Ci sono solo alcuni grandi carrubi a dare riparo e protezione ad un gruppo di giovani somali, circa una quarantina, fuggiti dalla loro patria per scampare alla guerra, una guerra che ha già decimato le loro famiglie, i loro amici. Dormono all’addiaccio, su alcuni materassi che sono riusciti a procurarsi, in brande improvvisate oppure per terra, perché i letti non bastano per tutti.
Si sono divisi in gruppi, ognuno dei quali occupa lo spazio adiacente ai carrubi, le loro case italiane, in piena campagna, alle porte di Cassibile, a ridosso della ferrovia che lambisce il centro di prima “accoglienza” gestito dall’Alma Mater. Sono lì da fine luglio, da quando il suddetto centro ha iniziato ad espellere coloro che man mano si mettevano in regola con i documenti. Già, perché questi ragazzi hanno fatto richiesta di asilo politico (ne hanno diritto) e dunque hanno ottenuto il permesso di soggiorno provvisorio per motivi umanitari.
Un documento che consente loro di spostarsi, di trovare lavoro, di sopravvivere in un pa ese ostile, subito pronto a punirli, a sfruttarli, ad assoldarli nell’esercito degli invisibili. Un documento che però, per loro, a Cassibile, significa abbandono, isolamento. Nel centro di prima accoglienza ubicato nella piccola frazione siracusana funziona così: i migranti arrivano, vengono assistiti nei loro bisogni primari, poi, una volta espletate le procedure burocratiche, vengono lasciati al loro destino. Devono andare via, per fare spazio ad altri arrivi, che si susseguono continui, incessanti, per fare spazio ad altri “ospiti”, cioè ad altri contributi pubblici. È un flusso continuo che non trova argini.
Nessuno si premura di segnalare all’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (ACNUR) le persone che devono lasciare il centro, in modo da favorire il loro inserimento nel Programma Nazionale Asilo (PNA), che garantirebbe la loro sistemazione nelle strutture per i rifugiati. Nulla di tutto ciò, perché a fare richiesta, secondo la legge, dovrebbero essere gli stessi migranti. Peccato che essi non parlano italiano e che nessuno li informi riguardo tali aspetti burocratici. Così, una volta usciti dal centro e catapultati in un territorio sconosciuto e poco ospitale, hanno dovuto arrangiarsi. Innanzitutto, hanno dovuto trovare un posto in cui ripararsi.
A poca distanza dal centro c’è un grosso appezzamento di terra, a cui si accede attraversando i binari della ferrovia. Gli esuli hanno scelto quella distesa di ulivi e carrubi come dimora provvisoria, come luogo d’attesa. Arrivare da loro non è facile, perché devi attraversare un tratto di linea ferrata, con il cuore in gola per il timore di sentire il rumore del treno in arrivo, un percorso che questi ragazzi fanno ogni giorno per spostarsi, per andare in paese a prendere l’acqua o per salire su un autobus per Siracusa.
Un percorso che sembra avere un significato simbolico: il gruppo di somali vive vicino ad una vecchia stazione, una fermata prima di ripartire, proprio come loro in questo momento, sospesi in attesa di un futuro che non regala certezze. Per fortuna, il destino ha voluto che qualcuno per caso venisse a sapere di loro: padre Carlo D’Antoni, guida della parrocchia di Bosco Minniti e di una comunità che sinceramente accompagna i migranti nel loro percorso di integrazione, e Antonio De Carlo, volontario e anima della stessa comunità, alla fine di luglio hanno incrociato i loro occhi con questa terribile situazione ed hanno subito denunciato il tutto, via fax, al Prefetto di Siracusa, all’ACNUR, al ministero dell’Interno.
Da quel giorno, grazie ad Antonio e a padre D’Antoni (che da diversi anni subiscono minacce e attentati da gruppuscoli di estrema destra, tra lanci di sassi e buste con proiettili), i migranti sono stati informati dei loro diritti e dagli uffici della parrocchia di Bosco Minniti sono partiti numerosi fax di richiesta di sistemazione in strutture PNA. Alcuni sono stati sistemati, altri sono in attesa, perché le strutture sono affollate. Le istituzioni sono state informate, ma nessuno ha risposto.
