Horkheimer, sociologo, fu il fondatore dell’Istituto di ricerche sociali che a Francoforte fu attivo intorno agli anni trenta del novecento. Insieme con Adorno e poi con Eric Fromm ed Herbert Marcuse dette vita a quella che fu chiamata la Scuola di Francoforte, cioè quella scuola di pensatori, sociologi e filosofi che sviluppò la cosiddetta teoria critica della società e dell’ideologia capitalistica.
In Dialettica dell’Illuminismo, Horkheimer e Adorno (filosofo e musicologo) propongono una rilettura della società come era andata sviluppandosi dopo l’Illuminismo, di cui elaborano una critica impietosa. Secondo questi pensatori c’è una perfetta continuità tra la logica illuministica e la logica del dominio capitalista.
A rileggere oggi il testo di Horkheimer e Adorno, a settant’anni di distanza, sembrerebbe che già tutto era stato detto fin dal 1946 inDialettica dell’Illuminismo. Ma l’impressione è che noi europei si sia preso molto sottogamba l’avvertimento dei due di Francoforte, che ci avvertivano che nella terra della ragione illuminata brillava (brilla) un sole di sventura.
Dialettica dell’Illuminismo: la stessa che molti hanno creduto di scorgere nel corso di tutto l’arco della rivoluzione francese, che dell’Illuminismo dopotutto è figlia. O preferiamo credere che la rivoluzione finisca nel terrore non in base a una sua logica (pardon, dialettica) genetica ma solo perché è scappata di mani ai giacobini? Che la rivoluzione non contenesse in sé i germi della restaurazione? Che la restaurazione non fosse in qualche modo endogena? Credo che una buona parte dell’eredità dell’Illuminismo risieda in questo tipo di domande.
Ma noi sappiamo che l’Illuminismo resta per noi una premessa necessaria ed irrinunciabile, anche se – nel momento in cui lo dichiariamo come principio etico e nella prassi – non possiamo non prendere atto dei suoi limiti e delle sue contraddizioni. Se mi si chiedesse che cosa significa per me essere dalla parte dell’Illuminismo, risponderei parafrasando Benedetto Croce (un’eresia, lo ammetto, perchè lui era invece il più serio ed autentico dei liberali): non mi è possibile non esserlo. Ma esserlo comporta fare i conti con la nostra storia, anche quella personale. E sono conti che richiedono verifiche impietose e confronti dolorosi. Perchè c’è sempre un grano di giacobinismo in noi, di rigidità etica, forse addirittura di intolleranza.
Dichiaro però che a queste “terribili” qualità io non potrei rinunciare: credo si possa perdere tutto nella vita ma non la speranza, pena (appunto) la di-sperazione. Perché la tolleranza, la duttilità e il compromesso sono caratteristiche proprie dei liberali e dei liberisti (tra i quali ultimi primeggiano per visibilità - “con cravatte intonate alla camicia”,come cantava Francesco De Gregori - i post-comunisti: sgomberato il loro passato senza una autocritica o una riflessione, hanno riempito il loro vuoto torricelliano con ben incasellate formulette “liberal”). Quel che succede in Italia in questi torridi giorni d’estate è paradigmatico dei limiti e delle contraddizioni di questa malattia genetica: bloccati nella loro afasia di pensiero, incapaci di esprimere coraggiosi progetti sociali, civili e politici, nella loro ormai strutturata ricerca di un consenso purchessia, costoro che - secondo la vulgata classica, non rivisitata da Horkheimer e Adorno – dovremmo considerare gli eredi naturali dell’Illuminismo più illuminato, si dimostrano essere i più convinti sostenitori del “buon governo” borghese e del riformismo socialdemocratico.
Che avessero ragione i due di Francoforte?
E se avevano ragione, dove sono i veri, gli ultimi gauchistes, quelli a cui non bastano il buon governo e il riformismo, quelli che inseguono sempre una società nuova che non ritengono irraggiungibile, come nel duello tra Achille e la tartaruga ?
Max Horkheimer e Theodor W. Adorno
Dialettica dell’Illuminismo. Frammenti filosofici
Biblioteca di Cultura Filosofica, 279
Giulio Einaudi Editore, 1966