Si può sognare un mondo migliore davanti allo sfacelo odierno? Superfluo entrare nei dettagli, sono sotto gli occhi miei e vostri. Abbiamo tutti gli ingredienti: leggi razziste come nel 1938, Minculpop di stampa e televisione, un Capo. Almeno Mussolini si accontentava della Petacci, che minorenne non era.
Chi ha un po' di tempo e conosce l'inglese può, fra gli altri feroci pamphlet, leggere il seguente:
http://www.timesonline.co.uk/tol/comment/leading_article/article6307752.ece , senza tralasciare i commenti dei lettori.
Ecco il terzo articolo sulle Rivoluzioni.
di
Alain Gresh
Le Monde Diplomatique, maggio 2009, pag. 14-15
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Lo
sfondo era rosso (1). Durante due decenni, dalle sierra
dell’America latina alle risaie dell’Asia, passando per i djebel
dell’Africa del Nord, un identico uragano sembrava portare via
l’ordine coloniale antico e il dominio economico del Nord. Nel
1956, in uno scoppio omerico di risa, il presidente egiziano Gamal
Abdel Nasser annunciava la nazionalizzazione della Compagnia del
Canale di Suez. Nell’Aurès [ndt.: massiccio montuoso algerino] i
fellagha si sollevavano per porre termine allo status di
«dipartimento francese» imposto all’Algeria. Dopo il suo trionfo
all’Avana, Ernesto “Che” Guevara, il «guerrigliero eroico»,
ripartiva verso altri combattimenti antimperialisti, dal Congo alla
Bolivia. In Indocina il popolo vietnamita resisteva ai massicci
bombardamenti effettuati dalla «cittadella del mondo libero». Sulle
lontane montagne del Dhofar, nella penisola arabica, sotto le
bandiere del marxismo-leninismo gli insorti liberavano le tribù e le
donne da un’oppressione millenaria.
Nel cuore stesso
dell’Europa e degli Stati Uniti studenti e operai si rivoltavano
contro il vecchio mondo in nome di un socialismo rinnovato. Riuniti
nel 1973 ad Algeri, i leader dei Paesi non allineati annunciavano la
loro volontà di istituire un «nuovo ordine economico
internazionale» fondato sul recupero delle loro ricchezze naturali,
mentre gli Stati petroliferi davano l’esempio nazionalizzando l’oro
nero. «I tempi stanno cambiando» (The
times they are a-changin),
aveva cantato Bob Dylan…
Sostenendosi all’aiuto dell’URSS,
questi movimenti se ne differenziavano però fortemente, denunciando
la burocratizzazione del potere a Mosca, il suo poco attivismo, la
sua scelta della «coesistenza pacifica» con Washington, assimilata
alla difesa dello statu
quo.
Eppure, al di là delle loro diversità, tutti si richiamavano alla
rivoluzione. Essi volevano rovesciare l’ordine sociale antico,
interno e internazionale, con tutti i mezzi, ivi compresa la violenza
armata o il colpo di Stato. Le «democrazie borghesi» erano
vilipese, le elezioni percepite come uno strumento degli
oppressori.
Nessuno meglio di Jean-Paul Sartre ha espresso
l’essenza di quest’epoca. Nella sua famosa prefazione del 1961
(2) al libro di Franz Fanon Les
Damnés de la terre,
scriveva che la violenza del colonizzato «non è un’assurda
tempesta e neppure la resurrezione d’istinti selvaggi, e neppure un
effetto del risentimento: è l’uomo stesso che si ricompone (…)
Il colonizzato guarisce sé stesso dalla nevrosi coloniale scacciando
il colono con le armi». E il filosofo aggiungeva che questo «figlio
della violenza» attinge «da essa in ogni momento la sua umanità:
noi eravamo persone a sue spese, egli si fa persona alle nostre.
Un’altra persona: di qualità migliore».
