LA PAURA DEL DISSENSO

di Massimiliano Perna –ilmegafono.org - 01/02/2009
Davanti allo sfascio delle istituzioni democratiche italiane, emerge la debolezza del dissenso, l’assenza di una protesta solidale e allargata- Eppure, i recenti fatti hanno mostrato come il dissenso terrorizzi il potere

Ci sono parole che hanno un suono diverso dalle altre, che hanno significati più profondi. Parole che hanno attraversato e cambiato la storia. E sono parole che, proprio per questo, fanno paura a chi detiene il potere, a chi cerca di imprigionare ogni speranza e necessità di miglioramento. Dissenso: questa è la parola che oggi fa più paura, non solo tra chi occupa i vertici delle istituzioni, ma anche tra la gente comune. Soffia un vento conformista che fa comodo a chi non vuole cambiamenti, a chi non vuole critiche, perché le critiche fanno riflettere e creano pensiero e perché i cambiamenti possono significare stravolgimento delle attuali gerarchie. Il crollo inarrestabile delle fondamenta dell’edificio democratico in Italia ha un rumore fragoroso che stride con il silenzio di ogni forma di dissenso. Le varie leggi vergogna promulgate in questi anni hanno prodotto disoccupazione, sfruttamento, violazione dei diritti umani riconosciuti dalle convenzioni internazionali e dalla nostra Costituzione, privazioni della libertà di scelta degli esseri umani, limitazioni al diritto di tutti a ricevere un’istruzione pubblica di livello adeguato.

Davanti a ciò, gli italiani, la parte più moderna e civile, hanno reagito con manifestazioni, proteste, azioni che sono sfociate (raramente) in interrogazioni parlamentari. Piccole forme di dissenso, importanti anch’esse, ma piccole per quel che riguarda l’impatto sul cambiamento. E non è colpa di chi ha partecipato a queste proteste. Il problema è che in Italia il dissenso non fa proseliti, non richiama l’indignazione delle masse, perché le masse non hanno più la capacità di indignarsi davanti a nulla. C’è un universo giovanile che spesso viene sottoposto a categorizzazioni troppo semplicistiche. Ho sempre difeso i “giovani”, nella consapevolezza che dentro quell’universo ci fossero tanti ragazzi e ragazze in gamba, con elevate qualità intellettuali, impegnati in attività sociali svolte in silenzio, senza pubblicità o protagonismi. Ho sempre sperato che questa parte virtuosa della società, unendosi con altre parti virtuose, potesse attuare, un giorno, il cambiamento. Di certo, non si tratta di una maggioranza, ma d’altra parte non sono mai state le maggioranze a cambiare il corso della Storia. Purtroppo, mi sono reso conto che la gioventù virtuosa, seppur animata da mille buone intenzioni, non riesce ad emergere, non riesce nemmeno ad abbozzare una strategia per modificare le cose. E ciò è colpa di una società costruita per frenare qualsiasi azione concreta, che abbia la sua genesi in un principio di fondo: il dissenso.

E qui torniamo al nostro discorso iniziale. I ragazzi, su cui tutti scaricano il peso di un ruolo innovatore, non trovano le sponde su cui poggiare le proprie idee, perché quelle sponde, che una volta si chiamavano partiti o sindacati, si sono pian piano spaccate fino a frantumarsi, lasciando orfani tutti coloro che hanno le idee ma non i mezzi per realizzarle. C’è di più: accanto a ciò, troviamo una società costruita sull’immagine e sulla ricerca bramosa di benessere e di soddisfazioni individuali, una sorta di edonismo sfrenato che il sistema capitalista globale stimola, incentiva, fomenta e offre, facendo pagare il prezzo a chi ne rimane escluso, che costituisce l’80% della popolazione mondiale. Davanti ad un “amico” così generoso chi osa dirgli che le sue mani sono sporche? Nessuno, anche perché i complici, che sono i mass media, comunicano ogni giorno che le cose non stanno come qualche povero dissidente fa notare, che bisogna dare fiducia al potere, che si fa il possibile, che prima di tutto bisogna che ci si difenda dai tanti nemici che ci odiano “senza una ragione”. E chi sono questi nemici? Sono nemici inventati, sono tutti coloro che non si siedono a tavola con noi, che hanno idee diverse, vestiti diversi, modi di fare diversi. Sono tutti coloro che ci mettono di fronte alla realtà, coloro che non accettano, che si indignano, che protestano, che in qualsiasi forma dissentono. Sono gli ultimi, i visionari, sono quelli che hanno pensieri alti e tasche vuote, che hanno idee di futuro nonostante non sappiano cosa il futuro gli riserverà, intellettuali e lavoratori, cercatori di verità e disoccupati, giovani di ogni razza, ceto, etnia.

