«La parete»: tra uomo, natura e società

di Marlen Haushofer - Le cicogne - 31/10/2019
Suggerimento di Giada Ceri

La trama in sintesi:
La parete è un romanzo del 1963 della scrittrice austriaca Marlen Haushofer. In esso una donna, durante una gita in montagna, rimane separata dal resto del mondo da una parete sorta misteriosamente. Con lei, solo un cane, una gatta e una mucca. Di colpo si trova costretta a organizzarsi per sopravvivere, maturando un nuovo rapporto con la natura e con se stessa.

Estratto del testo:
Dopo tutto quello che abbiamo vissuto insieme, Bella è diventata ben più di una vacca per me, una povera sorella paziente, che sopporta il suo destino con più dignità di quanto faccia io. Le auguro veramente un vitello. Prolungherebbe il tempo della mia prigionia e mi caricherebbe di nuove preoccupazioni, ma che Bella abbia il suo vitello e sia felice, e io non chiederò se ciò si accordi o meno con i miei piani.

Marica: Oggi il tema ambientale è più che mai un’urgenza, anche comunicativa. Il libro è già tutto questo, ma senza cadere nell’estremo opposto, di idealizzazione della natura, umanizzazione degli animali o auspicio a un regresso animale da parte dell’uomo. Dopo che una misteriosa parete l’ha separata dal mondo civile (che appare morto, e per sempre), la protagonista è costretta a gestire lo sconcertante divario tra l’artificiosità dei tempi e delle convenzioni sociali e la durezza dei ritmi e delle necessità naturali. Il risultato è che non poteva essere felice prima, mancandole un ancoraggio del sé, ma mi pare che non possa esserlo nemmeno ora, costretta su una montagna capace di appagare a malapena i bisogni primari, del tutto inadatta a soddisfare quelli di un soggetto pensante ed emotivamente senziente.

Giada: Inadatta, sì, ma non irreversibilmente. Davvero inadatto a rendere possibile e umana l’esistenza è il mondo dal quale la protagonista si scopre separata. Avevo solo questa piccola vita, scrive, e non me l’hanno lasciata vivere in pace. Ora la sua vita è altrove rispetto al mondo degli uomini e lei questo altrove non lo mistifica, non lo idealizza né lo maledice – una postura intellettuale e sentimentale, la sua, decisamente in minoranza nel nostro tempo, che “scopre” i temi ambientali e li affronta con i soliti strumenti, esausti ed estenuanti quanto inefficaci: sensazionalismo, ipertrofia della comunicazione social, divinizzazione di singoli individui che, nonostante il coraggio e la ragione, sono insufficienti alla salvezza del pianeta.
La protagonista cerca piuttosto, nella natura che la circonda e la separa, di conservare la propria umanità, mai rinunciando ad essa. Proprio per questo comincia a scrivere e a interrogarsi sul gesto dello sconosciuto che compare verso la fine e, unica presenza umana oltre alla sua, potrebbe esserle compagno nella nuova vita ma, al contrario, appare un nemico, residuo rappresentante del mondo “civile” al quale lei non tornerà. Non trova risposta alle proprie domande, ma si interroga comunque. Non si aspetta il lieto fine, non si aspetta nulla: è aperta a tutto.
Le circostanze della mia vita precedente, scrive, mi avevano spesso costretta a mentire; ora, qualsiasi pretesto o ragione per una menzogna erano caduti. Non vivevo più tra gli uomini. Nel bosco ha trovato il posto che le spetta: un cosmos nel quale non c’è spazio per la menzogna perché il confronto con gli elementi è diretto e non lascia possibilità di fughe. Si sopravvive oppure si muore.

