientemente formato.
Contemporaneamente assistiamo al moltiplicarsi di improvvise chiusure di attività e al loro trasferimento verso Paesi, anche vicini, giustificate solo dalla ricerca della compressione dei costi del lavoro (ancora), di normative ambientali più ‘elastiche’, o da minori carichi fiscali, talvolta resi possibili proprio dai contributi allo sviluppo ottenuti sul piano comunitario.
In entrambe i casi è lecito chiedersi se siamo nel campo di applicazione dell’art. 41 della nostra Costituzione: “L’iniziativa economica privata … non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. ...”
Le relazioni industriali, in particolare nelle aziende di proprietà di soggetti multinazionali o con interessi prevalentemente finanziari, hanno assunto forme grottesche per la loro disumanità, fino alla comunicazione dei licenziamenti con un semplice SMS.
In Toscana, ad esempio, sono emblematiche le vicende della GKN, della TEXPRINT, e in precedenza della BEKAERT, per non parlare delle Acciaierie di Piombino e di tante altre.
Al di là degli aspetti giuridici è ormai in gioco il valore fondamentale del rispetto della dignità degli esseri umani, che non sono riducibili esclusivamente al ruolo di consumatori o di fattori produttivi, e considerati solo uno dei tanti parametri economici funzionali ad aumentare i margini di profitto, in un mercato globalizzato e privo di regole, che punta al mantenimento di vaste aree di sottosviluppo e alla conseguente guerra fra i poveri del mondo.
Lo spettro della cancellazione di tutti i diritti conquistati con le loro lotte dalle generazioni che ci hanno preceduto è sempre più concreto, nella sostanziale indifferenza della minoranza che spera di essere garantita.