Ci
sono parole che hanno un suono diverso dalle altre, che hanno significati più
profondi. Parole che hanno attraversato e cambiato la storia. E sono parole
che, proprio per questo, fanno paura a chi detiene il potere, a chi cerca di
imprigionare ogni speranza e necessità di miglioramento. Dissenso: questa è la
parola che oggi fa più paura, non solo tra chi occupa i vertici delle
istituzioni, ma anche tra la gente comune. Soffia un vento conformista che fa
comodo a chi non vuole cambiamenti, a chi non vuole critiche, perché le
critiche fanno riflettere e creano pensiero e perché i cambiamenti possono
significare stravolgimento delle attuali gerarchie. Il crollo inarrestabile
delle fondamenta dell’edificio democratico in Italia ha un rumore fragoroso che
stride con il silenzio di ogni forma di dissenso. Le varie leggi vergogna
promulgate in questi anni hanno prodotto disoccupazione, sfruttamento,
violazione dei diritti umani riconosciuti dalle convenzioni internazionali e
dalla nostra Costituzione, privazioni della libertà di scelta degli esseri
umani, limitazioni al diritto di tutti a ricevere un’istruzione pubblica di
livello adeguato.
Davanti a ciò, gli italiani, la parte più moderna e civile,
hanno reagito con manifestazioni, proteste, azioni che sono sfociate (raramente)
in interrogazioni parlamentari. Piccole forme di dissenso, importanti
anch’esse, ma piccole per quel che riguarda l’impatto sul cambiamento. E non è
colpa di chi ha partecipato a queste proteste. Il problema è che in Italia il
dissenso non fa proseliti, non richiama l’indignazione delle masse, perché le
masse non hanno più la capacità di indignarsi davanti a nulla. C’è un universo
giovanile che spesso viene sottoposto a categorizzazioni troppo semplicistiche.
Ho sempre difeso i “giovani”, nella consapevolezza che dentro quell’universo ci
fossero tanti ragazzi e ragazze in gamba, con elevate qualità intellettuali,
impegnati in attività sociali svolte in silenzio, senza pubblicità o
protagonismi. Ho sempre sperato che questa parte virtuosa della società, unendosi
con altre parti virtuose, potesse attuare, un giorno, il cambiamento. Di certo,
non si tratta di una maggioranza, ma d’altra parte non sono mai state le
maggioranze a cambiare il corso della Storia. Purtroppo, mi sono reso conto che
la gioventù virtuosa, seppur animata da mille buone intenzioni, non riesce ad
emergere, non riesce nemmeno ad abbozzare una strategia per modificare le cose.
E ciò è colpa di una società costruita per frenare qualsiasi azione concreta,
che abbia la sua genesi in un principio di fondo: il dissenso.
E qui torniamo
al nostro discorso iniziale. I ragazzi, su cui tutti scaricano il peso di un
ruolo innovatore, non trovano le sponde su cui poggiare le proprie idee, perché
quelle sponde, che una volta si chiamavano partiti o sindacati, si sono pian
piano spaccate fino a frantumarsi, lasciando orfani tutti coloro che hanno le
idee ma non i mezzi per realizzarle. C’è di più: accanto a ciò, troviamo una
società costruita sull’immagine e sulla ricerca bramosa di benessere e di soddisfazioni
individuali, una sorta di edonismo sfrenato che il sistema capitalista globale
stimola, incentiva, fomenta e offre, facendo pagare il prezzo a chi ne rimane
escluso, che costituisce l’80% della popolazione mondiale. Davanti ad un
“amico” così generoso chi osa dirgli che le sue mani sono sporche? Nessuno,
anche perché i complici, che sono i mass media, comunicano ogni giorno che le
cose non stanno come qualche povero dissidente fa notare, che bisogna dare
fiducia al potere, che si fa il possibile, che prima di tutto bisogna che ci si
difenda dai tanti nemici che ci odiano “senza una ragione”. E chi sono questi
nemici? Sono nemici inventati, sono tutti coloro che non si siedono a tavola
con noi, che hanno idee diverse, vestiti diversi, modi di fare diversi. Sono
tutti coloro che ci mettono di fronte alla realtà, coloro che non accettano,
che si indignano, che protestano, che in qualsiasi forma dissentono. Sono gli
ultimi, i visionari, sono quelli che hanno pensieri alti e tasche vuote, che
hanno idee di futuro nonostante non sappiano cosa il futuro gli riserverà,
intellettuali e lavoratori, cercatori di verità e disoccupati, giovani di ogni
razza, ceto, etnia.
