Cosa festeggiamo quest’anno? Il lavoro che non c’è, i negozi chiusi, i ristoranti senza clienti, le imprese in sofferenza, le campagne trascurate, le aziende in fallimento? Ognuno di noi conosce decine di storie angosciose, al centro delle quali molto spesso ci sono i giovani e i loro tentativi di crearsi da sé un lavoro, che li renda liberi di crescere, di affermarsi e di costruire il proprio futuro. Non abbiamo dato loro le opportunità che abbiamo avuto noi alla stessa età: potevamo scegliere che carriera fare, che lavoro intraprendere, cambiare città, andare all’estero…e non parlo solo delle restrizioni per la pandemia. Quelle sono state solo la ciliegina sulla torta: sono anni che i ragazzi annaspano alla ricerca di un lavoro. Ne so qualcosa: dei miei laureandi solo i più vecchi, coloro che si sono laureati prima del 2000, hanno potuto inserirsi nel mondo della scuola, gli altri si sono ingegnati come hanno potuto, sopravvivendo con borse di studio rinnovabili, contratti a termine e altre prese in giro, con cui umiliare talenti e intelligenze. La carriera universitaria è di fatto stata chiusa e soprattutto la ricerca nelle facoltà umanistiche è stata svuotata. Praticamente annullata la ricerca di base in quelle scientifiche, sostituita da quella guidata da interessi privati. E comunque ormai difficilissimo accedervi. Se volete saperne di più leggetevi l’amarissima lettera di un ricercatore, a fondo articolo.
Ma sorvoliamo su Università e Scuola: e quante industrie sono andate perse? Quanti lavoratori appesi alla cassa integrazione! E poi con la pandemia tutto è peggiorato, ogni risorsa economica è diventata precaria, tanto che è difficile immaginare un dopo pandemia in cui ci sia ancora lavoro per tutti. Stamattina qui in Sardegna ancora protestavano gli operai della Keller, chiusa nel lontano 2010: ci costruivano vagoni ferroviari. Sembra che a nessuno importi niente della loro sorte, così come non avranno giustizia gli operai della Ilva di Taranto e tutti quelli che si sono ammalati di tumori. Come a Casale Monferrato continuano a morire di mesotelioma per via dell’amianto. Ma non parliamo di fabbriche “fallite”, parliamo di quelle in buona salute e che ugualmente sono condannate: a Napoli gli operai della Whirlpool hanno aumentato la produzione e la fabbrica andrebbe benissimo, ma la proprietà vuol chiudere lo stesso. E la politica che fa? E’ inutile, certe cose non cambiano mai. Si incistano e incancreniscono e basta. Ma i problemi non li risolve nessuno e non ci sono idee per possibili riconversioni. Però ci si batte per avere il superfluo: è un paese di gaudenti, questo, di gente senza testa, senza buon senso.
Quest’anno il Concerto del 1° maggio a Roma ci sarà, però, e si farà su un palco, dal vivo. Lo slogan scelto per questa edizione è “L’Italia si cura con il lavoro”. Il pubblico tuttavia sarà limitato a giornalisti e ospiti del mondo dei sindacati, visto che, come sempre sono loro gli sponsor: CGIL,CISL e UIL. Però non sarà più in piazza san Giovanni in Laterano, ma nella cavea dell’Auditorium del Parco della Musica. Il senso di tutto questo travalica le mie capacità di comprendere. Sì, sì: le maestranze…la cultura…certo, c’è anche questo, chi lo nega. Ma se nessuno se lo può godere, che senso ha? E a questo punto è la scala delle priorità che rimane incomprensibile, mentre a nessuno importa che riaprendo tutto indiscriminatamente, il virus si riproponga più micidiale che mai.
Certo avremmo bisogno di un intervento speciale, contro la pandemia: lasciatemi parlare di Sant’Efisio, della festa “alternativa” del 1° maggio che si celebra a Cagliari e nella Sardegna dal 1657, ininterrottamente, ogni anno da 364 anni. Sembra che Sant’Efisio martire liberasse l’Isola dalla peste, portata da marinai catalani ( ma và?!) nel 1652 e che da allora infuriava senza tregua, uccidendo centinaia di persone. La gente fece un voto, un patto col Santo: se Efis (così lo chiamiamo noi cagliaritani) avesse guarito l’Isola dalla peste, noi avremmo celebrato una festa in suo onore, ogni anno il 1° maggio. Efisio fece la sua parte: la peste sparì e noi in tutti questi secoli abbiamo onorato il patto, anche durante le guerre, i bombardamenti e le epidemie. Anche e nonostante il primo maggio fosse divenuto la festa del lavoro e noi giovani contestatori andassimo fuori dall’Isola a festeggiarlo. Ma qui la gente andava tutta a salutare Efis. Infatti oltre a essere tra le più antiche è anche la più lunga processione religiosa italiana, con circa 65 km percorsi a piedi in 4 giorni (da Cagliari a Nora, centro in cui il Santo fu martirizzato, e ritorno), e la più grande del Mediterraneo. La processione vede sfilare tutti i comuni della Sardegna, ognuno col suo costume tradizionale, bellissimo e diversissimo dagli altri, a piedi e a cavallo. Alla fine della lunghissima processione, arriva il Santo, nel suo cocchio di vetro e legni dorati, tirato da una coppia di buoi dalle corna vestite di fiori e tutte le navi del porto suonano le loro sirene e la gente, ai lati del lungo viale che scende verso il porto, coperto di petali di rose, china il capo e le donne si inginocchiano con le mani in croce sul cuore e sospirano “Efis meu, agiuda nos”. Ma Efis in questi due ultimi anni per colpa del Covid fa da solo il suo cammino verso Nora. Lo diremo ancora anche quest’anno, anche se lo diremo ognuno a casa sua, guardando in televisione il suo cocchio, montato su un triste mezzo dell’esercito, andare tutto solo verso la sua meta. Te lo dico anch’io caro Efis, col tuo viso sereno e i tuoi baffetti da moscardino, io che sono anticlericale e poco incline alle cose religiose “Agiuda nos”, aiutaci e liberaci da questa nuova peste, perché se non lo fai tu, ho molti dubbi che questi disorganizzati della sanità isolana ce la faranno da soli.
Buon primo maggio a tutti, ognuno secondo la sua fede e le sue convinzioni, politiche e religiose.
Barbara Fois