Quando andiamo a trovare questi ragazzi nella loro dimora improvvisata ci troviamo di fronte ad una situazione inaccettabile in un paese che si professa civile, uno scenario di insopportabile ingiustizia: dopo aver percorso un centinaio di metri di linea ferrata, entrando da un buco aperto tra le erbacce, ci incamminiamo tra le sterpaglie e l’erba secca, volgendo lo sguardo verso due enormi carrubi, sotto cui intravediamo materassi, indumenti, confezioni di pasta, pentole a riposo su improvvisati fornelli di cenere. I migranti sono molto giovani, tutti provenienti da Mogadiscio.
Parlano inglese e uno di loro, che per la sua sicurezza chiameremo Alì, professore di matematica, ci racconta la loro difficile avventura. Sono partiti dalla Somalia, arrivando in Libia dopo un viaggio terribile attraverso il deserto, quindi sono saliti su due barconi, alla volta delle coste siciliane. Ventotto persone su ogni barca, un viaggio difficile, terminato in prossimità di Portopalo, dove una motovedetta della Marina militare li ha tratti in salvo. Poi, il trasferimento a Cassibile, nel centro gestito dall’Alma Mater, infine, una volta ottenuti i documenti, sbalzati fuori senza pietà, senza nessuna assistenza.
Le notti sotto le stelle, con la paura di essere assaltati da zecche e topi, la solitudine spezzata solo dalla solidarietà di altri migranti, stanziati a Cassibile da qualche anno e impiegati nel lavoro agricolo, i quali di tanto in tanto hanno dato loro qualche soldo, privato ai risparmi, per comprare il cibo. Ma Alì ha provato anche a lavorare, a Siracusa, scontrandosi con la crudeltà di chi approfitta di questa situazione di negazione dei diritti: nove ore e mezzo di lavoro come lavapiatti in un ristorante del centro storico, con una paga di appena venti euro. Un solo giorno, poi ad Alì è stato detto che non c’era più lavoro.
Adesso spera di risolvere questa situazione, di trovare un posto dove stare e un impiego per vivere. Al momento non ha trovato che isolamento ed ingiustizia, fatta eccezione per la solidarietà che la comunità di Bosco Minniti ha mostrato nei confronti suoi e dei suoi compagni: “Non si è visto nessuno, solo Antonio e padre Carlo, che ci hanno portato cibo, acqua, coperte per la notte, dandoci anche assistenza medica oltre a preziose informazioni”.
Abdul sta male, ha la bronchite, poche ore dopo andrà in ospedale. Le notti umide in aperta campagna sono più forti di qualsiasi coperta. Con lui altre sei persone sono finite in ospedale per bronchiti e altre malattie respiratorie dovute al fatto di dormire all’addiaccio. Le tante associazioni locali che si definiscono umanitarie, quelle culturali che si dicono sensibili ai problemi dei migranti, i sindacati, tutti scomparsi, a godersi le vacanze e il mare, forse convinti che anche i problemi sociali vadano in ferie.
Silenzio assoluto, come quello delle istituzioni, indifferenti alle tante sollecitazioni giunte dagli uffici della comunità di Bosco Minniti. Un silenzio che fotografa l’attuale clima italiano. Una situazione ai limiti, in un’Italia che spaccia per accoglienza ciò che in realtà è ottusa gestione burocratica, in cui non v’è spazio per la solidarietà. L’Alma Mater sostiene di eseguire la legge, ma viola i principi dell’umanità: è un’associazione cattolica che si ferma al ragionamento burocratico e al dettato dei codici, snobbando i valori che animano il cristianesimo.
Valori che coincidono con quelli laici che uno Stato moderno dovrebbe mettere al primo posto e che invece mortifica, massacra, in nome di interessi che appaiono nascosti solo agli stupidi o agli ipocriti. Accadono cose vergognose già nel momento dell’approdo del migrante, il quale viene privato dei suoi diritti, primo fra tutti quello a richiedere asilo, a causa di comportamenti anomali da parte di alcune questure e della Commissione territoriale che esamina le domande di asilo.
Basterebbe usare buon senso e rispettare le leggi per evitare quanto accade a Cassibile. Basterebbe informare i migranti dei loro diritti e, come ha fatto la parrocchia di Bosco Minniti, far fare loro richiesta di sistemazione in strutture PNA. Forse sarebbe troppo civile per noi italiani. D’altronde, cosa attendersi da un paese razzista che spranga un ragazzino di colore per un pacco di biscotti e poi si premura di nascondere la natura razzista del gesto, con il sostegno delle istituzioni che dovrebbero punirlo?
