Qualche tempo fa qui si notava come il Jobs Act, prevedendo la possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore (seppure di un solo livello, a parità di salario e in caso di mutamenti organizzativi decisi dall'azienda) tenda a creare tra l'altro un fattore facilitante del mobbing o più precisamente del cosiddetto "bullying at work", cioè di quell'insieme di pressioni, ingiustizie e talvolta vessazioni che vengono esercitate dall'alto verso il basso, dai capi sui sottoposti.
Del tema ho continuato a occuparmi e ci sto lavorando per il mio giornale, cosa che mi ha permesso di approfondire la questione e di intervistare studiosi ed esperti del tema, soprattutto medici psichiatri (per le conseguenze patologiche dello "stress lavoro-correlato") e giuslavoristi (per le conseguenze legali).
Così ho scoperto un aspetto del Jobs Act che mi era sfuggito (ma non solo a me: il dibattito in proposito è stato quasi zero) e che probabilmente finirà per avere più conseguenze pratiche su milioni di persone, anche perché non si applica solo ai nuovi assunti ma a tutti i lavoratori dipendenti, compresi quelli con vecchi contratti.
L'aspetto in questione - che va ad assommarsi al già citato
demansionamento di un livello - è la sostituzione di una parolina nella
legge che stabilisce la possibilità di mutare orizzontalmente le
mansioni di un lavoratore (cioè all'interno della stessa categoria
contrattuale, senza formale discesa di livello).
Quella parolina è "equivalente": prima del Jobs Act, si poteva spostare un lavoratore orizzontalmente solo se nel nuovo incarico lo si destinava a una "mansione equivalente", cioè che tenesse conto del suo titolo di studio e soprattutto del suo know-how, insomma di quello che sapeva fare; adesso "equivalente" è stato sostituito con "riconducibile".
Sembra una sciocchezza ma non lo è affatto. Non lo è perché, mi hanno spiegato i giuslavoristi, questo mutamento dello "ius variandi" consente all'azienda, in qualsiasi momento, di spostare un dipendente da una mansione all'altra - purché sotto la stessa categoria contrattuale - in modo arbitrario e unilaterale, senza fornire alcuna spiegazione, senza bisogno di fare alcuna ristrutturazione organizzativa e un numero infinito di volte.
Il problema principale è che questi "ombrelli" di categoria contrattuale (essendo stati pensati per tutt'altro) in Italia sono molto "larghi", eterogenei, e non tengono conto di quello che uno sa fare o no. Così ad esempio un laureato in legge che in un'azienda svolge lavori di tipo legale, ora può essere spostato a mansioni contabili; o un fiscalista può essere mandato a fare l'informatico; e così via quasi all'infinito.
Il problema ovviamente non si pone quando l'azienda è sana e le sue relazioni interne sono civili: un imprenditore serio ha tutto l'interesse ad attribuire a un dipendente le mansioni che meglio sa fare. Si pone tuttavia - e parecchio - nelle situazioni aziendali che sono invece patologiche (che purtroppo in Italia riguardano alcuni milioni di posizioni lavorative, come prova la vasta letteratura scientifica e statistica): ad esempio, se un datore di lavoro vuole punire un dipendente per motivi politici o sindacali (ma anche, semplicemente, "di cordata"); se l'azienda vuole aggirare le vecchie tutele contrattuali sull'illicenziabilità (che valgono ancora per gli assunti prima del Jobs Act) e indurre alle cosiddette "dimissioni estorte"; se un capo (di solito maschio) è stato rifiutato da un dipendente (di solito femmina); eccetera, in tutti i casi di rapporti non sani tra alto e basso.
Inoltre, costringere un lavoratore a mansioni che non sa svolgere è cosa che lo rende facilmente oggetto di lettere di richiamo e altri provvedimenti, per la sua prevedibile scarsità produttiva, anche se di questa scarsa produttività non è evidentemente responsabile.
Questo tipo di "accantonamento punitivo" - lo ripeto - è ovviamente destinato ad avvenire non nelle imprese dove le relazioni industriali e sindacali sono paritarie e rispettose, ma in quelle in cui lo stesso rispetto non vige, che tuttavia non sono poche: e in ogni caso la legge dovrebbe servire a mettere dei paletti proprio a quelle.
In questo senso, rimando chi è interessato ad approfondire all'articolo scritto pochi giorni fa sul tema dal professor Mario Meucci, giuslavorista che da molti anni si occupa del problema e che del mobbing ha scritto la "bibbia" giuridica, "Danni da mobbing e loro risarcibilità" (Ediesse editore, 606 pagine).
Nell'articolo (un po' tecnico, ma chiaro) si evidenzia come la cosiddetta "equivalenza" appena abolita costituisse «una salvaguardia da dequalificanti degradazioni» e ora «non è irrealistico prevedere come le conseguenze di questa modifica saranno suscettibili di rivelarsi nefaste per i lavoratori, giacché è notorio che nei contratti collettivi vengono poste nello stesso livello di inquadramento mansioni riconducibili a professionalità spesso del tutto eterogenee tra loro».
In sostanza, dice Meucci, il legislatore ha operato «con uno sguardo al passato, rivelatore di una propensione all'arretramento», e «la riscrittura dell'art. 2103 c. c » (quello sul demansionamento orizzontale, appunto) «costituisce un arretramento delle tutele per la parte debole del rapporto di lavoro, accompagnata dalla privazione dell'intervento riequilibratore e sanzionatorio del Giudice per i casi di arbitrio datoriale».
Ecco: quando si parla di Jobs Act, ma più in generale delle decisioni sociali di questo governo, si ha spesso la tendenza a non entrare nei problemi specifici, nelle cose concrete, ad accontentarsi dei giudizi superficiali o ideologici tipo "aumenterà i posti di lavoro", "meno lacci e lacciuoli alle imprese" e altre frasi stereotipate, che vengono ripetute infinite volte fino a rimbambirci.
A me piacerebbe invece che il dibattito fosse su queste concretissime cose (e più in là parliamo anche del telecontrollo, eh): sui loro vantaggi, certo, se e quando ce ne sono di provabili; ma anche rapportandoli, confrontandoli e bilanciandoli con i loro costi: sociali, esistenziali, sanitari, psicologici, culturali ed economici.