Mentre scrivo i carri armati israeliani sono
entrati nella «Striscia». La giornata è iniziata allo stesso modo in cui è
finita quella che l’ha preceduta, con la terra che continua a tremare sotto i
nostri piedi, il cielo e il mare, senza sosta alcuna, a tremare sulle nostre
teste, sui destini di un milione e mezzo di persone che sono passate dalla
tragedia di un assedio, alla catastrofe di bombardamenti che fanno dei civili
il loro bersaglio predestinato. Il posto è avvolto dalle fiamme, cannonate dal
mare e bombe dal cielo per tutta la mattina. Le stesse imbarcazioni di
pescatori che scortavamo fino a quale giorno fa in alto mare, ben oltre le sei
miglia imposte da Israele come assedio illegale criminoso, le vedo ora ridotte
a tizzoni ardenti. Se i pompieri tentassero di domare l’incendio, finirebbero
bersagliati dalle mitragliatrici degli F16, è già successo ieri. Dopo questa
massiccia offensiva, finito il conteggio dei morti, se mai sarà possibile, si
dovrà ricostruire una città sopra un deserto di macerie.
Livni dichiara al mondo che non esiste un’emergenza umanitaria a Gaza: evidentemente il negazionismo non va di moda solo dalle parti di Ahmadinejad. I palestinesi su una cosa sono d’accordo con la Livni, ex serial killer al soldo del Mossad, (come mi dice Joseph, autista di ambulanze): più beni alimentari stanno davvero filtrando all’interno della striscia, semplicemente perché a dicembre non è passato pressoché nulla, oltre la cortina di filo spinato teso da Israele. Ma che senso realmente ha servire pane appena sfornato all’interno di un cimitero? L’emergenza è fermare subito le bombe, prima ancora dei rifornimenti di viveri. I cadaveri non mangiano, vanno solo a concimare la terra, che qui a Gaza non è mai stata così fertile di decomposizione.
I corpi smembrati dei bimbi negli obitori invece dovrebbero nutrire i sensi di colpa, negli indifferenti, verso chi avrebbe potuto fare qualche cosa. Le immagini di un Obama sorridente che gioca a golf sono passate su tutte le televisioni satellitari arabe, ma da queste parti nessuno si illude che basti il pigmento della pelle a marcare radicalmente la politica estera statunitense. Ieri (venerdì, ndr) Israele ha aperto il valico di Herez per far evacuare tutti gli stranieri presenti a Gaza. Noi, internazionali della Ism, siamo gli unici a essere rimasti. Abbiamo risposto oggi (ieri, ndr) tramite una conferenza stampa al governo israeliano, illustrando le motivazioni che ci costringono a non muoverci da dove ci troviamo. Ci ripugna che i valichi vengano aperti per evacuare cittadini stranieri, gli unici possibili testimoni di questo massacro, e non si aprano in direzione inversa per far entrare i molti dottori e infermieri stranieri che sono pronti a venire a portare assistenza ai loro eroici colleghi palestinesi. Non ce ne andiamo perché riteniamo essenziale la nostra presenza come testimoni oculari dei crimini contro l’inerme popolazione civile ora per ora, minuto per minuto.
Siamo a 445 morti, più di 2.300 feriti, decine i dispersi. Settantatré, al momento in cui scrivo, i minori maciullati da bombe. Al momento Israele conta tre vittime in tutto. Non siamo fuggiti come ci hanno consigliato i nostri consolati perché siamo ben consci che il nostro apporto sulle ambulanze come scudi umani nel dare prima assistenza ai soccorsi potrebbe rivelarsi determinante per salvare vite. Anche ieri un’ambulanza è stata colpita a Gaza City, il giorno prima due dottori del campo profughi di Jabalia erano morti colpiti in pieno da un missile sparato da un Apache. Personalmente, non mi muovo da qui perché sono gli amici ad avermi pregato di non abbandonarli. Gli amici ancora vivi, ma anche quelli morti, che come fantasmi popolano le mie notti insonni. I loro volti diafani ancora mi sorridono. Ore 19.33, ospedale della Mezza Luna Rossa, Jabalia. Mentre ero in collegamento telefonico con la folla in protesta in piazza a Milano, due bombe sono cadute dinanzi all’ospedale. I vetri della facciata sono andati in pezzi, le ambulanze per puro caso non sono rimaste danneggiate.