Si sono divisi in gruppi, ognuno dei quali occupa lo spazio adiacente ai carrubi, le loro case italiane, in piena campagna, alle porte di Cassibile, a ridosso della ferrovia che lambisce il centro di prima “accoglienza” gestito dall’Alma Mater. Sono lì da fine luglio, da quando il suddetto centro ha iniziato ad espellere coloro che man mano si mettevano in regola con i documenti. Già, perché questi ragazzi hanno fatto richiesta di asilo politico (ne hanno diritto) e dunque hanno ottenuto il permesso di soggiorno provvisorio per motivi umanitari.
Un documento che consente loro di spostarsi, di trovare lavoro, di sopravvivere in un pa ese ostile, subito pronto a punirli, a sfruttarli, ad assoldarli nell’esercito degli invisibili. Un documento che però, per loro, a Cassibile, significa abbandono, isolamento. Nel centro di prima accoglienza ubicato nella piccola frazione siracusana funziona così: i migranti arrivano, vengono assistiti nei loro bisogni primari, poi, una volta espletate le procedure burocratiche, vengono lasciati al loro destino. Devono andare via, per fare spazio ad altri arrivi, che si susseguono continui, incessanti, per fare spazio ad altri “ospiti”, cioè ad altri contributi pubblici. È un flusso continuo che non trova argini.
Nessuno si premura di segnalare all’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (ACNUR) le persone che devono lasciare il centro, in modo da favorire il loro inserimento nel Programma Nazionale Asilo (PNA), che garantirebbe la loro sistemazione nelle strutture per i rifugiati. Nulla di tutto ciò, perché a fare richiesta, secondo la legge, dovrebbero essere gli stessi migranti. Peccato che essi non parlano italiano e che nessuno li informi riguardo tali aspetti burocratici. Così, una volta usciti dal centro e catapultati in un territorio sconosciuto e poco ospitale, hanno dovuto arrangiarsi. Innanzitutto, hanno dovuto trovare un posto in cui ripararsi.
A poca distanza dal centro c’è un grosso appezzamento di terra, a cui si accede attraversando i binari della ferrovia. Gli esuli hanno scelto quella distesa di ulivi e carrubi come dimora provvisoria, come luogo d’attesa. Arrivare da loro non è facile, perché devi attraversare un tratto di linea ferrata, con il cuore in gola per il timore di sentire il rumore del treno in arrivo, un percorso che questi ragazzi fanno ogni giorno per spostarsi, per andare in paese a prendere l’acqua o per salire su un autobus per Siracusa.
Un percorso che sembra avere un significato simbolico: il gruppo di somali vive vicino ad una vecchia stazione, una fermata prima di ripartire, proprio come loro in questo momento, sospesi in attesa di un futuro che non regala certezze. Per fortuna, il destino ha voluto che qualcuno per caso venisse a sapere di loro: padre Carlo D’Antoni, guida della parrocchia di Bosco Minniti e di una comunità che sinceramente accompagna i migranti nel loro percorso di integrazione, e Antonio De Carlo, volontario e anima della stessa comunità, alla fine di luglio hanno incrociato i loro occhi con questa terribile situazione ed hanno subito denunciato il tutto, via fax, al Prefetto di Siracusa, all’ACNUR, al ministero dell’Interno.
Da quel giorno, grazie ad Antonio e a padre D’Antoni (che da diversi anni subiscono minacce e attentati da gruppuscoli di estrema destra, tra lanci di sassi e buste con proiettili), i migranti sono stati informati dei loro diritti e dagli uffici della parrocchia di Bosco Minniti sono partiti numerosi fax di richiesta di sistemazione in strutture PNA. Alcuni sono stati sistemati, altri sono in attesa, perché le strutture sono affollate. Le istituzioni sono state informate, ma nessuno ha risposto.