Venti, trent’anni
più tardi questo discorso era diventato impercettibile, la più
piccola speranza di un cambiamento dell’ordine sociale ridotta a
una volontà totalitaria, l’ideale di eguaglianza identificato con
l’arcipelago dei gulag. Dovunque si assisteva al trionfo del denaro
e dell’individualismo. Eravamo «condannati a vivere», secondo la
formula dello storico François Furet, «nel mondo in cui viviamo»,
a non più sognare i «domani che cantano». E se conservavamo una
cattiva coscienza generata dalla persistente miseria potevamo
impegnarci al fianco dei campioni dei sentimenti umanitari, pronti a
confortare le vittime delle catastrofi, delle guerre, delle
dittature, come ieri le benefattrici consolavano i poveri
mantenendoli al riparo dalla propaganda dei «rossi». I French
doctors
sostituivano le Brigate internazionali, la carità si sostituiva alla
solidarietà. Quanto alla violenza, il suo impiego era totalmente
screditato, ridotto a terrorismo; solamente la violenza di Stato
dell’Occidente conservava la sua legittimità.
Come è stata
possibile una simile rivoluzione – bisogna dire contro-rivoluzione?
– in un lasso di tempo tanto breve? Vi hanno contribuito diversi
fattori. Lungi dall’uscire durevolmente indeboliti dalla loro
disfatta in Vietnam, gli Stati Uniti riuscirono a effettuare un
ristabilimento tanto più spettacolare quanto più l’Unione
sovietica affondava in un’interminabile stagnazione politica,
culturale e ideologica, testimoniata nel 1968 dalla repressione della
«primavera di Praga» e della speranza di un «socialismo dal volto
umano». Conducendo una battaglia su tutti i fronti, Washington
riuscì a imporre un ordine economico trasmesso dalle istituzioni
finanziarie mondiali, a screditare il «modello socialista», a
sfinire l’URSS in ambigui combattimenti in Afghanistan o nella
corsa agli armamenti, ad assicurarsi la collaborazione delle nuove
elite scaturite dalla lotta anticolonialista.
Perché questa
contro-rivoluzione è nata anche da una disillusione, proporzionale
alle attese messianiche della nascita di un «uomo nuovo», che
Sartre aveva sperato. Certamente, Fanon, fra altri, aveva messo in
guardia contro i rischi di confisca della rivoluzione e aveva
denunciato coloro i quali, sulla loro pelle nera, portavano una
maschera bianca. Ma la realtà superò i suoi peggiori incubi. Le
elite che si erano vantate di «socialismo scientifico»,
dall’Etiopia all’Angola passando per il Congo-Brazzaville, si
erano allineate senza patemi d’animo al fianco dell’ordine
liberale e capitalista. Dovunque si formavano nuove classi, talvolta
tanto rapaci quanto lo erano stati gli antichi coloni.
Nel
campo politico il discredito della «democrazia borghese» sfociò in
una democrazia che di popolare non aveva che il nome e la cui sola
«giustificazione» era l’accertato carattere dittatoriale dei
Paesi alleati dell’Occidente, dall’Indonesia allo Zaire. La lunga
lotta armata non aveva soltanto raggiunto la disfatta del nemico –
e dei suoi numerosi alleati nelle fasce coloniali istruite. Aveva
anche contribuito a imbavagliare ogni voce dissidente: qualsiasi
critica era assimilata al tradimento in tempo di guerra.
In
Algeria il Fronte di liberazione nazionale (FNL) procedette
all’eliminazione non solamente delle forze che gli erano estranee,
ma anche di tutti gli oppositori all’interno dell’organizzazione
stessa. Questi metodi autoritari dovevano prolungarsi ben al di là
dell’indipendenza. In America latina l’instaurazione negli anni
’70 di brutali dittature militari dimostrò che la «democrazia
borghese», le «libertà formali» avevano anche qualche vantaggio,
ciò che già sospettavano i popoli dell’Europa dell’Est.