I bombardamenti si sono fatti ancora più intensi e massicci nelle ultime ore, la moschea di Ibrahim Maqadme, qui vicino, è appena crollata sotto le bombe: è la decima in una settimana. Undici vittime per ora, una cinquantina i feriti. Un’anziana palestinese incontrata per strada questo pomeriggio mi ha chiesto se Israele pensa di essere nel medioevo, e non nel 2009, per continuare a colpire con precisione le moschee come se fosse concentrato in una personale guerra santa contro i luoghi sacri dell’islam a Gaza. Ancora un’altra pioggia di bombe a Jabalia, e alla fine sono entrati. I cingoli di carri armati che da giorni stazionavano al confine, come mezzi meccanici a digiuno affamati di corpi umani, stanno trovando la loro tragica soddisfazione. Sono entrati in un’area a nord-ovest di Gaza e stanno spianando case metro per metro.
Seppelliscono il passato e il futuro, famiglie intere, una popolazione che scacciata dalle proprie legittime terre non aveva trovato altro rifugio che una baracca n un campo profughi. Siamo corsi qui a Jabaila dopo la terribile minaccia israeliana piovuta dal cielo venerdì sera. Centinaia e centinaia di volantini lanciati dagli aerei intimavano l’evacuazione generale del campo profughi. Minaccia che si sta dimostrando purtroppo reale. Alcuni, i più fortunati, sono scappati all’istante, portandosi via i pochi beni di valore, un televisore, un lettore dvd, i pochi ricordi della vita che era in una Palestina perduta una sessantina di anni fa.
La maggioranza non ha trovato alcun posto dove fuggire. Affronteranno quei cingoli affamati delle loro vite con l‘unica arma che hanno a disposizione, la dignità di saper morire a testa alta. Io e i miei compagni siamo coscienti degli enormi rischi a cui andiamo incontro, questa notte più delle altre; ma siamo certo più a nostro agio qui nel centro dell’inferno di Gaza, che agiati in paradisi metropolitani europei o americani, che festeggiando il nuovo anno non hanno capito quanto in realtà siano causa e complicità di tutte queste morti di civili innocenti.
http://www.infopal.it/leggi.php?id=10294&P...25688d737f724b7
Livni dichiara al mondo che non esiste un’emergenza umanitaria a Gaza: evidentemente il negazionismo non va di moda solo dalle parti di Ahmadinejad. I palestinesi su una cosa sono d’accordo con la Livni, ex serial killer al soldo del Mossad, (come mi dice Joseph, autista di ambulanze): più beni alimentari stanno davvero filtrando all’interno della striscia, semplicemente perché a dicembre non è passato pressoché nulla, oltre la cortina di filo spinato teso da Israele. Ma che senso realmente ha servire pane appena sfornato all’interno di un cimitero? L’emergenza è fermare subito le bombe, prima ancora dei rifornimenti di viveri. I cadaveri non mangiano, vanno solo a concimare la terra, che qui a Gaza non è mai stata così fertile di decomposizione.
I corpi smembrati dei bimbi negli obitori invece dovrebbero nutrire i sensi di colpa, negli indifferenti, verso chi avrebbe potuto fare qualche cosa. Le immagini di un Obama sorridente che gioca a golf sono passate su tutte le televisioni satellitari arabe, ma da queste parti nessuno si illude che basti il pigmento della pelle a marcare radicalmente la politica estera statunitense. Ieri (venerdì, ndr) Israele ha aperto il valico di Herez per far evacuare tutti gli stranieri presenti a Gaza. Noi, internazionali della Ism, siamo gli unici a essere rimasti. Abbiamo risposto oggi (ieri, ndr) tramite una conferenza stampa al governo israeliano, illustrando le motivazioni che ci costringono a non muoverci da dove ci troviamo. Ci ripugna che i valichi vengano aperti per evacuare cittadini stranieri, gli unici possibili testimoni di questo massacro, e non si aprano in direzione inversa per far entrare i molti dottori e infermieri stranieri che sono pronti a venire a portare assistenza ai loro eroici colleghi palestinesi. Non ce ne andiamo perché riteniamo essenziale la nostra presenza come testimoni oculari dei crimini contro l’inerme popolazione civile ora per ora, minuto per minuto.
