Rifiuto è ciò che getto, che non voglio, che mi fa ribrezzo. Il rifiuto, però, profondamente, è l’uomo: siamo ‘gettati’ al mondo, siamo un rifiuto che fiata, che a sua volta fa rifiuti. E che sui rifiuti – visto che l’uomo, il rifiuto, è l’essere che fa rifiuti –, senza più rifiutarli, fa business ecologico. Sul tema del rifiuto – esistenziale, etico, estetico, sociale, ecologista – Guido Viale ha allineato una bibliografia perfino profetica (Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, 1994; Governare i rifiuti, 1999; Azzerare i rifiuti, 2008), ma in questo caso lo scatto letterario è affascinante. In La parola ai rifiuti. Scrittori e letture sull’aldilà delle merci (Edizioni Interno4, 2019), lo scopo di fondo è sottile. Viale lo dice così: “Da Goethe a Kafka, da Calvino a Montale, da Pasolini a Hugo, da Saramago a Coetzee, da Dickens a Ballard – e tanti altri ancora – quei testi documentano in modo incontrovertibile come, a partire da un certo momento della storia (ma già Eraclito aveva trovato una corrispondenza tra un mucchio di rifiuti e “il più bello dei mondi”), i rifiuti siano diventati una componente essenziale e insopprimibile del nostro mondo e delle nostre vite. E di come abbiano finito per imprimere il proprio marchio anche sugli esseri umani, ridotti a scarti quando non servono più”. Io direi, selvaggiamente, che gli scrittori vedono quello che nessuno vuol vedere, immaginano, con virtuosa virulenza narrativa, l’inimmaginabile e arrivano prima degli altri al cuore della questione. In questo caso, l’antologia allestita da Viale – testimonianza di un lettore col fiuto – è affascinante e allucinante: si va dall’immancabile Nome della rosa di Umberto Eco – che illustra come si alienavano i rifiuti nel Medioevo – alla Londra lorda di merci in avaria di Charles Dickens, dove ciò che è rifiuto per uno è oro per l’altro, dall’eruzione distopica di rifiuti di J.G. Ballard (“Scese nelle strade deserte, osservando la leggera cenere che cadeva su Hamilton, proveniente dalle centinaia di falò di rifiuti alla periferia della città e che copriva le strade e i giardini come per l’eruzione di un vulcano vicino”) alla “lordura” e al “trionfo della spazzatura” cantati da Eugenio Montale agli abissi esistenziali di Samuel Beckett e i panorami arsi dal nulla biblico del Cormac McCarthy de La strada (“La città era abbandonata da anni ma ne percorsero le strade ingombre di rifiuti con grande circospezione, tenendosi per mano. Superarono un cassonetto in cui un tempo qualcuno aveva cercato di bruciare dei cadaveri”). Una storia della letteratura per rifiuti – le letture sono molte, reclamano Buzzati a Coetzee, Kafka e Hrabal, Tiziano Scarpa e Javier Marías, Don DeLillo, Jonathan Franzen, Magda Szabó – commentata, per fiocinare di pensieri il nostro status e il nostro Stato, la nostra natura e il mondo. Nel Viaggio in Italia, a Sud, presso Napoli, Goethe ha una illuminazione che folgora: “In quei paesi un povero, uno che a noi sembra miserabile, può non solo soddisfare le più urgenti e immediate esigenze, ma godersi il mondo nel modo migliore; e un cosiddetto accattone napoletano potrebbe altrettanto facilmente sdegnare il posto di viceré in Norvegia e declinare l’onore, se l’imperatrice di Russia gliel’offrisse, del governatorato della Siberia”. Qui al rifiuto si associa il tema della rinuncia, dell’accontentarsi, dell’essere contenti. Concetti non da poco. (d.b.)
Intanto, come nasce questo libro, con quali premesse, dettato da quali interessi questo lavoro antologico?
La parola ai rifiuti raccoglie una rassegna di testi letterari in cui a vario titolo si parla di rifiuti. È una selezione dei circa cento articoli che ho scritto nel corso di quasi vent’anni per il supplemento socio culturale della rivista GSA Igiene Urbana, che si occupa di questa materia da un punto di vista tecnico. Queste letture mi hanno aiutato ad allargare e approfondire lo sguardo su un tema, quello dei rifiuti, che in genere impegna solo in termini strettamente tecnici chi se ne occupa da un punto di vista professionale. Con questo libro intendo accompagnare il lettore a scoprire come mai, a partire dalla fine del Settecento, cioè dalla rivoluzione industriale in poi, dei rifiuti si siano molto occupati la letteratura e gli scrittori (poeti compresi) proprio mentre economisti, sociologi, medici e filosofi non si accorgevano della montagna di scarti che stava crescendo sotto i loro occhi. Quegli scrittori in effetti hanno visto nei rifiuti qualcosa di più di semplici materiali di scarto: una metafora della condizione umana, proprio mentre il mondo delle merci e del consumo celebrava i suoi trionfi.