La
scomparsa dell’URSS e del «campo socialista», il trionfo del
liberismo, il dominio assoluto del Nord sull’ordine internazionale,
il ricorso a elezioni più o meno libere, dall’Europa orientale
all’America latina passando per l’Africa, parvero inaugurare una
nuova era. Gli Obiettivi del millennio per lo sviluppo, adottati
dalle Nazioni Unite nel 2000, traducevano una promessa di riduzione
della povertà, di un allargamento dell’accesso all’istruzione e
alla sanità, di una uguaglianza dei sessi.
In questo contesto
nuovo, le forze rivoluzionarie dovettero rivedere la loro linea, la
strategia, la pratica. Tanto più che la mitologia della lotta armata
(«Creare due, tre… molti Vietnam», proclamava Che Guevara)
dipendeva anche da un astratto romanticismo. Soltanto in seguito a
molteplici dibattiti interni il Partito dei lavoratori vietnamiti, ad
Hanoi, decise alla fine del 1963 di rispondere militarmente, nel sud
del Paese, all’escalation
americana,
cosciente del prezzo che avrebbe dovuto pagare il suo popolo dopo un
tale scelta (3).
Nelson Mandela accettò di avviare un dialogo
con il potere in Sudafrica riflettendo sull’esperienza del passato
e favorì un compromesso che garantiva ai Bianchi diritti sufficienti
a evitare l’esodo che Angola, Mozambico e, in condizioni molto
diverse, anche l’Algeria avevano conosciuto – e anche per
rispondere alle esigenze delle potenze occidentali che occupavano
totalmente la scena economica all’inizio degli anni ’90. Questo
accordo ebbe un prezzo: passò in secondo piano la lotta contro le
profonde disuguaglianze sociali che colpivano in primo luogo i
Neri.
Il sub-comandante Marcos, nel Chiapas, criticò
l’apologia della «violenza rivoluzionaria» che aveva dominato
negli anni ’70: «Noi non vogliamo imporre le nostre soluzioni con
la forza, noi vogliamo la creazione di uno spazio democratico.
Vediamo le lotte armate non nel senso classico delle guerriglie
passate, vale a dire come unica via e sola verità onnipotente,
intorno alla quale tutto si organizza. Ciò che in una guerra è
decisivo non è lo scontro militare ma la politica che in questo
scontro è in gioco. Noi non siamo entrati in guerra per uccidere o
per essere uccisi. Siamo entrati in guerra per farci ascoltare (4)».
Ma la rivoluzione zapatista rimase più allo stato potenziale che a
quello di realtà.
Altrove le lotte armate si spegnevano con
la fine della guerra fredda, sia in America centrale o in Irlanda del
Nord. Perfino in Palestina gli accordi di Oslo del 1993 sembravano
aprire finalmente una via per la pace. Rimaneva qualche residuo,
nello Sri Lanka o nel Paese basco spagnolo, «modelli» ben poco
attraenti per la maggior parte delle forze rivoluzionarie.
Tuttavia,
tutte le illusioni sulla «fine della storia», sull’estinzione
delle disuguaglianze e della miseria, sul nuovo ordine mondiale
internazionale dovevano dissiparsi davanti al fallimento delle
politiche liberiste e alle strategie avventuristiche degli Stati
Uniti. L’affermazione della Cina come dell’India sulla scena
internazionale, anche se non più nel nome del «socialismo
scientifico», ma di una miscela detonante di speranze
millenaristiche, di affermazioni di un nazionalismo culturale e
politico, di egualitarismo fondato sulle tradizioni indigene o
religiose.
L’America latina, che ha subito lunghi anni di
«medicina» liberista, ha inaugurato questa nuova fase con l’arrivo
al potere di movimenti decisi a trasformare profondamente la
situazione e a dare il pane ai più poveri e agli esclusi, in primo
luogo agli indios. E il conflitto diretto con le potenze consolidate
si fa nel rispetto del verdetto delle urne. La violenza armata non è
più all’ordine del giorno.
