Ho chiesto di intervenire in dissenso su questo importante e delicato tema delle riforme costituzionali, perché sono profondamente convinto del fatto che la discussione e il confronto delle idee siano per davvero il sale della democrazia. Forse, alle volte, sarebbe più semplice tacere o mettersi da parte o fingersi accondiscendenti. Questo atteggiamento però, soprattutto in questa materia, presenterebbe aspetti di rinuncia o di annullamento, culturale sociale ed etico, francamente inaccettabili e privi del senso di responsabilità istituzionale che ci dovrebbe caratterizzare come parlamentari e come persone.
Il tempo concessomi è estremamente limitato e mi permetterà soltanto di accennare ai motivi e alle questioni che, a mio parere, impediscono un voto favorevole alle proposte di riforma della Costituzione al nostro esame. Per tale motivo, chiedo comunque al Presidente del Senato di autorizzarmi a consegnare il testo scritto completo del mio intervento e a volerlo allegare agli atti di questa seduta.
Procederò pertanto per flash, limitandomi ad accennare ai capitoli del mio intervento.
Già in sede di prima lettura, nell'agosto del 2014, non avevo ritenuto di dover prestare consenso al testo sottoposto al voto dell'assemblea del Senato. Ero uscito dall'aula, come altri colleghi, confidando in una resipiscenza del legislatore alla Camera dei Deputati, volta a correggere quelle che, a mio avviso, erano delle storture vere e proprie dell'ordinamento costituzionale, pur riconoscendo ovviamente alla maggioranza la facoltà di intervenire, a propria pur non assoluta discrezione, a modifica della Carta costituzionale vigente.
Dalla Camera dei Deputati però è stato restituito al Senato un testo di riforma ancora più involuto e incoerente.
Confidavo in un lavoro diverso del Senato e maggiormente approfondito in questa seconda lettura, forse utopisticamente. E in effetti poco di diverso è successo rispetto al percorso decisamente intrapreso, fin dall'inizio, dai promotori della riforma.
Riforma in cui non mi ritrovo, probabilmente anzi certamente per una diversa sensibilità (e visione), giuridica culturale e sociale, da parte mia.
Io credo in una Costituzione caratterizzata da quell'intrinseco equilibrio originale di rapporti istituzionali, ordinamentali, sociali, basati su di un chiaro e netto principio di rappresentanza politica, ora messo fortemente in discussione dalla vigenza di una legge elettorale quale quella definita "Italicum" e dalla creazione di una architettura costituzionale sbilanciata a favore del potere esecutivo.
Con questa riforma ho l'impressione che si esca da quel solco, pur riconoscendo ovviamente la legittimità di ogni intento modificatore, naturalmente secondo le regole normativamente fissate.
Ma troppi e troppo rilevanti sono i punti della riforma che mi trovano in disaccordo, pur condividendone alcuni significativi aspetti, come quelli relativi al superamento del bicameralismo perfetto, al fatto che la fiducia al governo dovrà essere accordata da una sola Camera, alla abolizione del CNEL, alla diminuzione del numero dei parlamentari, anche se di più e di meglio si poteva fare, soprattutto rispetto al numero dei deputati.
Mi resta solo il tempo di indicare i titoli dei capitoletti della mia memoria completa che consegnerò e che marcano il mio disaccordo.
1. Creazione di un nuovo organismo parlamentare ibrido: il nuovo Senato
2. Carenza di contro-poteri e rischio di premierato “assoluto”
3. Competenze sui diritti fondamentali delle persone e complicazione delle procedure legislative
4. Simulacro confuso e pasticciato di elezione diretta dei senatori
5. Rapporto tra Stato e Regioni: disciplina regressiva, foriera di conflitti
6. Necessità di ulteriori, diversificati interventi costituzionali
7. Il Metodo
1. Creazione di un nuovo organismo parlamentare ibrido: il nuovo Senato
Con la riforma, si rischia di passare da un bicameralismo perfetto ad un bicameralismo confuso, ad un ibrido. Non si istituisce un nuovo Senato delle Autonomie, nè tanto meno un Senato delle Garanzie. Quanto ai rapporti tra i due Rami del Parlamento, la Camera dei Deputati -numericamente più forte del Senato (di circa sei volte) – diventerebbe la sola titolare del rapporto fiduciario con il Governo (e questo in un'ottica generale ha un senso), ma anche dei poteri (legislativi e d’indirizzo e controllo) più rilevanti, a fronte di un Senato debole e di natura incerta (né organo “di garanzia”, né dotato di funzioni politiche significative). Ciò determinerebbe un monocameralismo di fatto che, seppur considerabile in linea di principio, stride tuttavia con una legge elettorale ipermaggioritaria. Un Senato così concepito, con una legittimazione democratica comunque debole in ragione della mancata o comunque "attenuata" elettività (pur sempre di secondo grado, con la prevista designazione sulla scheda elettorale, ma con una “ratifica” d’incerta natura da parte dei Consigli regionali), finisce con lo smarrire il suo senso. Se, infatti, è condivisibile il superamento del bicameralismo paritario, è anche vero che altre soluzioni sarebbero state preferibili: o un monocameralismo nel quadro di un sistema proporzionale sia pur corretto ovvero una Camera della autonomie dotata di una legittimazione più netta e di poteri più incisivi oppure, ancora, un Senato “di garanzia”, a fungere da contrappeso reale per tutto su cui, come diceva Bobbio, “la maggioranza non può decidere da sola”. Anche lo statuto delle opposizioni, rimesso alla disciplina del regolamento della Camera, sembra in tal senso non del tutto sufficiente. Così concepita, la riforma neppure determina un rilevante contenimento degli oneri; fine che meglio avrebbe potuto essere perseguito riducendo il numero dei deputati e così riequilibrando anche i rapporti tra i due Rami del Parlamento.
