Prendere fra le mani il De rerum natura significa avere la fortuna di leggere non lo scritto di un filosofo o di uno scienziato, ma i versi di un grande poeta posseduto da un amore fervente per la scienza della natura. Quel che ne sgorga è un capolavoro che all’andamento lirico dei versi accompagna un’estrema precisione nel descrivere ‘le cose della natura’. Il tutto con la lucidità di una filosofia laica, che rifiuta ogni finalismo e ogni antropocentrismo, conosce l’irrilevanza dell’essere umano nella natura e capisce che esattamente questa irrilevanza è ciò che lo rende libero.
Si può immaginare che chi ha letto Lucrezio torni a leggerlo, per intero o anche solo per riportare alla mente qualche passo indimenticabile nella cristallina nitidezza dei versi. Ma chi non l’ha letto gode forse di una fortuna maggiore: la possibilità di scoprire d’un tratto un’opera che scavalca i secoli con levità e si presenta al letto re di oggi con un fascino temprato ma non logorato dallo scorrere del tempo.
Chi sceglie l’esperienza potrebbe esserne così soddisfatto da restarne catturato per sempre. Settemilaquattrocentoquindici versi, divisi in sei libri, contengono il mondo, fisico e umano.
Un’opera da affrontare senza presunzione: non per possedere ma per essere posseduti. Ciò attenua il peso della responsabilità: non tutti, anzi assai pochi, possono leggerlo in latino, ma avvicinarsi al testo filtrato dalla traduzione rende possibile un contatto altrimenti raggiunto solo con anni di studio. Affidati alla sensibilità del traduttore si è poi incoraggiati alla pratica personale del colloquio interrogativo con il testo a fronte. La traduzione di Luca Canali (Rizzoli, 1990) è una guida magistrale, capace di fedeltà al testo e allo stesso tempo duttile nel restituire il ritmo ondoso dell’esametro lucreziano.
Il poema in versi sulla natura delle cose aveva alle spalle una lunga tradizione greca. Tra VI e V secolo ne avevano scritti Senofane, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Democrito. E proprio sull’atomismo democriteo, a cavallo tra il III e II secolo, Epicuro aveva fondato il suo sistema filosofico orientato alla conquista dell’atarassia, la capacità umana di affrancarsi dalla sofferenza fisica e spirituale, dalla paura della morte e degli dei. Tutte opere giunte a noi in forma più o meno gravemente frammentaria. Di fronte a questo sparso panorama di frammenti, prodigiosa è la nostra fortuna di aver ricevuto, solo con qualche breve lacuna, l’opera intera di Lucrezio, ispirata dall’entusiasmo per gli scritti di Epicuro.
Ma è una fortuna ancora più profonda: non abbiamo un filosofo o uno scienziato, abbiamo un grande poeta posseduto da un amore fervente per la scienza della natura; e spinto in modo irresistibile a comunicarlo e spiegarlo al lettore. Si rivolge col tu confidenziale al dedicatario Memmio ma è a tutti noi che parla quando scrive:
veglio nelle notti serene cercando le parole e il canto per «diffondere davanti alla tua mente una splendida luce/ per cui tu riesca a vedere il fondo delle cose arcane» (I, 144-145). Così Lucrezio si presenta sempre con un doppio carattere: studioso che vuole penetrare i segreti dell’universo, cui si applica con tenacia anche quando la materia è sfuggente; poeta che non sa e non vuole trattenere l’entusiasmo espressivo nel rappresentarne l’intimo fascino.
Sotto questo profilo Lucrezio è il poeta della luce; i suoi fulgidi quadri visivi continuano a risplendere scolpiti nella mente del lettore: il moto degli atomi, che non siamo in grado di vedere, può essere immaginato per analogia con lo spolverio turbinante nel raggio di sole che penetra il buio di una stanza (II, 112-124).
Ma c’è anche una seconda duplicità immanente in tutto il poema: la connessione tra la forza della conoscenza e la liberazione dall’angoscia. Sapere com’è fatto il mondo fa svanire le paure umane e, a rovescio, l’imperturbabilità umana permette di vedere meglio la natura delle cose. Sotto questo secondo profilo Lucrezio è l’ingegno critico che invita al disinteresse per ricchezza e potere, e contempla senza illusioni il destino umano: «I tormenti, che si dice vi siano/ nel profondo Acheronte, sono in realtà tutti nella nostra vita» (III, 978-979).