Dissenso, qualcosa che presenta sfumature e intensità differenti. Si è detto che, in Italia, il dissenso si mostra all’opinione pubblica attraverso le manifestazioni, attraverso la “piazza”, che in tanti nominano storcendo il naso. Ma questa forma di “piazza” basta davvero a creare dissenso? La mia risposta, del tutto personale, è negativa. Perché di fronte agli scempi a cui assistiamo, di fronte alla violenza verbale e fisica che il potere usa contro i diritti dei cittadini, non ci si può fermare ad una mattinata o ad una giornata di attivismo, per poi tornare a casa e, tre giorni dopo, dimenticare tutto. Questo tipo di dissenso è quello di una società narcotizzata dal suo benessere, perché manca la fame, la sofferenza vera, la rabbia vissuta ogni giorno, in silenzio, nella solitudine, nel dolore che non arriverà mai alle orecchie e agli occhi di qualcuno. Ci sono troppi movimenti che si indignano per un giorno e per una cosa sola, quasi come se fosse solo un modo per lavare la propria coscienza, la coscienza di appartenere ad un mondo ingiusto. Si protesta per settori, in un individualismo che è identico a quello della società contro cui si protesta. Si scende in piazza per sé stessi, ma mai per gli altri. Non c’è più quel carattere solidale che è alla base di ogni idea di cambiamento, esattamente come non c’è più la solidarietà che un tempo legava le persone nella vita quotidiana.

Adesso c’è solo una logica triste e cupa di sopravvivenza, per cui ci si mette in gioco solo se si può ricavare qualcosa, altrimenti si rimane in casa, distratti, indifferenti, costruendosi un alibi per non sentirsi colpevoli. Allora il dissenso vero rimane solo quello di chi ha veramente fame, vivendo sulla propria pelle situazioni di sfruttamento e miseria, il tutto arricchito dai continui soprusi di un’Italia razzista e violenta, meschina e barbara: sono stati gli immigrati ad esprimere la forma di dissenso più vera, pura, coraggiosa, a Castel Volturno, a Rosarno, a Lampedusa, a Massa. Tutti insieme hanno affollato le piazze senza alcuna autorizzazione, decisi, determinati, nonostante corressero più rischi di un qualunque cittadino italiano. Non hanno pensato a cosa potesse capitare, alle conseguenze: hanno dato gambe e fiato alla loro rabbia giustificata. Come mai nessun italiano, di fronte ad atti che riguardano e danneggiano tutti, è stato in grado negli ultimi venti anni di organizzarsi, di mostrare la propria rabbia nel modo più efficace, nelle forme che la democrazia ancora ci offre? Semplice, perché l’italiano non è disposto a rischiare, a mettersi in gioco; evidentemente non ha fame e, pur se con qualche difficoltà, si accontenta di andare avanti con la sua bella parabola sul balcone e con i suoi espedienti. Un’inerzia inspiegabile.

Eppure il dissenso fa paura, se è vero che Maroni, utilizzando come pretesto le manifestazioni pro Palestina di Milano, ha deciso di emanare una direttiva in cui si stabilisce l’obbligo di filmare tutte le persone che partecipano ad un corteo, proponendo anche di vietare il passaggio di cortei o i sit-in in luoghi simbolo, come monumenti, chiese e perfino supermercati o centri commerciali. Fa paura, se è vero che solo dopo la rivolta anticamorra da parte degli immigrati di Castel Volturno il governo è stato costretto a rafforzare la presenza delle istituzioni sul territorio ed a stringere il cerchio sui capi clan responsabili dell’eccidio di sei africani innocenti.

Ma l’italiano non sembra sentire e accetta tutto, mettendo davanti a sé un paravento di rassegnazione che fa venire i brividi a chi ha i nervi corrosi dalla rabbia, a chi è costretto a vedere la propria voce soffocata. E ciò vale anche sul piano politico. La gran parte dei politici esperisce una forma acuta di irritazione nei confronti del dissenso: il diritto alla critica a cui tutti sono sottoposti è stato ormai relegato, da entrambi gli schieramenti, ad “offesa volgare” o a “discorso pretestuoso”.

Perché non si può attaccare il presidente Napolitano, “il garante della Costituzione”, il quale tace, o comunque non morde di fronte all’attentato che il governo Berlusconi sta preparando contro la stessa Costituzione?

Perché non si può dire che probabilmente Napolitano è d’accordo con la riforma Alfano, in quanto anch’egli ne potrebbe beneficiare?

Perché non si può contestare apertamente un presidente della Repubblica che non difende la legittimità di comportamento di magistrati che cercano di fare il proprio dovere, smascherando il malaffare politico?

Ed ancora, perché si deve rispettare un’istituzione che non rappresenta la volontà elettiva del popolo, ma solo il compromesso tra due schieramenti politici che lo hanno nominato? Infine, perché non si può dissentire da uno Stato che non c’è senza sentirsi per questo chiamare “populisti” o “sovversivi”? La risposta sta nel silenzio, nel silenzio assordante di un dissenso vero.

 

29 aprile 2013

Costruiamo l'alternativa al governo Berlusconi

Giorgio Cremaschi-www.micromega.net
13 marzo 2014

Quello che non c'è

Francesco Baicchi
30 aprile 2013

La coerenza

Francesco Baicchi