Dissenso, qualcosa che presenta sfumature e intensità
differenti. Si è detto che, in Italia, il dissenso si mostra all’opinione
pubblica attraverso le manifestazioni, attraverso la “piazza”, che in tanti
nominano storcendo il naso. Ma questa forma di “piazza” basta davvero a creare
dissenso? La mia risposta, del tutto personale, è negativa. Perché di fronte
agli scempi a cui assistiamo, di fronte alla violenza verbale e fisica che il
potere usa contro i diritti dei cittadini, non ci si può fermare ad una
mattinata o ad una giornata di attivismo, per poi tornare a casa e, tre giorni
dopo, dimenticare tutto. Questo tipo di dissenso è quello di una società
narcotizzata dal suo benessere, perché manca la fame, la sofferenza vera, la
rabbia vissuta ogni giorno, in silenzio, nella solitudine, nel dolore che non
arriverà mai alle orecchie e agli occhi di qualcuno. Ci sono troppi movimenti
che si indignano per un giorno e per una cosa sola, quasi come se fosse solo un
modo per lavare la propria coscienza, la coscienza di appartenere ad un mondo
ingiusto. Si protesta per settori, in un individualismo che è identico a quello
della società contro cui si protesta. Si scende in piazza per sé stessi, ma mai
per gli altri. Non c’è più quel carattere solidale che è alla base di ogni idea
di cambiamento, esattamente come non c’è più la solidarietà che un tempo legava
le persone nella vita quotidiana.
Adesso c’è solo una logica triste e cupa di
sopravvivenza, per cui ci si mette in gioco solo se si può ricavare qualcosa,
altrimenti si rimane in casa, distratti, indifferenti, costruendosi un alibi
per non sentirsi colpevoli. Allora il dissenso vero rimane solo quello di chi
ha veramente fame, vivendo sulla propria pelle situazioni di sfruttamento e
miseria, il tutto arricchito dai continui soprusi di un’Italia razzista e
violenta, meschina e barbara: sono stati gli immigrati ad esprimere la forma di
dissenso più vera, pura, coraggiosa, a Castel Volturno, a Rosarno, a Lampedusa,
a Massa. Tutti insieme hanno affollato le piazze senza alcuna autorizzazione,
decisi, determinati, nonostante corressero più rischi di un qualunque cittadino
italiano. Non hanno pensato a cosa potesse capitare, alle conseguenze: hanno dato
gambe e fiato alla loro rabbia giustificata. Come mai nessun italiano, di
fronte ad atti che riguardano e danneggiano tutti, è stato in grado negli
ultimi venti anni di organizzarsi, di mostrare la propria rabbia nel modo più
efficace, nelle forme che la democrazia ancora ci offre? Semplice, perché l’italiano
non è disposto a rischiare, a mettersi in gioco; evidentemente non ha fame e,
pur se con qualche difficoltà, si accontenta di andare avanti con la sua bella
parabola sul balcone e con i suoi espedienti. Un’inerzia inspiegabile.
Eppure
il dissenso fa paura, se è vero che Maroni, utilizzando come pretesto le
manifestazioni pro Palestina di Milano, ha deciso di emanare una direttiva in
cui si stabilisce l’obbligo di filmare tutte le persone che partecipano ad un
corteo, proponendo anche di vietare il passaggio di cortei o i sit-in in luoghi
simbolo, come monumenti, chiese e perfino supermercati o centri commerciali. Fa
paura, se è vero che solo dopo la rivolta anticamorra da parte degli immigrati
di Castel Volturno il governo è stato costretto a rafforzare la presenza delle
istituzioni sul territorio ed a stringere il cerchio sui capi clan responsabili
dell’eccidio di sei africani innocenti.
Ma l’italiano non sembra sentire e
accetta tutto, mettendo davanti a sé un paravento di rassegnazione che fa
venire i brividi a chi ha i nervi corrosi dalla rabbia, a chi è costretto a
vedere la propria voce soffocata. E ciò vale anche sul piano politico. La gran
parte dei politici esperisce una forma acuta di irritazione nei confronti del
dissenso: il diritto alla critica a cui tutti sono sottoposti è stato ormai
relegato, da entrambi gli schieramenti, ad “offesa volgare” o a “discorso
pretestuoso”.
Perché non si può attaccare il presidente Napolitano, “il garante
della Costituzione”, il quale tace, o comunque non morde di fronte
all’attentato che il governo Berlusconi sta preparando contro la stessa
Costituzione?
Perché non si può dire che probabilmente Napolitano è d’accordo
con la riforma Alfano, in quanto anch’egli ne potrebbe beneficiare?
Perché non
si può contestare apertamente un presidente della Repubblica che non difende la
legittimità di comportamento di magistrati che cercano di fare il proprio
dovere, smascherando il malaffare politico?
Ed ancora, perché si deve rispettare un’istituzione che non rappresenta la volontà elettiva del popolo, ma solo il compromesso tra due schieramenti politici che lo hanno nominato? Infine, perché non si può dissentire da uno Stato che non c’è senza sentirsi per questo chiamare “populisti” o “sovversivi”? La risposta sta nel silenzio, nel silenzio assordante di un dissenso vero.