In questa molteplicità Lucrezio può apparire, e talvolta è, almeno per noi che leggiamo ora, contraddittorio. È ateo dichiarato ma afferma che la superiorità umana di Epicuro ha qualcosa di divino; afferma che il tempo in sé non esiste ma ne illustra in magnifici versi l’infinita durata (il tempo trascorso prima della nostra vita è lo specchio del tempo che la seguirà, III, 972-977); sostiene che l’universo è infinito e senza un centro ma i suoi atomi cadono come se esistesse un alto e un basso; scrive che l’amore è una passione da cui tenersi lontani ma dedica l’apertura del poema all’inno a Venere, trionfo della vita generatrice. Ma il testo alla fine ne esce maestoso come un fiume alimentato dai suoi affluenti. Bivalente il suo atteggiamento d’autore. Umiltà: non posso gareggiare con Epicuro, posso solo imitarlo. Orgoglio: «Percorro gli impervi luoghi delle Pieridi mai sino a ora segnati/ da orma d’uomo.
Mi inebria raggiungere le intatte fonti/ e trarne sorsi [...] su un’oscura materia compongo versi/ così limpidi, aspergendo ogni cosa della leggiadria del canto». E la dolcezza del canto ha la stessa precisa funzione del miele con cui il medico copre l’assenzio da somministrare al bambino (I, 921-950 e IV, 1-25).
I fenomeni, in cielo e in terra, di cui sfuggono le cause sono stati attribuiti dagli uomini alla volontà divina, ma ciò preclude la volontà stessa di comprendere. L’osservazione della realtà ci mostra che il mondo è composto da materia e spazio; i corpi e le cose si muovono nello spazio perché c’è il vuoto e anche nei corpi e nelle cose c’è il vuoto, nel piombo come nella lana. Nel loro divenire corpi e cose si consumano e scompaiono, ma si rinnovano di continuo. Tutto ciò che è composto di materia e di vuoto è soggetto a dissoluzione, ma poiché nel suo insieme la materia non viene mai meno, ciò dimostra che è costituita da elementi indivisibili ed eterni, gli atomi, che aggregandosi nei modi più vari danno origine a cose e corpi destinati alla caducità mentre essi stessi restano indissolubili ed eterni. L’argomento è tutto razionale ma non ha evidenza sensibile. Come affermare l’esistenza degli atomi se non si vedono? Molte cose in natura non sono visibili: ad esempio i venti, di cui solo gli effetti si avvertono, talvolta in tutta la loro potenza: flagellano l’oceano, affondano navi, abbattono grandi alberi.
Invisibili, i venti «seminano strage in modo non diverso/ di quando la molle natura dell’acqua d’un tratto s’avventa/ in straripante fiume» che travolge enormi macigni, abbatte solidi ponti, inonda le terre all’intorno (I, 271-289). E non solo i venti: gli odori, i suoni, il caldo e il freddo, fenomeni avvertiti da altri sensi. Un tessuto si inumidisce sul lido e si asciuga al sole ma non possiamo vedere le particelle di acqua che vi si insinuano e che lo lasciano; l’anello si consuma portandolo al dito, la goccia scava la pietra, il ferro dell’aratro si logora nei campi: la materia si suddivide in minuscole parti e «la natura agisce per mezzo di corpi invisibili» (I,328). Tutto è in continua trasformazione: nulla si crea, nulla si distrugge; tutto si trasforma; una rapida digressione georgica illustra come le piogge paterne del cielo fecondino il grembo della madre terra, da cui sorgono floridi pascoli dove «nuova prole di agnelli/ sulle tremule membra ruzzanti per le tenere erbe/ si trastulla, le giovani menti inebriate da purissimo latte» (I, 258-261).
Compare a tratti imprevista una vena di umorismo: se, come sostiene Anassagora, gli atomi avessero i sensi come i corpi da loro composti, allora «certo sghignazzeranno scossi da un tremulo riso» (I, 915-920 e II, 973-985).