2. Carenza di contro-poteri e rischio di premierato "assoluto"
Si è molto discusso di questo rischio di premierato assoluto: non tanto perchè autoritario, quanto perchè privo di adeguati contro-poteri, che sarebbero sempre necessari in una democrazia. Il combinato disposto di revisione costituzionale e legge elettorale -con un fortissimo premio di maggioranza al partito anziché alla coalizione- muta di fatto la forma di governo: da parlamentare in premierato, non potendo più ritenersi il Presidente del Consiglio, in questo nuovo assetto, quel "primus inter pares" prefigurato dalla Costituzione del 1947. Egli diviene, infatti, in tal modo, il vertica esponenziale del governo, dotato di legittimazione propria e di poteri non adeguatamente contro-bilanciati da un idoneo sistema di "check and balances". Tale mutamento ordinamentale ha, del resto, effetti non trascurabili sulla prima parte della Costituzione e sui diritti fondamentali ivi sanciti. Inoltre, approfondendo le conseguenze del cambiamento e provando ad esercitare quella prova "di resistenza" che si usa fare valutando l'applicazione delle leggi "in the worst scenario" - il combinato disposto della legge elettorale "Italicum" e della riforma costituzionale rischia di attribuire ad una forza politica (e al suo leader), pur con meno di un terzo dei suffragi, in virtù del solo ballottaggio, il potere di scegliere i giudici costituzionali di nomina parlamentare, di eleggere il Capo dello Stato con i soli 3/5 dei votanti sia pur dopo votazioni infruttuose, di dichiarare lo stato di guerra, di deliberare su diritti fondamentali e sulle garanzie di indipendenza della magistratura anche scegliendo di fatto tutti i membri laici del C.S.M., di procedere a revisione costituzionale sia pur sottoponendola a referendum. Se poi si considera la scarsa legittimazione dei parlamentari (i cui capilista sarebbero scelti dai segretari di partito, a fronte della investitura del presidente del Consiglio da parte dei cittadini con il ballottaggio o comunque con l'indicazione da parte della forza politica del proprio candidato), questa asimmetria nella legittimazione di Presidente del Consiglio e parlamentari determina una alterazione negli equilibri tra Governo e parlamento, tutta in favore del primo e senza adeguati correttivi.
3. Competenze sui diritti fondamentali delle persone e complicazione delle procedure legislative
Ritengo un grave errore l’aver privato il Senato della competenza in materie che riguardano comunque i diritti civili e di libertà (che spesso intersecano questioni delicate come quelle bioetiche), nonché i presupposti necessari della democrazia (dal pluralismo alla libertà di stampa; dall’assetto delle magistrature alla disciplina processuale, in cui molti di quei diritti fondamentali trovano attuazione). Rimettere la decisione su temi così essenziali per la tenuta di una democrazia alla sola maggioranza di Governo espressa alla Camera dei deputati - e neppure realmente rappresentativa della maggioranza del Paese, perché artificialmente costruita da un premio sproporzionato a una lista - vuol dire rendere i diritti fondamentali ostaggio delle schermaglie maggioranza-opposizione e, in definitiva, rimetterne la disciplina alla discrezionalità del leader del partito risultato vincitore. "A contrariis", va ricordato come in più occasioni la verifica "paritaria" delle due Camere su queste materie abbia costituito un baluardo di libertà e democrazia, magari anche solo correggendo banali errori della "prima lettura".
Per quanto attiene poi alla fase della formazione delle leggi, è ancora tutto da verificare che la dichiarata (e condivisibile) volontà di semplificazione riesca a raggiungere l'obiettivo prefissato. Infatti, nel disegno di legge costituzionale sono previste almeno una decina di differenti modalità procedurali e ancor più di principi ispiratori, che determineranno incomprensioni e conflitti. Ciò attiene da una parte alle materie di ripartizione delle competenze tra le due Camere e dall'altra alle maggioranze variabili imposte alle stesse Camere. Basta scorrere il testo degli articoli 10, 81 e 117 per rendersi conto del guazzabuglio. Per di più, come segnalano i "tecnici" del Senato nel loro dossier, in assenza di una norma che possa dirimere incertezze e conflitti tra gli stessi Presidenti delle due Camere. Quali le conseguenze? Possibili rischi di ricorsi a non finire sulla attribuzione di competenze tra le due Camere, per un procedimento legislativo che si voleva semplificare, ma che si rivela invece più complesso e farraginoso.