Che valore ha la letteratura, grandissima – citi da Montale a Beckett, da Goethe a McCarthy – o rasoterra nell’affrontare temi ‘sociali’? Voce che urla nel vuoto o potenza conturbante? La letteratura, poi, si deve porre problemi di ordine sociale, ecologico, politico, etico? Qual è il suo impegno?
In questo ambito la letteratura è sicuramente una voce conturbante. Per quasi due secoli i rifiuti, prodotti in quantità crescenti, non hanno trovato posto nella rappresentazione di un mondo ordinato e in continuo progresso che ci è stata fornita dai saperi ufficiali. Eppure erano là, a testimoniare che ogni ‘bene’, inteso sia in senso economico che sociale, ha il suo rovescio. Che oggi ci sta portando a fondo, perché anche la CO2, causa prima dei cambiamenti climatici che minacciano la sopravvivenza stessa dell’umanità, non è che un rifiuto: lo scarto di tutti i processi di combustione su cui si è retto lo sviluppo della civiltà industriale. La letteratura non si ‘deve’ occupare di problemi specifici; si occupa della vita, perché questa è la sua vocazione. Ma se lo fa bene non può non incrociare e sviluppare uno sguardo specifico, che è quello dell’autore, e per questo diverso dagli altri, su tutti questi problemi.
Quale tra gli scrittori che hai antologizzato ti ha convinto di più, quale ti ha emozionato di più?
Il più emozionante è per me è senz’altro Samuel Beckett che in Finale di partita rende esplicito quello che è il tema di fondo di tutti gli scrittori che in qualche modo hanno toccato o sfiorato il mondo dei rifiuti: l’identificazione dell’essere umano con nient’altro che un rifiuto, la sua svalorizzazione fino all’annullamento totale; unico punto a partire dal quale si può cercare di restituire un senso alla vita: ma a una vita completamente diversa. Il più convincente è senz’altro Italo Calvino, di cui, unico tra gli autori trattati, analizzo ben due testi, in due capitoli diversi: per lui i rifiuti sono non la metafora dell’esistenza, ma una chiave di interpretazione della società.
In assoluto: quali letture hanno segnato la sua vita, c’è un libro che riconosce come stella polare, a cui ritorna con ostinata continuità?
Non credo. Come Harold Wilson riconduce a Shakespeare tutto il ‘canone’ della letteratura occidentale – compresi, paradossalmente, persino alcuni autori che lo hanno preceduto – così io penso che in Dante ci sia tutta la letteratura che è venuta dopo di lui. Senza mai, ovviamente, raggiungerne l’altezza.
“Rifiuto”, lo accennava anche nelle domande precedenti, è un termine che riguarda lo stato esistenziale, esiziale della natura umana, oggi. Rifiutiamo troppo, facciamo troppi rifiuti, abbiamo il timore di essere rifiutati, siamo i rifiuti di un tempo ingiusto, ingiustificati…
La vita, e il mondo, sono fatti di attrazione e di repulsione. Come, oltre ad essere attratti da qualcuno o qualcosa, aspiriamo anche a essere attraenti per gli altri, compresi i beni che ci circondano, così siamo portati o costretti a rifiutare molte cose e molti atteggiamenti delle persone, ma abbiamo paura di essere a nostra volta rifiutati. Ma nei rifiuti c’è qualcosa che, oltre a respingerci ci attrae, a volte in forme morbose: è la nostra vita, il trascorrere del tempo, che si deposita nelle cose che abbiamo usato e che non ci servono più, e di cui dobbiamo sbarazzarci. Così come nell’attrazione c’è sempre, o dovrebbe esserci, anche una componente di respingimento; altrimenti ci identificheremmo totalmente con la cosa o la persona che ci attrae, perdendo la nostra identità. Il fatto è che questi ‘moti dell’animo’ non si distribuiscono in modo uguale tra tutti gli esseri umani: chi più ha più attrae. Chi non ha niente per lo più respinge.
Oggi il tema ambientale – in area sacra come profana – è prepotente, fa concordi tutti. Almeno, quando ci sono manifestazioni di piazza. Cosa ne pensa: sono le solite buone parole che tornano? D’altronde, lei di rifiuti (penso a “Un mondo usa e getta”, 1994) e di ecologia (cito ad esempio “La conversione ecologica”) ha fatto un tema dominante da decenni.
È il colmo dell’ipocrisia. L’ambiente mette d’accordo tutti, fin che se ne parla in astratto, mentre tutti, o quasi, sono impegnati a distruggerlo e devastarlo. Questo gioco è andato avanti per anni, ma adesso è arrivato a un nodo. Se non invertiamo rotta non ci sarà più niente da devastare, perché avremo distrutto tutto il devastabile; compresi noi stessi, l’umanità, a cui stiamo sottraendo le condizioni che hanno reso possibile la sua evoluzione e la sua storia. A quel punto, senza un richiamo all’attrazione che su noi dovrebbero esercitare le cose che fanno bella la vita, la Terra e la convivenza umana non saranno più nient’altro che immani rifiuti.