Siamo a 445 morti, più di 2.300 feriti, decine i dispersi. Settantatré, al momento in cui scrivo, i minori maciullati da bombe. Al momento Israele conta tre vittime in tutto. Non siamo fuggiti come ci hanno consigliato i nostri consolati perché siamo ben consci che il nostro apporto sulle ambulanze come scudi umani nel dare prima assistenza ai soccorsi potrebbe rivelarsi determinante per salvare vite. Anche ieri un’ambulanza è stata colpita a Gaza City, il giorno prima due dottori del campo profughi di Jabalia erano morti colpiti in pieno da un missile sparato da un Apache. Personalmente, non mi muovo da qui perché sono gli amici ad avermi pregato di non abbandonarli. Gli amici ancora vivi, ma anche quelli morti, che come fantasmi popolano le mie notti insonni. I loro volti diafani ancora mi sorridono. Ore 19.33, ospedale della Mezza Luna Rossa, Jabalia. Mentre ero in collegamento telefonico con la folla in protesta in piazza a Milano, due bombe sono cadute dinanzi all’ospedale. I vetri della facciata sono andati in pezzi, le ambulanze per puro caso non sono rimaste danneggiate.
I bombardamenti si sono fatti ancora più intensi e massicci nelle ultime ore, la moschea di Ibrahim Maqadme, qui vicino, è appena crollata sotto le bombe: è la decima in una settimana. Undici vittime per ora, una cinquantina i feriti. Un’anziana palestinese incontrata per strada questo pomeriggio mi ha chiesto se Israele pensa di essere nel medioevo, e non nel 2009, per continuare a colpire con precisione le moschee come se fosse concentrato in una personale guerra santa contro i luoghi sacri dell’islam a Gaza. Ancora un’altra pioggia di bombe a Jabalia, e alla fine sono entrati. I cingoli di carri armati che da giorni stazionavano al confine, come mezzi meccanici a digiuno affamati di corpi umani, stanno trovando la loro tragica soddisfazione. Sono entrati in un’area a nord-ovest di Gaza e stanno spianando case metro per metro.
Seppelliscono il passato e il futuro, famiglie intere, una popolazione che scacciata dalle proprie legittime terre non aveva trovato altro rifugio che una baracca n un campo profughi. Siamo corsi qui a Jabaila dopo la terribile minaccia israeliana piovuta dal cielo venerdì sera. Centinaia e centinaia di volantini lanciati dagli aerei intimavano l’evacuazione generale del campo profughi. Minaccia che si sta dimostrando purtroppo reale. Alcuni, i più fortunati, sono scappati all’istante, portandosi via i pochi beni di valore, un televisore, un lettore dvd, i pochi ricordi della vita che era in una Palestina perduta una sessantina di anni fa.
La maggioranza non ha trovato alcun posto dove fuggire. Affronteranno quei cingoli affamati delle loro vite con l‘unica arma che hanno a disposizione, la dignità di saper morire a testa alta. Io e i miei compagni siamo coscienti degli enormi rischi a cui andiamo incontro, questa notte più delle altre; ma siamo certo più a nostro agio qui nel centro dell’inferno di Gaza, che agiati in paradisi metropolitani europei o americani, che festeggiando il nuovo anno non hanno capito quanto in realtà siano causa e complicità di tutte queste morti di civili innocenti.
http://www.infopal.it/leggi.php?id=10294&P...25688d737f724b7