L’immensa varietà del reale è il risultato non di un disegno preordinato ma della sterminata possibilità di combinazione degli atomi. Un verso («concursus motus ordo positura figurae», cinque sostantivi aggregati in equilibrio speculare, due a due attorno a «ordo» in posizione centrale) in I, 685 e II, 1021, e riecheggiato in molti altri passaggi, spiega come tutto dipenda da incontri, moti, ordine, posizioni e forme degli atomi. Basta così poco? Certo, ci dice Lucrezio, come nei miei stessi versi la semplice combinazione delle lettere «sono sempre le stesse a indicare il cielo, il mare, le terre,/ i fiumi, il sole, le stesse a designare le messi, gli alberi, gli animali;/ se non tutte, almeno la più gran parte di esse sono simili:/ ma il loro ordine diverso distingue i nomi delle cose» (II, 1015-1018). Versi dove la scrittura viene elevata a paradigma della realtà sensibile.
La materia e il vuoto non possono che essere infiniti. L’infinito non ha un centro: dovunque tu sia, intorno a te l’infinito si espande in tutte le direzioni. Giunto a ciò che puoi immaginare come l’estremo limite del mondo se scagli con l’arco una freccia essa andrà più in là e sposterà all’infinito il limite. E nell’infinito spazio si deve immaginare la pluralità dei mondi e anche la loro fine.
Risultato della combinazione degli atomi, «non per volere divino è stata per noi generata/ la natura del mondo» (II, 180-181), concetto che si riaffaccia più volte nel testo anche in forma letterale (V, 195-199). Qui c’è il punto chiave della visione lucreziana: la critica del finalismo e dell’antropocentrismo permea di sé tutto il poema, accompagnata dalla percezione vivissima dell’irrilevanza dell’uomo nell’infinità dello spazio e del tempo. Una filosofia laica che non poteva avere fortuna nell’atmosfera di conformismo religioso imposta nell’impero di Augusto, né essere accettata dalla cultura cristiana. Dante non ha potuto conoscere Lucrezio e non lo considera nel IV canto dell’Inferno dove incontra insigni figure della classicità ma, fedele alla sua ferma visione teleologica, se l’avesse letto lo avrebbe confinato accanto a «Democrito che ’l mondo a caso pone» (Inferno, IV, 136). Ma Lucrezio salta il Medioevo e si presenta direttamente interlocutore del Rinascimento, commentato da Marsilio Ficino, studiato da Giordano Bruno, ben conosciuto e ben citato da Montaigne, noto a Shakespeare. Pur insistendo sull’irrilevanza dell’uomo nel cosmo, Lucrezio non vuole affatto svalutarlo e annichilirlo, anzi con un ardito passo lega insieme il clinamen – la deviazione laterale che permette l’incontro degli atomi nel loro reciproco moto – al libero arbitrio umano, non obbligato da necessità immanente ma capace invece di autonoma decisione (II, 216-293).
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Il De Rerum Natura comunica al suo lettore l’impressione di un’opera concentrata e compatta, soprattutto al confronto con l’enciclopedica dilatazione della Storia naturale di Plinio. Tuttavia stringe in sé una materia vasta, sorretta da un ordine non del tutto lineare. Una sintesi estrema vede il primo e il secondo libro dedicati al mondo fisico. Scorrono nei versi materia, vuoto, atomo, spazio e tempo, infinito, pluralità dei mondi, stabilità e caratteri delle specie; a questo proposito un’illustrazione sorprendente in II, 349-366: il vitello sgozzato nel sacrificio è invano cercato per prati e boschi dalla madre che non si consola alla vista degli altri vitelli. Il terzo e il quarto libro dedicati all’uomo: mente, anima, corpo, morte, mortalità dell’anima (e martellanti argomenti contro l’immortalità dell’anima, III, 425-829), fisica della percezione, la vista e gli specchi (qui virtuosismi espressivi, come il mondo riflesso nella pozza d’acqua, IV, 414-419), rapporto tra sensi e mente (i sensi non hanno funzione servile, come sostengono gli stoici, anzi guidano la percezione, e gli inganni della conoscenza dipendono dalla ragione, IV, 379-468), sonno e sogno (mentre dormo inerte un