Nel Vicino Oriente l’ordine
sociale è meno contestato dell’intervento militare straniero, in
primo luogo quello di Washington. La lotta armata, condotta sovente
nel nome dell’Islam sia da Hamas che da Hezbollah e largamente
sostenuta dalle opinioni pubbliche, riporta successi. D’altro canto
Al Quaeda, rete transnazionale senza impianto locale, deve la sua
popolarità, del tutto relativa, soltanto alla sua capacità di
«inferire colpi» agli Stati Uniti. In Asia, infine, la
contestazione delle ineguaglianze si combina, talvolta
contraddittoriamente, a una capacità dei governi di mobilitare le
loro opinioni pubbliche intorno alla difesa di una sovranità troppo
a lungo sbeffeggiata e a una rimessa in discussione dell’ordine
internazionale.
Al di là della diversità delle singole
situazioni, negli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000 è ben
prevalso il periodo di «stabilità». È difficile conoscere verso
quale sconvolgimento stiamo andando; tuttavia il sogno di un mondo
migliore, un sogno vecchio quanto l’umanità, ma i cui contorni
sono profondamente differenti da quello degli anni ’60, sta
ritornando…
(1)
Chris Marker, Le fond de l'air est rouge, documentaire, 240 min,
1977.
(2) Ripeso in Jean-Paul Sartre, Situations V Colonialisme et
néo-colonialisme, Gallimard, Paris, 1964.
(3) V. William J.
Duiker, Ho Chi Minh. A Life, Hyperion, New York, 2001, notamment p.
534 et suivantes.
(4)
www.mediatheque-noisylesec.org/femmes-chiapas/Z4.htm
Adesso anche la Spagna si mette sulla cattiva strada?
Fusioni
Enric Gonzales, 20 maggio 2009 (traduzione dallo spagnolo di José F. Padova)
http://www.elpais.com/articulo/Pantallas/Fusiones/elpepirtv/20090520elpepirtv_2/Tes
l Parlamento approverà domani la legge sulle misure urgenti in materia di telecomunicazioni, che permette la fusione delle reti private. Il decreto iniziale fu approvato con ampia maggioranza, ciò che fa pensare che la cosa sia ormai fatta. Gli impresari televisivi si sono lamentati col governo, hanno fatto valere le loro difficoltà economiche (per quanto si sa, tutti guadagnano soldi meno La Sexta, e Cuatro, che pure guadagna, soffre di un forte indebitamento) e hanno ottenuto quello che chiedevano. Si apre il balletto delle fusioni. In un mercato libero questo è abituale. A volte si hanno addirittura buoni risultati. Tuttavia il mercato televisivo, come si sa, non è libero: si basa su concessioni statali, assomiglia più a un club privato che a un mercato aperto. Qualche volta la legge facilita la riorganizzazione del settore. Qualche altra volta sarebbe soltanto un primo passo verso una situazione indesiderabile e irreparabile.
Come non pensare a Silvio Berlusconi? D’accordo, nella sua situazione attuale, il panorama spagnolo non è simile a quello italiano di 25 anni fa. Berlusconi creò Canale Cinque al margine della legge, assemblando diverse emittenti locali e allineandole su una medesima programmazione, facendo così quello che la legge proibiva: una televisione privata in ambito nazionale. Approfittando della confusione altri crearono le loro proprie televisioni: Rusconi lanciò Italia 1 nel 1982 e Mondatori Rete 4 nel 1984. la Fininvest di Berlusconi le inglobò, creando in pratica un monopolio.
La giustizia nel 1984 ordinò che l’apparato venisse smantellato. Però un grande amico di Berlusconi, il primo ministro socialista Bettino Craxi, fece approvare una legge che legalizzava lo statu quo berlusconiano. E non ci fu ritorno. Quando un’azienda si fa molto potente ed esercita, per di più, qualcosa di affine all’egemonia dell’informazione, diventa molto difficile fronteggiarla. Soprattutto in Paesi con ciclo elettorale permanente, come l’Italia. O la Spagna.
Non conosco il risultato della nuova legge spagnola. Mi limito a constatare che si apre una via verso l’ipotesi del monopolio. Il governo vigilerà perché ciò non accada? Vedremo. I governi passano, la tentazione monopolistica rimane.