Per avere un Paese sano, i cittadini non devono solo studiare. Ma continuare a studiare

di Rossella Cappetta - Egea - 20/10/2019
Suggerimento di Gianni Castellan

Blocco all’apprendimento degli adulti e perdita di benessere delle comunità

Al di là di poche eccezioni (per l’Italia, De Mauro, 2017), non fanno molto scalpore notizie che testimoniano il quasi completo blocco dei processi di apprendimento per fasce maggioritarie della popolazione già a pochi anni dalla conclusione dei percorsi di istruzione formale. I dati evidenziano che, terminati i cicli educativi formali, vi è una parte molto ampia di persone con competenze di base insufficienti. Insufficienti per il lavoro, insufficienti per un’adeguata vita di relazione nei sempre più complessi contesti sociali. Si tratta di persone che hanno un accesso limitato o nullo a nuove conoscenze. Non attivano processi di apprendimento a casa, perché non accedono a consumi culturali (a titolo esemplificativo, in Italia una famiglia su dieci dichiara di non avere alcun libro in casa e circa il 30 per cento dichiara di avere meno di 25 libri, Istat, 2015). Non hanno accesso ad alcuna attività formativa nelle imprese per cui lavorano. Per molte di queste persone il processo di crescita delle conoscenze si blocca quasi completamente il giorno in cui la scuola finisce.

Eppure i processi di apprendimento nel corso della sempre più lunga storia, anagrafica e lavorativa, delle persone sono vitali. Dato che la dotazione di conoscenze non si acquisisce una volta per sempre, senza attenzione al processo di apprendimento continuo anche persone caratterizzate da un titolo di studio elevato possono trovarsi in poco tempo ad avere un patrimonio di conoscenze obsoleto. Infatti, le conoscenze che una persona acquisisce non rimangono stabili nel tempo e si deteriorano se non continuativamente alimentate dalla riattivazione dei processi di apprendimento. Ovvero, pur partendo da un elevato grado di scolarità, una persona può ritrovarsi in poco tempo a non avere le conoscenze necessarie ad agire efficacemente nei contesti in cui si trova. Se la persona smette di apprendere, smette di svilupparsi e questo può valere nell’ambito personale quanto in quello professionale. Smette di rinnovare il proprio patrimonio di conoscenze, di capacità. E smettendo di rinnovarsi, questo patrimonio non rimane a livello di partenza, ma si riduce sempre di più. Se non si apprendono conoscenze nuove, quanto abbiamo già imparato è sempre meno utile perché il mondo intorno a noi cambia, ma anche perché smettendo di imparare, disimpariamo quanto avevamo imparato in passato.

L’analfabetismo è la condizione di colui che non sa né leggere né scrivere ed evidentemente l’introduzione di un sempre più esteso obbligo nei sistemi educativi di un numero crescente di comunità ha molto ridotto il tasso di analfabetismo dei Paesi industrializzati. Ma esiste anche un analfabetismo funzionale e questo non decresce in modo proporzionale alla crescita dei tassi di scolarizzazione, al punto che un Paese con tassi di scolarizzazione relativamente alti come l’Italia si ritrovi fra i primi Paesi OCSE per lavoratori con un bassissimo livello di competenze (OECD, 2017b). Si tratta di persone che, dopo la fine del percorso obbligatorio di studio, hanno un accesso molto limitato a nuove conoscenze e, di conseguenza, vedono ridurre il proprio livello di alfabetizzazione fino al punto di non poter «intraprendere in maniera efficace tutte quelle attività che (...) gli permettono di usare la lettura, la scrittura, e il calcolo per lo sviluppo suo proprio e quello della comunità» (Unesco, 1978).

L’analfabeta funzionale è una persona che ha capacità di base di scrittura, lettura e numeriche, ma non è in grado di applicarle per svolgere le attività che gli sono necessarie a prendere decisioni consapevoli e a partecipare in modo attivo alla vita sociale e lavorativa (Word Literacy Foundation, 2015). Per esempio non è in grado di leggere il bugiardino di un farmaco o le informazioni nutrizionali di un cibo, di completare una richiesta di lavoro, di usare correttamente la posta elettronica per finalità professionali, di chiedere un mutuo, di leggere le documentazioni bancarie, di comparare due offerte al supermercato e così via. Ne consegue che una bassa alfabetizzazione funzionale limita le persone nello svolgimento di quelle attività che richiedono pensiero critico e capacità sviluppate di analisi e sintesi: capire le politiche governative e votare consapevolmente, calcolare costi e ritorni di un investimento finanziario, usare correttamente le tecnologie per trovare informazioni affidabili e così via. In sintesi, quindi, una persona con una bassa alfabetizzazione funzionale fa fatica a relazionarsi attivamente e in modo consapevole nella società in cui vive.

L’indagine OCSE-PIACC sull’alfabetismo (OECD, 2016; Isfol, 2016) mostra una grande variabilità nel livello di competenze medie dei 33 Paesi coinvolti nell’indagine. Evidenzia che il titolo di studio posseduto spiega una parte rilevante del livello di competenze di una persona, ma anche che le competenze acquisite con lo studio si possono erodere facilmente e che livelli bassi di alfabetismo sono comuni anche in Paesi con tassi di scolarizzazione altissimi. A tal proposito, fa abbastanza impressione che l’Italia sia il quart’ultimo Paese nella classifica (seguito da Turchia, Cile e Giacarta-Indonesia), con circa il 40 per cento degli individui in una condizione di basso alfabetismo.

da Apprendimento non-stop, di Rossella Cappetta, Egea (2019)

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