Il voto cancella Renzusconi ma nel Pd è guerra

di Daniela Gaudenzi - Il Fatto Quotidiano - 07/03/2018

Come aveva già anticipato Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 5 dicembre 2016, e come si può constatare in maniera ancora più evidente ora che “i numeri non sono più scritti sull’acqua”, gli italiani in modo analogo ma ancora più dirompente rispetto al referendum del 4 dicembre 2016 hanno spazzato via con il voto l’impressionante serie di bufale che ha dominato la campagna elettorale.

Fin dalle prime proiezioni è stato subito chiaro che i moniti interessati dei mercati, gli allarmi internazionali contro “i populismi in agguato”, le operazioni politico-mediatiche concertate per fare incredibilmente di B. “l’imprescindibile ago della bilancia” se non il dominus di qualsiasi equilibrio post elettorale si erano schiantati contro la determinazione del popolo sovrano a dire “Basta” in modo inequivocabile. Con il Partito di Renzi (Pdr) abbondantemente sotto il 20%, Forza Italia al 14% superata con un largo margine dalla Lega al 17% ed il M5S che ottiene con il 32,5% un risultato storico, le ipotesi che fino a ieri venivano prospettate come probabili ed auspicate come “fisiologiche” o “rassicuranti” sono ritornate ad essere semplicemente ridicole. Sia la Grosse Koalition all’italiana con Renzi (e annessi) avvinto a Berlusconi in un Nazareno di governo sia il Gentiloni bis diventato un ritornello dell’ultimo scorcio della campagna elettorale che ha visto il “mite” presidente del consiglio imbracciare il mitra contro “il pericoloso” M5S, ora sembrano appartenere a un passato remoto e archiviato.

E benché fresche di poche ore sembrano uscite da uno scenario del passato, anche se recente, “le dimissioni non dimissioni” come le ha definite il guardasigilli Andrea Orlando, esponente della minoranza Pd, e cioè quelle da segretario annunciate da Renzi nel tardo pomeriggio del day after, dopo una serie di continui slittamenti e in un clima che per livello di tensione rimandava a quello dei lunghi coltelli della notte delle candidature. Il copione come in una coazione a ripetere che inevitabilmente produce effetti concatenati sempre più negativi per il partito di cui lui avrebbe dovuto garantire una soglia minima di coesione è più o meno sempre lo stesso.

Prende atto della sconfitta, riconosce come errore sommo quello di aver fatto una campagna elettorale con argomenti troppo “tecnici” ma soprattutto detta le condizioni e i tempi per la sua uscita di scena con relativo “ritiro” nel ruolo di modesto senatore di Rignano in quell’aborrito Senato la cui mancata cancellazione sarebbe l’origine di ogni male, incluso il possibile rischio di ingovernabilità. Il come e il quando abbandonerà la segreteria del Pd devono consentirgli di gestire l’elezione dei presidenti delle Camere, di salire al Colle per le consultazioni, di impedire qualsiasi apertura del PD ai punti programmatici del M5S, equiparato sotto ogni profilo alla Lega di Salvini, di rimanere segretario durante tutto il percorso congressuale che dovrà includere le nuove primarie.

En passant, Renzi ha colto l’occasione per attaccare Sergio Mattarella che non gli ha consentito di andare a votare quando gli avrebbe fatto più comodo, probabilmente irritato anche dalla presunta “benevolenza” riservata dal Capo dello Stato alla “assurda” mail di Di Maio con la lista dei ministri. E ha voluto anche citare la sconfitta sonora di Marco Minniti a Pesaro dove ha vinto Cecconi, uno degli irregolari delle restituzioni del M5S, ovviamente per screditare ulteriormente gli “incompetenti” e “imbroglioni“, ma magari anche per dare una stilettata ad uno dei ministri più in vista del governo Gentiloni.

La rivolta interna nel partito, già terremotato dalla sconfitta schiacciante attribuita in grandissima parte al segretario è stata trasversale. Non sono insorte solo le minoranze di Orlando e di Emiliano, da sempre aperto al dialogo con il M5S, per le accuse a Mattarella in un momento quanto mai “delicato”, ma anche Luigi Zanda, area Franceschini, l’ha energicamente invitato a mettere da parte le dimissioni “postdatate” e a non confondere “i caminetti” con la collegialità di cui il partito ha disperatamente bisogno.

Anche questa volta Renzi è riuscito a sollevare tutti i venti di guerra possibili e immaginabili. E come è stato sottolineato, anche da commentatori non propriamente ostili, si capisce quanto mai chiaramente perché il segretario abbia imposto in modo brutale il suo plotone di fedelissimi da schierare in parlamento: sapeva molto bene che gli sarebbero tornati utili, magari per la resa dei conti finale e per la rottamazione definitiva del partito.

 
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