Marica: Sì, questo confronto, duro ma diretto, con la natura è il primo passo per ritrovare un io più autentico, che risponde innanzitutto ai bisogni fondamentali (per intenderci, quelli alla base della piramide di Maslow), che si spoglia delle menzogne del vivere civile e che recupera il senso delle priorità. È in questa dimensione che la protagonista compie un’evoluzione: non solo conserva la sua umanità, ma direi che la scopre proprio ora, approfondendola. La vede per contrasto e la vede nella sua essenza più pura, la consapevolezza.
La gatta gioca col topo incurante della sua sofferenza, la donna sceglie invece di non uccidere la volpe che ha ucciso la gatta: «l’unica creatura in grado di agire in modo giusto o ingiusto nel bosco sono io». La selvaggina agisce per fame, la donna condivide con essa le poche castagne rimaste: «qualcosa di radicato nella mia natura mi rendeva impossibile abbandonare ciò che mi era stato affidato». Le bestie vivono nel solo presente, «senza timori e senza speranza», la donna per un futuro, pianificando e sperando. Ha quindi un ruolo diverso nel mondo, e una responsabilità diversa.
In quel vivere civile da cui giocoforza si apparta non c’erano solo le illusioni negative, ma anche quelle positive (un po’ alla Foscolo se vogliamo): l’amore, la cura, l’arte. La Piccola serenata notturna di Mozart le manca, quella della pioggia che gliela ricorda non è abbastanza. Lo sconosciuto che incontra alla fine non ha fatto tutta questa strada: nella natura si è abbrutito, distrugge indiscriminatamente e pertanto si autodistrugge. È malvagio. Forse perché anche prima, nei suoi abiti borghesi ancora lindi, la musica classica non l’aveva ascoltata che per ego. E allora il punto è che se non muta l’animo umano, nessuna rivoluzione o protesta cambierà le cose.

Giada: Infatti mancano del tutto, in questo libro, i sentimenti e i comportamenti della rivoluzione e della protesta. Mai la protagonista reagisce alla nuova condizione ribellandosi o trasformandosi nella vittima di un cosmo malvagio o di un fato avverso. Il confronto tra il presente e un passato pur non idilliaco è spesso doloroso, lei però si aggrappa alla propria lucidità, alla propria ragione, con il sostegno degli affetti animali che sono diventati la sua comunità. Certo, nella sua resilienza non c’è gioia, e amare una mucca o una gatta è più facile che amare un essere umano. Ma, scrive, nel mondo da cui ormai è separata non si consente di vivere impunemente a chi abbia troppo gusto per la vita: nella nuova condizione, isolata da ogni altro essere umano, per la prima volta, lei si sente pacificata. E, sì, d’accordo, la felicità è un’altra cosa, tuttavia la costruzione di una convivenza armonica con i propri simili per qualcuno è impossibile. L’uomo è un animale sociale? Difficile portare prove contrarie, ma forse è il caso di ampliare il senso che diamo alla parola società.

Marica: Si sente pacificata quando riesce a entrare in sintonia con il tempo e lo spazio della natura. Diventa allora chiaro che rispettarne l’equilibrio, cacciando per necessità e senza compromettere riproduzione e biodiversità, vuol dire sopravvivere. Ma, al contempo, non si erge a salvatrice del mondo. «Non sono il Dio delle lucertole, e nemmeno quello dei gatti. Sono uno spettatore, che farebbe meglio a non immischiarsi affatto». Resta umile. Conosce la sua giusta misura, proprio perché sull’Alpe abbandona quell’individualismo che dicevi, non essendo possibile «restare un io singolo e separato, una piccola vita cieca e caparbia, restia a inserirsi nella grande comunità».
Non credo si possa eliminare il bisogno dei propri simili. «Se siamo soli e infelici accettiamo volentieri anche l’amicizia dei nostri lontani cugini», gli animali, ma il vuoto che la donna prova quando sente il proprio volto superfluo perché «non esisteva più nessuno ad amarlo» parla chiaro: non è vezzo, ma sostanza. «Non esiste impulso più ragionevole dell’amore […]. Solo, avremmo dovuto riconoscere che si trattava della nostra unica possibilità, della nostra sola speranza in una vita migliore».
Appunto. Il significato di società va ampliato, in orizzontale, agli animali, alle piante, alla terra, ma anche in verticale: alla cultura come sviluppo consapevole e integrato di mente e corpo; all’amore come logica primaria, non conflittuale, di gestione delle relazioni; alla felicità come interdipendenza di benessere individuale e collettivo. Perché prima di dire cose ecologiche o di fare cose ecologiche, occorre essere ecologici, in sé e verso di sé.

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