Quando andiamo a trovare questi ragazzi nella loro dimora improvvisata ci troviamo di fronte ad una situazione inaccettabile in un paese che si professa civile, uno scenario di insopportabile ingiustizia: dopo aver percorso un centinaio di metri di linea ferrata, entrando da un buco aperto tra le erbacce, ci incamminiamo tra le sterpaglie e l’erba secca, volgendo lo sguardo verso due enormi carrubi, sotto cui intravediamo materassi, indumenti, confezioni di pasta, pentole a riposo su improvvisati fornelli di cenere. I migranti sono molto giovani, tutti provenienti da Mogadiscio.
Parlano inglese e uno di loro, che per la sua sicurezza chiameremo Alì, professore di matematica, ci racconta la loro difficile avventura. Sono partiti dalla Somalia, arrivando in Libia dopo un viaggio terribile attraverso il deserto, quindi sono saliti su due barconi, alla volta delle coste siciliane. Ventotto persone su ogni barca, un viaggio difficile, terminato in prossimità di Portopalo, dove una motovedetta della Marina militare li ha tratti in salvo. Poi, il trasferimento a Cassibile, nel centro gestito dall’Alma Mater, infine, una volta ottenuti i documenti, sbalzati fuori senza pietà, senza nessuna assistenza.
Le notti sotto le stelle, con la paura di essere assaltati da zecche e topi, la solitudine spezzata solo dalla solidarietà di altri migranti, stanziati a Cassibile da qualche anno e impiegati nel lavoro agricolo, i quali di tanto in tanto hanno dato loro qualche soldo, privato ai risparmi, per comprare il cibo. Ma Alì ha provato anche a lavorare, a Siracusa, scontrandosi con la crudeltà di chi approfitta di questa situazione di negazione dei diritti: nove ore e mezzo di lavoro come lavapiatti in un ristorante del centro storico, con una paga di appena venti euro. Un solo giorno, poi ad Alì è stato detto che non c’era più lavoro.
Adesso spera di risolvere questa situazione, di trovare un posto dove stare e un impiego per vivere. Al momento non ha trovato che isolamento ed ingiustizia, fatta eccezione per la solidarietà che la comunità di Bosco Minniti ha mostrato nei confronti suoi e dei suoi compagni: “Non si è visto nessuno, solo Antonio e padre Carlo, che ci hanno portato cibo, acqua, coperte per la notte, dandoci anche assistenza medica oltre a preziose informazioni”.
Abdul sta male, ha la bronchite, poche ore dopo andrà in ospedale. Le notti umide in aperta campagna sono più forti di qualsiasi coperta. Con lui altre sei persone sono finite in ospedale per bronchiti e altre malattie respiratorie dovute al fatto di dormire all’addiaccio. Le tante associazioni locali che si definiscono umanitarie, quelle culturali che si dicono sensibili ai problemi dei migranti, i sindacati, tutti scomparsi, a godersi le vacanze e il mare, forse convinti che anche i problemi sociali vadano in ferie.
Silenzio assoluto, come quello delle istituzioni, indifferenti alle tante sollecitazioni giunte dagli uffici della comunità di Bosco Minniti. Un silenzio che fotografa l’attuale clima italiano. Una situazione ai limiti, in un’Italia che spaccia per accoglienza ciò che in realtà è ottusa gestione burocratica, in cui non v’è spazio per la solidarietà. L’Alma Mater sostiene di eseguire la legge, ma viola i principi dell’umanità: è un’associazione cattolica che si ferma al ragionamento burocratico e al dettato dei codici, snobbando i valori che animano il cristianesimo.
Valori che coincidono con quelli laici che uno Stato moderno dovrebbe mettere al primo posto e che invece mortifica, massacra, in nome di interessi che appaiono nascosti solo agli stupidi o agli ipocriti. Accadono cose vergognose già nel momento dell’approdo del migrante, il quale viene privato dei suoi diritti, primo fra tutti quello a richiedere asilo, a causa di comportamenti anomali da parte di alcune questure e della Commissione territoriale che esamina le domande di asilo.
Basterebbe usare buon senso e rispettare le leggi per evitare quanto accade a Cassibile. Basterebbe informare i migranti dei loro diritti e, come ha fatto la parrocchia di Bosco Minniti, far fare loro richiesta di sistemazione in strutture PNA. Forse sarebbe troppo civile per noi italiani. D’altronde, cosa attendersi da un paese razzista che spranga un ragazzino di colore per un pacco di biscotti e poi si premura di nascondere la natura razzista del gesto, con il sostegno delle istituzioni che dovrebbero punirlo?