altro dentro di me prova «i moti della gioia e i vani affanni del cuore», III, 116), funzioni fisiologiche, sesso e amore. Anche qui duplicità: l’atto sessuale è rappresentato come lotta e aggressività in IV, 1079-1083 e 1105-1114 ma, dopo la critica a tratti feroce e un po’ convenzionale delle donne che sarà riecheggiata da Giovenale nella Satira VI, ecco il riconoscimento della sincera dolcezza femminile nel piacere comune 1192-1196. I libri successivi hanno un ordine diverso: nel quinto la prima parte è dedicata al cosmo e ai cicli naturali, ma la seconda a un excursus sulla storia umana, dall’alba dell’uomo nella condizione ferina all’invenzione dell’arte, che per Lucrezio è il vertice dell’ingegno. Il sesto libro ha dall’inizio alla fine un andamento sempre più oscillante: alla complessa illustrazione dell’atmosfera e dei suoi fenomeni, al tempo stesso realistica e visionaria, segue una parte sui terremoti; ma il tema terrestre si interrompe per lasciare il posto a una digressione sulle ragioni della stabilità dei mari, a sua volta seguita dall’illustrazione dei fenomeni vulcanici e magmatici, da cui si torna al tema acquatico con le piene del Nilo; ci si avvia alla fine con un passo sugli Averni e le misteriose comunicazioni tra superficie terrestre e abissi ipogei, cui si aggiunge una digressione sull’enigma della calamita, per giungere infine alla trattazione dei morbi e delle pestilenze.
Il finale sulla peste di Atene riprende il testo di Tucidide e a sua volta è ripreso da Virgilio in Georgiche III, 474-566, da Ovidio in Metamorfosi, VII, 523-613, e con maggiore brevità da Lucano, Farsaglia VI, 80-105. Ma, al di là delle parentele letterarie, ha fatto molto discutere l’inquadratura dell’intera opera tra l’inno alla vita e il trionfo della morte. C’è chi ha sostenuto che l’opera fosse incompiuta. Anche il lettore ignaro giunto alla fine è preso da smarrimento: finisce così? Ma se riflette all’esperienza appena conclusa (e che presto dovrà riprendere con maggiore consapevolezza, senza più le sorprese ma con le nuove scoperte del molto che gli era sfuggito) potrà farsi una ragione: l’intera opera ha misteriosi richiami e improvvisi sussulti.
Lucrezio scivola con maestria dal mondo fisico a quello umano tutte le volte che il filo della spiegazione gliene apre la via: il primo libro introduttivo sul mondo fisico si apre con una dichiarazione programmatica contro la religione: «Mentre la vita umana giaceva sulla terra/ turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione/ [...] per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi/mortali a sfidarla» (I, 62 ss.). E subito dopo per illustrare «gli scellerati delitti della religione» volge l’invettiva in affettuosa commozione per il sacrificio di Ifigenia «empiamente casta, proprio nell’età delle nozze,/ [...] mesta vittima immolata dal padre,/ affinché una fausta e felice partenza sia data alla flotta» (I, 84-100). Nel secondo libro le difficoltà della nostra capacità di percezione sono illustrate dall’effetto della distanza sulla visione: così il gregge la noso brucante su un pendio lontano appare «come un candore stagnante sul verde colle» mentre legioni in battaglia sulla pianura, scintillanti di bronzo, si presentano a noi come «un fermo splendore nei campi»; la combinazione delle due visioni (II, 317- 333) è un capolavoro stilistico che ha anche qualcosa di fotografico. Nel sesto libro le perturbazioni telluriche del globo sono paragonate alle malattie esantematiche dell’uomo. Nel lettore si fa presto viva la sensazione di un ordine più circolare che lineare (un andamento ellittico che ritroviamo nelle Metamorfosi di Ovidio).
Così il De Rerum Natura appare come un’opera-mondo in cui le singole parti rinviano ad altre in una molteplicità di echi: una rete di relazioni, un tessuto di sinapsi, in cui le corrispondenze non sono necessariamente univoche, dove le discontinuità del magistero didascalico sono sempre illuminate dalla trasparente limpidezza dell’immagine poetica.