4. Simulacro confuso e pasticciato di elezione diretta dei senatori
Non è stata superata l'ambiguità determinata dallo scontro di vedute tra elezione diretta ed elezione di secondo grado dei senatori. I correttivi da ultimo apportati, compresa la necessità di ricorrere in una successione temporale teoricamente prestabilita a leggi di rango primario nazionale e a distinte leggi regionali, confermano la confusione, oltre che la incertezza e la irragionevolezza, della normativa in questione. Scrivere in un comma che i senatori sono eletti dagli "organi delle istituzioni territoriali" e in un altro "in conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi..." significa non decidere quale sistema si vuol adottare e contorcersi in una logica confusa. Significa rischiare di dare spazio alle peggiori clientele politiche territoriali o ad avvocati in attesa di cause laute e senza fine. Significa, istituzionalmente, aver creato una sorta di mostro bicefalo, una novità mondiale assoluta, di certo non espressione della volontà e sovranità popolare, quanto piuttosto dei giochi di partito. Se poi si considera come rimanga tuttora irrisolto, anzi nemmeno prefigurato, ogni riferimento alla elezione in Senato dei sindaci, le perplessità non possono che aumentare, anche sotto il profilo della legittimità costituzionale. "Dulcis in fundo", il solo pensare ad un Senato "a formazione progressiva", in ragione delle diverse scadenze degli organismi territoriali, non fa che marcare il tasso di incertezza, confusione ed irragionevolezza, sol che si provi ad immaginare come potranno svolgersi i lavori di commissione e d'aula.
5. Rapporto tra Stato e Regioni: disciplina confusa e regressiva, foriera di conflitti
Forti perplessità desta pure il rapporto tra Stato ed Enti autonomi territoriali, così come si configura nella attuale riforma. Seppur è vero che l'assetto delineato con la legge costituzionale n.3 del 2001 aveva determinato un contenzioso a non finire e certamente da ridimensionare (soprattutto in materia di legislazione concorrente), quel che sta uscendo dalle nuove norme costituzionali è un ritorno ad una sorta di centralizzazione, che sconfessa l'evoluzione storica sociale economica e politica degli ultimi decenni. Ed è francamente eccessiva. Rischia soprattutto di segnare una ingiustificata regressione rispetto alle esperienze migliori del regionalismo italiano, anche in ragione di una clausola di supremazia che rischia (anche qui ragionando in termini di "worst scenario") di erodere ulteriormente le competenze autonome territoriali, sottraendo alle Regioni il governo del territorio. Inoltre, in prospettiva, questa riscrittura dei rapporti tra Stato e Regioni in senso centralista rischia di alimentare, per motivi diversi, quel contenzioso per la cui riduzione si è deciso di eliminare la competenza legislativa ripartita, altrimenti capace di armonizzare esigenze di uniformità nei principi e di adeguamento alla realtà di riferimento nelle scelte di dettaglio.
6. Necessità di ulteriori, diversificati interventi costituzionali
Manca poi una riflessione (perchè negata da presunte inammissibilità) su aspetti che invece sarebbe stato opportuno approfondire, quali ad esempio la revisione del sistema delle immunità, delle prerogative, dei titoli e delle incopatibilità (anche eventualmente affidandone il sindacato alla Corte costituzionale o ad altro organismo terzo, in modo da escludere comunque ogni ipotesi di "iurisdictio domestica"), soprattutto per i "nuovi" senatori (tanto più in ragione della loro carente legittimazione democratica e del loro essere scelti per la titolarità di un diverso mandato); la previsione dell’unità della giurisdizione e di garanzie effettive di indipendenza (interna ed esterna) della magistratura; l’assetto delle Autorità indipendenti in modo da disciplinarne, con cautele adeguate, il ruolo di garanzia di diritti fondamentali o comunque la funzione regolatoria; i diritti fondamentali (anche quelli di “nuova generazione” come il diritto di accesso alla rete) e i loro sistemi di tutela.
7. Il Metodo
Non riesco infine a riconoscermi in un percorso di revisione costituzionale, per di più così profonda, che non abbia utilizzato come metodo primario quello rispettato dai nostri Costituenti del 1947, ossia il contemperamento delle diverse sensibilità. Un dialogo costruttivo, per quanto difficile e complicato, anche a costo di un apparentemente inutile rallentamento dei tempi. Soprattutto per una riforma della Carta fondamentale costituzionale, non si può prescindere dalla ricerca della soluzione migliore, trattandosi in sostanza di estendere la base del consenso attorno ad una idea di riforma realmente condivisa. Il fattore-tempo non può prevalere su questioni che attengono alla tutela degli interessi primari dello Stato, dei rapporti tra poteri, della garanzia di diritti e libertà fondamentali; in ultima istanza, della nostra idea di democrazia. Proprio per l'estrema importanza, vitale direi, della materia: la "Grundnorm" scriveva Hans Kelsen, la norma fondamentale da cui ogni altra trae legittimità.